LITURGIA MINIMA URBANA

Gentili telespettatori! Bentrovati in questo nuovo episodio di Liturgie Urbane: l’indispensabile guida che vi condurrà – senza freni – attraverso le mille umanità annidate nelle periferie delle nostre amate metropoli.

Tra macerie di palazzine inagibili, o lungo mute traiettorie di traffico urbano, si muove oggi una fauna di rara bellezza. Una selva di esseri preziosi e invisibili, che non sfugge all’occhio umano per velocità, ma per irrilevanza apparente. Studiarli richiede pazienza, distanza, e un certo grado di silenzio interiore.

Ciò che segue, è il tentativo di documentare – senza alterazione alcuna – il comportamento rituale di un maschio adulto appartenente all’eterogenea categoria dei liturgici urbani.

Come appare evidente, è già possibile osservarne qualcuno sin dall’alba, quando la città è ancora inviolata dallo sbadiglio dei motori.

Nel caso specifico, vediamo questo curioso esemplare rincorrere per alcuni secondi un autobus che non prenderà. Eccolo fermarsi, inspirare, simulare un ritardo millimetrico.

È una corsa simbolica, la sua, coreografata. Non si tratta di spostamento: è una dichiarazione silenziosa di libertà.

Solitamente, dopo disparati riti di saluto al giorno, non è raro cogliere i soggetti più mansueti nell’atto di accarezzare pali di semafori e lampioni.

Visto? Nessuno lo nota. Nessuno deve notarlo. 

Non v’è domanda in questo gesto ancestrale, solo l’abbandono di un desiderio antico che ha perso forza.

Lo si evince dal labiale.

Spostiamoci adesso nel suo habitat naturale: la sala d’attesa. Seguiamolo mentre aspetta un ascensore che non intende usare. Lo guarda aprirsi e richiudersi, come la bocca di un animale da riporto. Sceglie le scale.

Durante la salita, il suono dell’elevatore che s’allontana diventa una presenza fantasmatica. L’ascesa si fa lenta, ma costante. Le dita sfiorano le ringhiere, come si accarezzano ossequiosamente le spalle stanche dei sopravvissuti.

Un gesto di empatia architettonica.

Dopo qualche ora di coda, uno spuntino e una breve sosta ai servizi, rincorriamo l’esemplare fino alla stazione.

Ci scusiamo per la qualità delle immagini, ma la distanza, in certi casi, è vitale. Possiamo vederlo, in questi brevi frames, mentre simula un addio su un binario morto.

S’abbraccia. Mormora poche parole, “vai, non voltarti”. Poi resta. Ma qualcosa sembra essersene andato davvero.

Lo talloniamo all’uscita. Cammina piano, ponderando le linee del marciapiede come fossero scelte di vita. 

Destra: ragione; sinistra: passione. Salta una crepa, quasi evitasse un trauma. 

Raggiunge un’edicola come si raggiunge un altare.

S’inginocchia: palpeggia il selciato, più rorido d’una battigia. È un tornare bambino, il suo.

Un alone di morchia lo inzacchera: quanto basta a ricordare l’infanzia.

L’occupazione principale di questa specie, però, è senza alcun dubbio la ricerca spasmodica di un senso, per il semplice gusto di poterlo travalicare.

Prendiamo, ad esempio, le frasi incomplete scritte sui muri: una sorta di complicità tipografica che l’etologia moderna non ha ancora saputo spiegare.

ABBASSO LA LAMPO

FATTI NON FOSTE… MA NEMMENO LUCIDISSIMI

SALVA UNA PIANTA: MANGIA UN VEGANO

Forme di saggezza antica? La ricerca di una connessione con la perduta lingua urbana?

Chi lo sa.

Il liturgico s’arrende al mistero, poi osserva il cielo tagliato tra due palazzi: un triangolo d’azzurro privatamente condiviso.

Come tutti sanno, le interazioni tra liturgici sono rare.

Qui possiamo assistere a uno di quegli sporadici casi: passa un estraneo, l’animale urbano immagina l’altrui pensiero. Un atto di telepatia rispettosa.

Poi s’appoggia ai muri, come se li stesse ascoltando: confessioni di superfici non autorizza­te, incomprensibili alle orecchie della troupe.

Criptiche come il rito impresso nel fotogramma che segue: un trattenere il respiro sotto al cavalcavia della tangenziale. Chiudere gli occhi, accogliere il traffico del mattino.

Recenti studi parlano di “evocazione del possibile”, ma la materia resta alquanto nebulosa.

Ora sembra estrarre qualcosa dalla tracolla. Una macchina fotografica! Signore e signori, stiamo testimoniando un momento irripetibile! L’esemplare immortala un edificio. Ne analizza le crepe, i muschi, i cambiamenti. Lo tocca. 

Un esame tattile della consistenza.

Anche le pareti di un ecomostro invecchiano: forse vuole congelare quel disfacimento.

