L’abitudine di ogni mia paura

Incontrai Gustavo in un pomeriggio d’inverno tra la neve bianca e le cinque del pomeriggio che sembravano essere una mezzanotte buia ed indefinita e le boiserie di legno che inghiottivano ogni stanza di quel paese di montagna, ed intorno la solitudine era una lampada sempre accesa.

Giovanna giocava a carte su un vecchio bancone di legno e ad ogni apertura di porta di qualche cliente assetato lei sbuffava, come una vecchia teiera mal funzionante ed anche irritante, ed io stavo lì, tra teiere e carte da gioco e il buio che sembrava non finire mai.

L’Irish coffee che tenevo tra le mani era come un strato di acqua di mare, freddo in superficie e caldo in profondità, e la Giovanna che ancora mi guardava male per averglielo fatto preparare.

Da fuori, oltre le vetrine, vedevo passare le compagne di scuola e loro neanche mi guardavano pur sapendo di conoscermi bene, si rifugiavano nei cappotti delle loro madri, dietro pettegolezzi impenetrabili per chi, come me, la montagna non le scorreva nelle vene.

Continuai a guardare le mie compagne di scuola dietro al vetro appannato di umidità e vapore di cappuccini e alla fine, distratta e per niente appagata, presi un mazzo di carte e ci cominciai a giocare.

“Non rubarci le carte, Natalia! Stiamo ancora finendo la partita.”

La voce di Giovanna mi strideva nelle orecchie come campane ammaccate e vecchie lavagne di scuola consumate, così fastidiosa da farmi venire i brividi.

Il bar, stranamente animato da qualche cliente al banco, la distrasse e non le diedi retta, portai le carte verso di me, mescolandole con estrema noncuranza, non notando lo sguardo di chi ancora mi guardava storto per quell’affronto.

La porta si aprì di nuovo e l’odore di neve e di caffè si fusero insieme, mi sembrò come se fosse odore di tabacco, e fu lì fra la sua barba e il suo sigaro da poco spento che conobbi Gustavo, pensando che le sue camicie a quadretti difficilmente le avrei dimenticate, specie per come le indossava.

Ascoltai cosa aveva ordinato, non seppi nemmeno io il perché, ma lo ascoltai.

Chiedeva di un the espressamente inglese, un caffè ristretto e forte e un panino con la fontina, e in lui tutto mi sembrò assolutamente strano, decisamente bizzarro.

Si spostò dal curvo balcone di legno rosso dell’entrata e si avvicinò verso la sala piccola e piena di tavolini dove c’ero io, abbassai la sguardo per non incontrare la sua faccia, scoprendomi rossa e timida per averlo studiato fino a poco prima.

“Posso?”

Si sedette ad un tavolo di distanza dal mio, ed io gli annuii gentilmente.

Mi chiesi se tutto quello che stavo pensando fosse visibile ai suoi occhi.

“Particolarmente freddo oggi.”

La gente parla sempre del tempo, quando non ha altra visuale di conversazione.

“Io preferisco il caldo.”

“Donna di mare?”

“Più da campagna.”

Si mi mise a ridere così spontaneamente da coinvolgere anche me.

“Ci siamo già visti?”

“Io non la ricordo.”

Gustavo mi guardava dritta negli occhi con i suoi baffi rossicci e le labbra carnose e la fronte alta, e si toccava il naso istintivamente.

“Mi sembrava, perché anche io non mi ricordo di lei, e qui conosco tutti.”

“Diciamo che da questo posto, vado e vengo, come un’altalena.”

Giovanna era ormai persa tra le etichette di liquori che non riusciva a leggere, e mi accorsi che fuori nevicava ancora e che l’odore di quell’acqua ghiacciata e del tabacco erano evaporati da quando avevo Gustavo accanto.

“Piacere, Gustavo.”

Aveva le mani grosse e una stretta di mano incredibilmente tenue.

“Natalia, piacere.”

Con qualche mossa finii il mio solitario, perdendo senza speranza una partita ormai abbandonata a se stessa, Gustavo osservò le mie mani ed i miei anelli e poi senza pensarci gli passai le carte, guardando verso le montagne lui cominciò a mescolarle.

A fine partita si alzò dalla sedia di nuovo tutto imbacuccato nei suoi vestiti e si diresse verso la porta per uscire.

“Per quanto resterai?”

Il tu era arrivato solo con i saluti.

“Non lo so ancora.”

“Rimani ancora un po’, qui non viene mai nessuno. Non è un posto molto conosciuto, ma queste montagne sono meravigliose. C’è un punto, appena sopra il comune, da dove puoi scorgere tutta la vallata.”

“Non ci ho mai fatto caso.”

Nell’ultimo istante non mi rivolse più nemmeno un gesto di congedo, si diresse ritto per la sua via, verso sua moglie, verso la strada di casa sua, verso la sua idillica quotidianità.

