
LEGITTIMA DIFESA
Uno schiocco di dita è bastato per risvegliarla dal torpore, l’ha sentito, secco e nitido nella testa. Apre gli occhi e respira piano, sa che nel buio li con lei non c’è nessuno, ma sa anche con certezza a chi appartiene quella mano. La stessa che l’ha guidata per strade a lei sconosciute, vicoli ciechi nei quali non pensava di entrare, puzza di piscio e gatti in calore. La stessa che stringeva forte la sua quando aveva paura, promesse di palmi che sfregano a esaudire speranze. La stessa che nel seguire profili creava silenzi, l’indice a insinuarsi nelle pieghe improvvise, pelle d’ebano esplodeva in amplessi ricercati. La stessa che un giorno, come un singhiozzo inatteso, invece di accarezzarle i capelli ha impugnato il coltello. La lama che affonda a lasciare ricordi come cicatrici indelebili.
Venerdì 22 settembre 1989, la caffettiera saltò in aria alle quattro e trentatré, non si mise a piangere quando la sua collega le disse per l’ennesima volta “negra di merda” e quella sera, dopo tanto, sarebbe uscita. Il locale il medesimo, la gente anche, fumo che si impregna sui vestiti, birre rovesciate sui tavoli, l’estate profumata lasciava il posto all’autunno in fermento, il vestito a fiori a incorniciarle le forme. Sguardi che si incrociano e saluti scontati, il barista senza chiedere le porge un bicchiere, rum scuro e un cubetto di ghiaccio, adora sentire il rumore che fa mentre i denti lo frantumano.
Per prima cosa notò il suo naso aquilino, piccoli tondi occhiali vi si appoggiavano sopra. Ciocche castane e arruffate gli ricadevano sulla fronte, seduto su uno sgabello al bancone beveva e osservava, del tutto a suo agio in quel covo d’Africa. La musica soffusa lasciava spazio alla voce di chi aveva qualcosa da dire; sapeva se lo sarebbe portato a letto. Di solito capitava che alcuni le lasciassero dei soldi, dieci o venti mila lire, non si era mai sentita né offesa né puttana, aveva solo voglia di scopare, così come capita a tutti.
<< Ciao, sono Hala >> gli disse, stuzzicando la catenina che aveva al collo.
Lui gli tese la mano dallo scarno polso, le vene in rilievo << Piacere… Roberto >>
<< Come sei finito in sto buco? È strano vedere bianchi qua dentro >> rise. Lui notò il suo incisivo appena scheggiato.
<< Dovevo beccarmi con un tizio, ma presumo a questo punto non venga più. Tu, sei di casa? >>
<< Diciamo che bazzico ogni volta che voglio qualcosa. >>
Si erano capiti.
Per strada non c’era quasi più nessuno, San Salvario a quell’ora era per la feccia, Janis Joplin urlava da qualche finestra ancora aperta, si baciarono sulle note di Oh, sweet Mary . Andarono da lui, il pesante portone di legno si aprì cigolando, l’androne del vecchio palazzo era buio, Hala corse verso le scale, era euforica, gli piaceva quel tipo, tanto.
La mansarda era piccola, odore di chiuso. Un poster di Jimmy Hendrix, dagli angoli mangiati, dava un po’ di colore alla stanza, sulla stessa parete il materasso buttato a terra, come giaciglio di fortuna, era avvolto da un lenzuolo stropicciato. Sindone sconosciuta.
Si spogliarono a vicenda, furiosi. Erano eccitati come cani in calore, lo spinse e gli salì sopra, cominciò a muoversi lentamente, gli occhi chiusi e la testa rivolta al soffitto, non pensava, voleva solo godere. Lo sentiva gemere, le mani sui grossi seni stringevano più forte a ogni suo sfregamento, aumentò il ritmo e lo morse sul collo, l’urlo del dolore si confuse con quello intenso del piacere, vennero insieme, come se si conoscessero da sempre, come se fosse l’ultima volta.
Era un tossico, di quelli ormai bruciati, ma lo amava, da farsi male, aveva imparato ormai a sopportare quella tortura, fitta fastidiosa e costante, ma indispensabile. Vederlo in botta a ogni buco, dovere lavorare di più per comprargli la dose, rinunciare a se stessa per far rinascere lui. Ma resisteva, non c’erano perché, come sapesse fin dal principio che non poteva andare diversamente.
Lo trovarono un sabato mattina nel cesso della stazione, in mano una fotografia a ricordagli chi era. Gli occhi fissi e grigi, a cercare la comprensione di colei che stava tradendo.
Cinque mesi, quelli in cui sono stati insieme, quelli che sono passati dall’abbandono. Glielo aveva visto fare tante volte, non sarebbe stato difficile. Il laccio deve stringere bene, tiralo forte con i denti, batti, cerca la vena e lasciati andare. La testa appoggiata al muro, le lacrime a scorrere piano.
E torna a quando scalza correva verso il sole sulla sua terra bruciata. La polvere si alzava e i sassolini oramai non facevano più male, girotondi a faccia in su ad aspettare la pioggia. E la scuola senza porte, i banchi con i buchi per infilarci le dita, lavagne come specchi per disegnare sorrisi, autoritratti di felicità. E l’acqua nel pozzo, chilometri con il secchio sulle spalle, suo fratello che le faceva lo sgambetto per farla cadere, spazi aperti, libertà, i racconti dei vecchi intorno al fuoco a insegnare la vita.
Frammenti di passato che non può farsi scappare, Hala, quando te ne andrai, fallo a piedi nudi, le parole della nonna come un crocifisso sul cuore, sette passi alla finestra, due secondi per volare.
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Grazie a tutte, il racconto in effetti nasce da una poesia, o forse filastrocca, dipende dall’interpretazione che ognuno le da.
Hai uno stile insieme marcato e liscio che proiettata incredibilmente nelle descrizioni che narri, al di là della storia, trascini veramente il lettore nella trama. Brava!
Ho adorato questo tuo racconto. L’alternanza di crudezza e poesia, di dignitosa povertà, e “civile” degrado, la completa assenza di ipocrisia, l’essenziale nell’istinto. Potenza evocativa magistrale. Grazie 🙂
Grazie… Che emozione! È la prima volta che me lo sento dire da qualcuno che non conosco. Anch’io spero di scrivere ancora.
Fantastica lettura, spero di leggere qualche altro tuo racconto ?