Sono passati solo pochi minuti dagli ultimi, sconcertanti fatti, e già assistiamo a un nuovo, rarissimo evento: il soggetto socializza con una fontanella.

Tutto porta a credere che sia stato messo in atto un battesimo. I liturgici, infatti, non possono non dar nomi alle cose. Nominarle è farsele amiche. Anzi, di più: è possederle.

Da oggi, quella fontana avrà un nome segreto che solo lui conoscerà.

Sarà la sua alleata liquida.

Aspettate! L’operatore sta zoomando su un dettaglio alquanto bizzarro: sembra… sì: è una foglia secca! Custodita nel taschino del soggetto. Un talismano fragile. Un residuo di culto apotropaico, forse. Oppure un auspicio personale d’autunno perpetuo.

L’esemplare si ferma, ora, davanti a un cartello di lavori in corso. Si riconosce nel rumore, nella polvere, nell’incompiutezza.

È un’autoidentificazione simbolica. 

Non resta a lungo: riparte con una specie di malinconia negli occhi.

Segue la propria ombra per un intero isolato. Lei lo mette in riga: lo supera, lo guida. Poi, girato l’angolo, sparisce alle sue spalle. Come chi gli ha insegnato a crescere.

Lo seguiamo ancora, mentre scende nella metropolitana. 

Canta forte, in un vagone che crede vuoto: una verifica sonora della propria esistenza.

Appena sceso, aspetta che qualcuno lo sfiori, per considerare lo scontro un contatto accidentale.

Quando accade, lo accoglie come una conferma ontologica di sé.

L’ora di pranzo s’avvicina. Il soggetto si ritira in una trattoria di bassa lega.

Ci piazziamo in un tavolo appartato e lo osserviamo scrutare gli avventori solitari.

Muove piano la bocca, come se anche lui stesse masticando con loro. Condivide il proprio pasto nel pensiero.

Concluso il desinare, il soggetto s’abbandona su una panchina del parco ancora calda, così da assorbire l’eredità termica di passaggi umani.

Solo in quel modo, infatti, i liturgici si trasmettono le cose importanti: senza parole.

Adesso sembra essersi accorto di noi.

Lo vediamo più agitato. Eccolo che s’alza.

Cammina veloce.

Un autobus passa lontano.

Stavolta non corre. Non ne ha la forza.

Lo guarda soltanto, come si fissa la dissoluzione di un sogno.

S’illude di nuovo di poterlo prendere, un giorno…

Termina qui, almeno per oggi, l’appuntamento quotidiano con Liturgie Urbane. Non sapremmo dire dove saremo domani, né se i rituali si ripeteranno identici a quelli appena mostrati, ma possiamo affermare con certezza una semplice verità: le metropoli, con tutte le loro geometrie cieche, continueranno a ospitare forme silenziose di resistenza sacra. Invisibili, eppure integre… e noi non smetteremo di documentarle!

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Discussioni

  1. Comunque si sente che tu, hai qualcosa da dare. Alla letteratura, intendo. Ogni tuo scritto lo dimostra sempre di più, se c’è un artista grazie al quale pagherei soldi veri per dilettarmi con le sue opere, sicuramente uno tra questi saresti tu.

  2. Ciao Nicholas, questo brano è originalissimo. L’idea di usare il linguaggio da documentario naturalistico per descrivere i gesti di una persona in città è geniale. Trasforma il quotidiano in qualcosa di speciale e misterioso. Ti superi ogni volta!

  3. Ho sorriso leggendo il commento di Guglielmo, la battuta: cosa c’è nella tua mente? Mi è sovvenuta un’immagine che ricorda i labirinti di Borges o gli enigmi di Escher, ma risolti. L’ho già detto, ma continuerò a ripeterlo: tu non vai letto, vai “visto”.
    In questo racconto, come nelle piazze di de Chirico, non ci sono uomini. Neppure quello che stiamo seguendo. Pare assurdo, ma è così. C’è una solitudine, tu lo chiami liturgico, (la liturgia è un rito e i riti servono a esorcizzare, capire, e la solitudine, l’alienazione, cosa sono se non mostriciattoli sacri da domare?)
    Questo essere accarezza pali, parla con le fontanelle. Perde autobus (gli autobus sono pieni di gente, ti portano da qualche parte…) ma rifugge ogni contatto umano, se non attraverso la sua impossibilità, ovvero, lo sfiorarsi, il sedersi distratti al tavolo di un ristorante. Sempre chiuso nella propria solitudine, fino a diventarlo. Nelle tag leggo incomunicabilità. Forse sbaglio, ma credo qui si “faccia il giro”, si entri nell’opposto territorio. Questo essere comunica alla perfezione una scelta precisa, quella di non comunicare. Chapeau.