Così in un attimo e in un gesto, in un saluto condensato in un addio, il bar fu vuoto, quasi spoglio di sentimenti e di gente che creava come sottofondo un brusio fastidioso ma anche rassicurante, ora che invece il silenzio era raggelante negli istanti successivi ad un arrivederci.

La Giovanna mi passò accanto veloce e le perle intorno al suo collo balzarono in alto per poi tornare al loro posto, si rimpossessò delle sue carte cominciando a giocare al solitario con la sguardo basso e scortese e la testa china che chiudeva ogni tentativo di conversazione.

Ruppi il malto bianco di neve fresca sulla strada e girai le chiavi nella toppa della porta di casa mia, avevo voglia di calore e di togliermi i vestiti di dosso, di farmi travolgere dai profumi dei miei mobili e dei fiori secchi appesi al muro.

L’ingresso con lo scrittoio di legno appoggiava chissà quanti fogli di pubblicità dimenticata, ci buttai le chiavi sopra e misi il capotto sull’attaccapanni.

Le perline di legno chiaro della boiserie mi accoglievano calde e luminose, in soggiorno la brace del camino emanava ancora un forte calore, dalla madia antica di noce presi un calice ampio e ci versai del Barolo rosso scuro, buttai un cuscino a fiori vicino al camino, tolsi le scarpe e mi sdraiai accanto ai tizzoni di brace arancione e grigia, scaldandomi tra essa e il vino.

Attizzai il fuoco con un po’ di legna e qualche soffio della mia bocca, poi mi ributtai sul cuscino e fissai il soffitto color crema, notai le crepe, qua e là qualche ragnatela, una vecchia macchia di umidità e forse anche un vecchio strato d’intonaco.

Respirai a fondo e in un attimo Gustavo e la Giovanna erano lontanissimi, quasi dimenticati. Pensai solo agli addii e le partenze, a quante scatole servono per contenere chiavi, pezzi di fogli, ricette, presine, pentole, soprammobili, pensai a quanti vestiti può contenere una valigia, a quante pieghe avranno i propri vestiti tra un tragitto e l’altro, a l’odore di chiuso, il freddo da mandare via quando arrivi in una casa vuota, le finestre sporche, le tende da accorciare o da allungare, i nuovi tragitti da imparare, nuove cartine da leggere, nuovi indirizzi da segnarsi in agenda.

Tra il soffitto e i pensieri, la bottiglia di vino era già a metà e il corpo si era decisamente scaldato abbastanza, mi alzai di scatto stanca di guardare i muri di casa mia.

Andai in cabina armadio e da vecchi scaffali bianchi e un poco scrostati tirai giù logore valige di pelle nera e due borsoni marroni, come presa dalla rabbia cominciai a riempirli con tutti i miei vestiti presi tra armadi e cassetti fino a che non mi fermai inerme e mi resi conto che la cabina armadio era diventata un campo minato.

Feci scivolare il corpo contro un’anta dell’armadio e finì sul pavimento con la testa tra le mie mani, esausta di quella lotta tra andare e partire quando l’abitudine faceva capolino in ogni mia paura.

Andai a far affievolire il fuoco del camino, riposi la bottiglia di vino nella dispensa, raccolsi il cuscino da terra e lasciai i vestiti a metà tra le valige e il pavimento.

Forse aveva ragione Gustavo, restare era giusto eppure io non sentivo di farcela, cosa poteva offrirmi la montagna in quel momento e cosa io potevo darle in cambio, senza il peso della rabbia, senza sapere ancora dove fosse casa?

Pensai che le proprie radici servono solo quando, in ogni momento, si è certi di poterci estrarre un grande, immenso, sentimento sereno, per preparasi poi il cammino verso un nuovo terreno. 

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Discussioni

  1. Mi piace molto come scrivi, Marta. Di questo racconto amo l’altalenare di sensazioni, l’incertezza dei sentimenti, la difficile preparazione del partire, l’incontro muto giocando a carte… l’appartenere alla montagna, ma con radici tenui. Bella, la tua riflessione finale, cosi’ diversa dal mio rapporto personale con le radici (metto radici ovunque io vada, alcune piu’ forti, altre piu’ deboli, e cosi’ trovo un pezzo di ‘casa’ in tanti posti, dove amo ritornare.) E’ sempre un piacere leggerti. Grazie.

    1. Ciao Isabella 😀
      Grazie per avervi commentata e letta, ancor più contenta se il racconto ti è piaciuto!
      Sono felice che ti sia arrivato il senso del ritmo e la fatica, a che a volte strugge davvero, tra ciò che comporta restare o andare, tutte e due faticosi e in un certo qual modo incerti.

  2. Accurate descrizioni, ambientazione evocativa. Ottima la caratterizzazione della protagonista e del suo stato d’animo senza ricorrere a spiegazioni.

    1. Massimo, grazie mille! Hai fatto un commento attento, da buon lettore, quindi grazie di cuore per avermi letta e capita così bene! Riuscire ad essere evocativa e dare corpo e spessore alla protagonista è gran cosa, grazie ancora!