
LE AMICIZIE
Serie: Ritrovarsi...
- Episodio 1: L’Archivio
- Episodio 2: Nessuno in Ascolto
- Episodio 3: RI…CONOSCERSI
- Episodio 4: IN MEZZO AI VETRI
- Episodio 5: FILO SOTTILE
- Episodio 6: LA SCELTA
- Episodio 7: L’ORA DI FILOSOFIA
- Episodio 8: IL CASSETTO VIVO
- Episodio 9: LIVIA
- Episodio 10: CORTO CIRCUITO
- Episodio 1: LE AMICIZIE
STAGIONE 1
STAGIONE 2
Per alcuni giorni il diario restò nel cassetto, mezzo coperto da cartine e cuffiette sventrate. Ogni volta che cercava altro — un accendino, una penna, una moneta — Andrea gli faceva scivolare sopra qualcosa, come a risotterrarlo. Ma le cose che cerchi di seppellire fanno sempre rumore.
Il blu della copertina non si spegneva. Resisteva. Un colore ostinato tra briciole e polvere. Non un oggetto: una presenza. Bastava poco per sentirla: un filo teso, un fastidio che graffia, un richiamo silente. Andrea non lo guardava mai, ma sapeva che era lì. Aspettava.
Andrea voleva solo tirare il fiato, smettere di macinarsi dentro. Ma quel cassetto era uno specchio serrato, e lui non aveva il coraggio di romperlo.
La scuola andava in fotocopia. Entrate uguali, risate di branco, ruoli fissi: chi comanda e chi fa il coro. Edo sparava cazzate, Teo imitava i prof, tutto già visto. Andrea stava lì, corpo presente, testa altrove. Annuiva, buttava lì battute di riflesso, si lasciava trascinare dal brusio. Per un po’ funzionava — sembrava quasi di starci dentro davvero.
Poi bastava un istante di silenzio, quella fessura tra una risata e l’altra, perché il vuoto lo colpisse: fuori tempo, fuori posto.
In quel taglio la voce di Marco si infilava senza chiedere permesso. Non un ricordo: una spinta. Lo costringeva a guardarsi, a pensarsi, a vedersi. Era un urto. Una verità corta e tagliente che non sapeva dove mettere.
A scuola incrociava spesso Milena. Sempre meno per caso. Sempre più lontana. Un giorno la vide con uno alto: il colletto storto come se qualcuno gliel’avesse appena sfiorato, libro piegato in mano. Lui disse qualcosa e lei gli regalò una risata breve, in quel modo che Andrea conosceva bene. Non il suono: quell’inchino minimo. Peggio di un bacio. Spazio concesso.
Dentro scattò qualcosa: caldo che stringe, un ronzio nelle orecchie. Le dita strinsero un attimo la spallina dello zaino. Gesto minuscolo, invisibile agli altri, ma bastò a dirgli quanto lo avesse punto.
Si vide mentre gli afferrava il collo e lo schiantava sull’armadietto. Un tonfo secco di lamiera. Immaginò il sangue colare dal naso, un rivolo sul pavimento. Lo colpiva finché non restava che silenzio. E in quel silenzio lei sarebbe stata dall’altra parte, accanto a lui.
Poi la voce secca, sua, che lo fermò: Se tocchi lui, spacchi anche lei.
Restò lì: idiota. Bambino. Scoperto. Non era gelosia del corpo: era lo spazio che lei concedeva a un altro. Una spalla, un lampo di complicità , il diritto di esserci. Forse non era stata una storiella da corridoio come si era raccontato per stare meglio. Forse era stata vera. Forse mollarla era stata una cazzata.
Non fece niente. Non disse niente. Si impose di non voltarsi. Contò fino a cinque. Al sei si voltò.
Rimase nella terra di nessuno dove abitano i codardi e i feriti. La partita correva, ma per lui non c’era panchina.
Un pomeriggio si rollò una canna storta, più per inerzia che per voglia. La cartina gli si bagnò in punta, il filtro venne su di traverso. Primo tiro: graffio secco in gola; secondo: tosse in due colpi, gli occhi che pizzicavano. Eppure la finì. In bocca gli rimase l’amaro grasso delle noccioline rancide, quello che non va via nemmeno se bevi.
Si sdraiò sul letto e il soffitto gli venne incontro. Pesante. Ogni respiro lo abbassava di un dito. Non volava: affondava. Quando riaprì gli occhi era tardi. La stanza a scacchi: tapparelle a metà , luce grigia delle cinque e qualcosa. Dentro, una sospensione stupida: sorriso che sale per niente e cade subito, lasciando il vuoto più vuoto. In testa solo la luce cruda, senza paralume, che metteva in risalto solo le crepe.
Andò in bagno. Rubinetto tutto aperto. L’acqua gli batteva in faccia e scendeva senza portare via niente. Provò a sputare, ma non uscì nulla: solo un filo amaro in gola. Si guardò allo specchio appena un secondo — occhi rossi, pelle lucida — e abbassò lo sguardo.
Tornò in camera con la stessa ansia addosso: una pressione ottusa che non mollava, un vuoto gonfio che gli occupava il petto. Aveva bisogno di un contrappeso. Di un antidoto, qualcosa che lo riportasse a terra.
Aprì il cassetto. Il diario era lì, semisepolto sotto cartacce e astucci. Lo prese. Lo aprì.
13 dicembre 1975
Ludovico, l’amicizia è un elastico: più lo tiri, più fa male quando si spezza.