    1. Ciao Irene! Grazie mille della lettura e del bellissimo commento!🙏🏻 Ora che mi ci fai pensare, è vero: leggendo il testo, sembra che questa città caotica con la sua folla inquieta, non esistino. È tutto estremamente sfumato, tanto da dare un senso opposto: desolazione, silenzio, immobilità. A volte dobbiamo essere letti da qualcun altro per capire cosa abbiamo davvero dentro🤗

  4. Amo i documentari 😁 ed è stato un piacere seguire questo esemplare di maschio adulto in giro per la città!
    “Segue la propria ombra per un intero isolato. Lei lo mette in riga: lo supera, lo guida. Poi, girato l’angolo, sparisce alle sue spalle. Come chi gli ha insegnato
    a crescere”: questa è poesia❤️

  5. Non c’è che dire, Nicholas, ogni tuo testo è una sfida ma anche una bella scoperta! Non è mai facile arrivare al nocciolo di ciò che intendi esprimere, e non lo è stato neanche stavolta (non a caso tra i tuoi tag leggo “incomunicabilità”). Tuttavia quello che mi è passato è un resoconto (sicuramente umoristico) di un uomo senza certezze, senza appigli e forse senza valori. Non è nemmeno sicuro della sua stessa esistenza, tanto che cerca il contatto umano come conferma di sé. Nell’osservare le città e le loro periferie, beh, questa visione dell’uomo moderno non sembra essere poi così lontana dalla realtà.

    1. Ciao Gabriele! Grazie mille della lettura e del bellissimo commento🙏🏻Le tue sono sempre ottime analisi: in questo testo c’è un osservarsi reciproco da parte della città e dell’uomo. Ho scelto il punto di vista della città (camuffandolo da documentario) ma è soprattutto l’uomo che voglio far risaltare, il suo muoversi fra gli altri senza più certezze, o meglio: con certezze che però nessuno ormai riesce più a intuire.🤗

  6. Ma cosa c’è nella tua mente, Nicholas? Esilarante questo racconto e anche un pò… spaventoso. A tratti poetico. Profondo più di quanto l’ilarità prometta. Sono positivamente stranito.

    1. Ciao Guglielmo! Grazie della lettura🙏🏻 Felice che ti sia piaciuto!😂 Con questo testo volevo proprio disorientare il lettore. È stata un’esperienza bizzarra anche scriverlo.

  7. Ciao Nicholas, non so come ti vengano certe idee ed è un complimento. Una storia fatta di immagini, di frasi molto riuscite e un modo di raccontare originale. Molto interessante, bravissimo!

  8. Questo tuo racconto mi ha riportato alla mente qualcosa che lessi tempo fa: quando sta per accadere qualcosa di negativo per una città, questi gesti liturgici cambiano per buona parte delle persone. Quindi mi chiedo: nonostante l’alienazione della vita moderna, forse c’è in noi qualcosa di misteriosi e ancestrale che è più forte e ci unisce? Grazie per l’interessante lettura, Nicholas🙂

    1. Ciao Concetta! Grazie mille per la lettura!🙏🏻 Questa ritualità misteriosa e apparentemente senza senso vorrebbe proprio simboleggiare l’ultima resistenza alla disumanizzazione. Credo che servano soprattutto a questo i riti 🤗

  9. Ciao Nicholas, un esperimento stravagante che suona come una versione quasi grottesca di Super Quark. Nel mirino dell’antropologo un essere che umano più non è, ma pare più che altro uno scarto sopravvissuto a ciò che lui stesso aveva costruito. Un po’ triste, ma forse è la direzione che davvero stiamo per prendere… Grazie per la lettura

    1. Ciao Paolo! Sì: l’idea è proprio questa. Ho calcato il registro del grottesco (con qualche richiamo al mio amato Cortázar) proprio per lasciare quel retrogusto amaro, per trasmettere il senso di straniamento e di distanza che, poco alla volta, continuano a crescere nella cosiddetta “società”. Grazie per essere passato 🙏🏻

  10. Non ci arrivo. Forse sono troppo rudimentale, ma non riesco a cogliere lo spirito di questo racconto. Ma forse è proprio questo che volevi: descrivere (ma questa parola è ancora lecita?) una modalità esistenziale priva di senso se non nel suo rapporto con le cose: e con gli altri ridotti a cose. Privi di spirito. Più in là non riesco ad andare.

    1. Ciao Francesca! Invece hai colto molto bene😊 È la solitudine umana vista con gli occhi della città (il linguaggio giornalistico è uno stratagemma), un insieme di gesti a lei alieni, eseguiti da creature che la popolano come parassiti, pur riconoscendoli quali creatori. La città è una figlia divenuta grembo di chi l’ha generata. Grazie mille della lettura🤗

  11. L’ho trovato intenso e originale: sembra un documentario naturalistico girato tra le pieghe invisibili della città, con uno sguardo capace di rendere sacro anche il banale. Alcune immagini sono folgoranti, e il pezzo lascia addosso una malinconia bella, che fa riflettere (magari ci si riconosce pure). Che tu sappia mettere insieme le parole non devo certo dirlo io, e che tu sappia farti leggere nemmeno. Ma che sei uno scrittore, bravo, te lo dico lo stesso.