Una sedia dove sedersi

Serie: L'autunno del 2007


Oramai lavoravo all’L6 da quasi due mesi e, mio malgrado, m’ero abituato in maniera molto rapida al ritmo del lavoro. Il sabato mattina spalancavo gli occhi, mi rigiravo tra le coperte, guardavo l’orologio e mi disperavo. Non ero capace di andare più in là delle otto e mezza, ero stato programmato a dovere e per quanto mi sforzassi di rimanere fermo dove stavo dopo un po’ dovevo tirarmi su per forza.

Era il mio corpo che mi ordinava di farlo, le mie gambe, le mie braccia. Un fastidioso impulso di natura formicolante mi costringeva a strisciare fuori dal letto. Mettevo i piedi nudi sul pavimento e rabbrividivo.

La luce grigiastra che entrava dalle persiane della finestra presagiva la terribile minaccia di una giornata sterminata. Tutto quello che potevo permettermi di desiderare per far fronte alla vacua lentezza dello scorrere del tempo era una sedia e un posto abbastanza tranquillo in cui appoggiarla. Ci riflettevo e davvero non mi veniva in mente nient’altro.

Andavo in bagno e facevo quello che dovevo fare. Mi lavavo i denti, mi sciacquavo la faccia e pensavo: «Mannaggia, e adesso?»

Tornavo in camera e mi vestivo con quello che avevo lasciato in giro il giorno prima, mi infilavo le scarpe, raccattavo la giacca e uscivo.

Per arrivare al bar a piedi mi ci volevano più o meno cinque minuti, accendevo la prima sigaretta della giornata e tossivo un po’. Camminavo per strada e guardavo dritto davanti a me, poi davo un’occhiata al cielo. Lungo le rotte tracciate dal vento gelido enormi velieri neri chiamavano a raccolta il tuono.

Mi fermavo al semaforo, aspettavo che fosse rosso e ripartivo camminando sulle strisce pedonali. Passavo di fianco ai giardini, spuntavo nel piccolo centro commerciale, attraversavo la piazzetta, spingevo la porta posteriore del locale ed entravo. Erano le nove, ordinavo un caffè. Mi sedevo al solito tavolo vicino alla vetrata e guardavo fuori in cerca di qualcosa. Ma fuori non c’era niente di rilevante o di nuovo. Ero solo, disarmato. Davanti a me si innalzava un’insensata montagna di minuti.

Forse, riflettevo, sono davvero uno spostato. In effetti più ci pensavo più mi pareva possibile.

Per non dar peso a questa drammatica eventualità mi alzavo e andavo a caccia di qualche giornale, tornavo al mio posto e, pagina dopo pagina, tentavo di capire quello che stava succedendo in giro. Era orribile.

Una lista interminabile di disastri, omicidi e disgrazie profilate mi venivano incontro sussurrando sottili verità d’apocalisse. Scorrevo gli articoli e avevo la netta impressione di essere vivo per miracolo, a volte perfino l’oroscopo riusciva a minacciami. Chiudevo tutto e riprendevo a guardar fuori. Se un padre di famiglia impazzito fosse entrato nel locale brandendo un badile insanguinato avrei fatto in tempo a vederlo e ad architettare qualcosa per salvarmi.

A mezzogiorno e mezzo mi alzavo, pagavo e tornavo a casa per il pranzo. Poi alle due meno un quarto ero di nuovo lì.

Molto spesso passavo l’intero pomeriggio al tavolino e poi tiravo dritto fino a notte fonda, fumavo molte sigarette, bevevo un sacco di birra e cenavo con pistacchi, noccioline e patatine. Passavo così il mio giorno di riposo, prendevo fiato, provavo a stendere le gambe e, in generale, non facevo niente di che, non pensavo che potesse succedere qualcosa di diverso da quello che stava succedendo, non in quel momento, non lì, non a me.

Per qualche ragione non ci credevo, non credevo più a nessuno di quelli che, volta dopo volta, mi venivano a raccontare il contrario. Avevo la sensazione che fossero tutte storie, con me non attaccavano.

Serie: L'autunno del 2007


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Discussioni

  1. “Scorrevo gli articoli e avevo la netta impressione di essere vivo per miracolo, a volte perfino l’oroscopo riusciva a minacciarmi.” Bellissima questa frase, mi ha fatto sorridere, ma è anche molto vera.