
L’eredità di un folle
Voglio raccontarvi una storia, è un aneddoto successo tanti anni fa. Conobbi, per caso, un ragazzo in un locale, e poco dopo avergli rivolto la parola ed intavolato un discorso, notai che aveva due vistose cicatrici all’altezza dei polsi, lunghe e diritte, segni eloquenti e non troppo remoti del fatto che quel ragazzo aveva tentato di tagliarsi le vene. Una reazione istintiva sarebbe stata quella di troncare la conversazione e darsela a gambe, cercando compagnia più “piacevole”. Nulla di tutto ciò mi è passato per la mente, mi interessava capire come fosse possibile che un ragazzo all’apparenza così allegro fosse potuto arrivare a quel punto. Nemmeno accennai a quello che avevo intravisto, anzi cercai di spostare la conversazione su tutt’altro punto, cercando di mettere a mio agio il mio interlocutore, e di lasciare a lui la scelta di confidarmi o no la storia di quei segni indelebili. Improvvisamente, interrompendo una discussione normalissima, mi gelò il sangue con un : “te ne sei accorto vero? In effetti… non sono certo facili da nascondere” e mentre diceva tutto ciò mi mostrava i polsi in maniera quasi disinvolta, come a palesare la volontà di schiudersi. “Ho sempre ammirato molto coloro che decidono di porre fine alla propria vita volontariamente.” Cominciò a dirmi. “Senza dubbio è una grande prova di volontà, un ultimo, irreversibile e disperato, grido di umanità e di forza in esistenze spesso deboli, schive, una sorta di ultima trasposizione materiale di una vita fatta di rimpianti, di occasioni mai concretizzate, quasi una prova di forza contro se stessi”. Era un’analisi lucida e profonda, una considerazione inedita per la mia mente, un punto di vista che mi sconvolse profondamente. E io che da buon sempliciotto l’avevo troppo spesso etichettato come il gesto di un disperato. Mi aveva poi spiazzato con un’altra domanda, tagliente e spinosa quanto la prima. “Ma cosa succederebbe se d’improvviso si smettesse di provare emozioni? Se ci si trovasse ad avere una sorta di “anestesia emotiva”, che non ci permettesse più di percepire il mondo in maniera empatica, ma solo in maniera fredda e razionale, alla stregua di un computer?” Il mio volto si sformava sempre di più in espressioni di meraviglia, stupore ma soprattutto il mio cervello capiva che troppo spesso avevo sbagliato nel considerare certi atteggiamenti. “Allora in quel caso il suicidio cosa diventerebbe? Sarebbe l’ultimo tentativo di riportarsi alla condizione umana, l’ultima speranza di tornare a percepire emozioni, quali esse il dolore, o la tristezza o altro, o sarebbe solo un asettico distacco dalla vita, una sorta di formalità ratificata senza la minima partecipazione? Ed ecco forse la cosa più terrificante ed atroce: il suicidio apatico, il suicidio dettato dalla noia, non dall’eccessivo carico emotivo su un individuo ma al contrario, dalla tangibile mancanza di emozioni, di contatti umani sulla sua pelle, ormai fredda come l’acciaio di un robot”.
Io ero semplicemente senza parole, il mio cervello aveva ricevuto una tale quantità di input che ero sul punto di avere una crisi. Come poteva un ragazzo così profondo, lucido, capace di un ragionamento tale aver tentato un gesto così irrazionale, come era stato possibile tutto ciò? Ma continuavo a tergiversare, in realtà avevo capito benissimo le sue ragioni, è solo che per paura mi rifiutavo di crederci. Come poteva l’apatia, la freddezza del mondo condurre un uomo a non avere più sentimenti, a non essere più capace di provare emozioni. Come poteva l’esistenza stessa privare un uomo della sua vitalità?
Mentre riflettevo su questi argomenti mi tornava alla mente un fatto: se mi fossi fermato alle apparenze, se avessi bollato questo ragazzo come un disturbato, un disadattato, se avessi dato retta alle convinzioni comuni non avrei ricevuto una delle più grandi lezioni di vita che mi siano mai state impartite. Ma furono le sue ultime parole sull’argomento che mi segnarono indelebilmente, che mi permisero di essere veramente un uomo migliore e di comprendere meglio un sacco di cose. Mi disse, lucidamente e in maniera quasi profetica: “Il sangue che scorreva sulla mia pelle mi ha ridato la vita, gli amici che hanno sfondato la porta e mi hanno trascinato all’ospedale mi hanno ridato un motivo per viverla”. Caspita, pensavo tra me e me. Avrei barattato un centinaio di ordinarie e superficiali conoscenze per conoscerlo prima che compiesse questo gesto. Un senso di impotenza mi attanagliava, ma poi il pensiero che quelle fossero ormai soltanto delle cicatrici, e che questo ragazzo avesse ritrovato il sorriso, mi rincuorò.
E adesso mi trovo qui a scrivere le mie sparute e scarne esperienze di vita su un foglio di carta, mi trovo a comprendere e capire profondamente, dopo tanto tempo, quelle parole che avevo udito con meraviglia, e che avevo stentato a credere. Mi trovo anch’io nella posizione di scegliere di estraniarmi dalla vita, ma al tempo stesso ho compreso una cosa: a me non serve una prova di vitalità, perché ho già compreso che la mia se n’è andata; a me non serve qualcuno che mi faccia desistere, che mi consoli o rincuori, non voglio nulla di tutto ciò. Semplicemente questo mondo mi ha rotto i coglioni.
Mi sento un estraneo, un omino colorato in mezzo a tanti omini grigi. Ma ogni giorno il mondo si sta facendo scuro, e sento che anch’io sto diventando come lui. Non voglio che succeda, perciò ho deciso.
E se tu, che hai letto tutto questo, sarai capace di giudicare la mia scelta in modo oggettivo, senza intavolare discussioni amare e inutili, senza espellere giudizi futili, allora avrei voluto conoscerti. Magari saremmo divenuti amici e ora non sarei qui a prepararmi con il mio abito migliore per poi lanciarmi dalla finestra.
Un saluto,
S.
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“Il sangue che scorreva sulla mia pelle mi ha ridato la vita”
Questo passaggio è davvero notevole, per la sua forte caria simbolica e l’enorme paradosso che contiene
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Grazie, mi fa molto piacere ti sia piaciuto!
Un’analisi lucida e profonda su un tema tanto estremo quanto, purtroppo, sempre più attuale. Mi è piaciuto molto il tono sentimental-analitico-conversativo che mi ha ricordato un racconto di Fotser-Wallace dal titolo “La ragazza dai capelli strani.” Da un punto di vista tecnico, ho ammirato la fluidità, anche se dal mio punto di vista questo brano, per aumentare la propria potenza, avrebbe bisogno di essere asciugato un paio di settimane, per essere poi ripreso e “scrollato” di vari, quasi impercettibili, sbavature grammaticali o piccole ripetizioni, ma si tratta di dettagli
Grazie mille per il complimento, l’ho apprezzo moltissimo. Effettivamente l’ho scritto di botto, e non ho pensato di darci un ulteriore occhiata per aggiungere, migliorare o togliere qualcosa. Ma grazie del consiglio, lo terrò a mente per le prossime volte.
Il libro non lo conosco! Andrò a darci un’occhiata appena posso.