Con Lele… non so nemmeno se chiamarlo amico. Se sparissi per una settimana, verrebbe a cercarmi? Io dico di sì, ma forse lo penso solo perché ho bisogno di crederlo. Io lo cercherei.
Con lui è strano. A volte sembra non vedermi: ride con gli altri, lascia che mi prendano in giro, e io resto lì, trasparente. Una volta hanno detto che gli sto sempre addosso. Lui non ha smentito. Ha lasciato che restasse così. E per un attimo l’ho creduto anch’io, di essere solo un peso.
Mi sono sentito ferito. Stavo per piangere davanti a tutti, invece ho resistito. Ho aspettato di andare in bagno e l’ho fatto lì, da solo. Piangevo piano per non sentirmi. Neanche io volevo ascoltarmi. E mi sono giurato che lo avrei ignorato per sempre.
Ma poi basta un gesto piccolo — una volta mi ha passato mezza rosetta senza che glielo chiedessi — e sento che potrei seguirlo ovunque. Forse sono io il problema: non mi accontento. Vorrei essere il suo unico amico. E so che non si può. Che è egoismo. Ma senza, mi sembra di non valere.
Ma un amico cos’è? Uno che ti copre quando fai una cazzata, o uno che ti ferma prima? Uno che ride con te o uno che ti dice in faccia: «hai torto»?
A volte penso che un amico sia quello che resta anche quando non hai niente da offrire. Ma non ne sono sicuro. Forse l’amicizia è solo avere qualcuno che ti aspetta al bar dopo scuola. O forse è molto di più, e io non lo troverò mai.
Andrea si lasciò cadere meglio sul materasso, il diario aperto sul petto. Alzò gli occhi al poster sgualcito dell’NBA: cinque maglie uguali, fratelli solo in apparenza. In testa, però, c’erano Edo e Luca.
Ridevano di tutto. Anche di chi inciampava. Anche del tipo in stampelle che trascinava il piede. Con Edo il codice era semplice: sguardo complice e basta, purché puntato nella stessa direzione — dura, svelta, senza profondità .
E io, per Edo, cosa sono? E se sparissi una settimana? E se dicessi che Samir mi sta simpatico?
Il diario gli faceva presa sulle costole: nessuna risposta. Forse Edo e Luca non erano amici. Forse non lo erano mai stati. Forse erano solo le sue ombre.
Ripensò a quando avevano contato di più di due comparse: FIFA fino a notte, cestini rovesciati e fuga, risate per un prof che sbagliava i nomi, il bagno chiuso e una canna in tre. In quei momenti aveva creduto bastasse: condividere il ridicolo, un segreto magro, un pezzo di fumo.
Ma adesso Marco gli piantava addosso la domanda: è questo un amico? Con loro avrebbe potuto raccontare il nodo alla gola quando non respirava? Le volte in cui si sentiva perso?
Li immaginò: Edo che avrebbe riso per coprire l’imbarazzo, Luca che avrebbe abbassato gli occhi e cambiato discorso.
La risposta era già lì.
Il diario pesava. Un giudice muto. Edo e Luca riempivano il tempo, certo. Ma se fosse caduto? Nessuna mano. Solo sguardi. Freddi. Già altrove. Già in cerca di un’altra scena.
Gli venne addosso un pensiero secco, senza cornice: smettere.
Banco vuoto, il prof che legge l’appello e scivola oltre.
Fine.
Nessuno che chieda perché.
Un lampo breve, da lasciargli addosso un brivido.
Si tirò su di scatto, graffiando le mani contro le lenzuola, ma non bastava. Inspirò forte, come per scacciare l’immagine.
Affondò le unghie nel palmo finché la pelle non cedette un poco. Un dolore secco, minuscolo, che lo teneva a galla. Bastò a ricordargli che c’era ancora.
Serie: Ritrovarsi...
- Episodio 1: LE AMICIZIE
È come il cane che si morde la coda: se non riesci a essere te stesso con una persona, non può nascere un vero legame. Se non crei un legame forte, non puoi essere davvero te stesso. Mi sembra che sia proprio questo il problema di Marco e Andrea.
Leggere le tue storie è sempre tempo speso bene.
In questo episodio, ho trovato una interessante riflessione introspettiva sull’amicizia, che in parte aiuta a entrare nella mente del protagonista, il quale, forse, di un’amicizia vera non è capace; per via del fatto che, come in qualsiasi relazione affettiva, implica di doversi esporre, mentre lui pare chiuso nel suo guscio con fuori un mondo che sente avverso. Ciao Lino e grazie per la lettura
Se avessi incontrato Marco nel ’75, gli avrei detto che un amico è chi resta tale nel tempo e ti sta accanto nel bene e nel male. Si può anche litigare, ma se è vera amicizia poi torna tutto come prima; forse alla base ci sono le affinità elettive. Per quanto riguarda Lele, ha un comportamento ambiguo: potrebbe essere che sia innamorato di Marco, ma lo nasconda anche a sé stesso, oppure che stia giocando con i sentimenti dell’amico per poi ridere di lui con gli altri.
P.S.: Se devi usare la parola “fine”, cerca di metterla all’inizio e non alla fine del testo: c’ero rimasta male.
Mi ha colpito molto la tua idea sulle affinità elettive: in fondo è proprio lì che si decide se un’amicizia resiste o meno al tempo. Hai colto benissimo l’ambiguità di Lele e confesso che a volte mi verrebbe voglia di svelare come andrà a finire il racconto… ma non posso. Posso solo anticipare che qualche colpo di scena non mancherà .