Living together

ATTO 1 – CARNEVALE

Sarà molto bello vivere insieme!

Le farò le trecce al mattino, le preparerò ogni giorno un pranzo buono e diventeremo inseparabili. I presupposti ci sono tutti: lei mi sembra incuriosita. Mi sorride in modo complice, mi guarda con interesse e sento che mi vorrà bene.

Così cominciava con entusiasmo la nuova vita di una coppia qualsiasi: con una donna pronta a diventare madre della bambina di un’altra. Quell’ altra che non c’era più e che non avrebbe mai cercato di sostituire, ma solo di far ricordare, di non cancellare. Erano due persone diverse: una andata via prematuramente, l’altra arrivata al momento giusto.

Oh, Fabiana lo sapeva bene che sarebbe stato difficile: nel cuore di una bambina non si prenderà mai il posto di una madre e il dolore sarà difficile da azzittire. Ci saranno sere in cui non mi vorrà guardare, mattine in cui la troverò in lacrime incapace di parlare. Domeniche in cui parteciperò al rituale delle carrellate di fotografie, dove il volto di sua madre sostituirà il mio nei pensieri di quegli istanti, nel cuore della bambina e nel cuore del mio uomo.

Ma sono pronta a farlo, si ripeteva Fabiana fissando i vetri della casa. Non abitavano ancora insieme: anzi, per la verità era davvero molto poco che si frequentavano. Con la mente si stava spingendo troppo oltre. Complice lo sguardo della piccola Chiara che la guardava salutare il padre in cortile, dopo averlo riaccompagnato. Aveva due ponfi rossi sulle guance. Complice quel visino biondo con gli occhi di chi spera di avere una donna in casa, una carezza, un papà di nuovo felice. 

In quel momento qualcosa scattò fra lei e Chiara. Disse Paolo: scusa se non ti faccio entrare. Non voglio che per Chiara sia sconvolgente. Voglio prima parlare di te. “Paolo”, rispose lei senza nemmeno farlo terminare “Non fartene un problema, andiamo con calma. Per me va bene anche se le dici che sono solo un’amica”. 

“Credo che ti abbia già visto”, sorrise lui mentre chiudeva lo sportello dell’auto. Sì, certo, si era accorta anche lei del visetto stupito che la fissava dalla finestra. Fabiana si girò di nuovo e scoprì che di colpo la bambina aveva cambiato espressione: il sorriso complice aveva lasciato posto a uno sguardo triste e traverso. Quello dei bambini a cui la mamma è stata tolta troppo presto. La attanagliò in quell’istante l’orrore di poter non essere mai accettata davvero dalla piccola. La paura di non riuscire mai, in quel futuro assieme che era appena iniziato, a farsi considerare parte della famiglia. Correva davvero troppo, Fabiana, con questi pensieri. 

Il giorno in cui Paolo le parlò – quell’ unica volta in cui le parlò – della moglie, fu un giorno caotico di carnevale. Spaventosi carri di cartapesta percorrevano lugubri le vie della cittadina uggiosa con i loro colori attutiti dalla luce grigia. Canzoni caotiche si mescolavano da amplificatori sferraglianti, il sindaco salutava, i bambini gridavano. Lui si agitò molto e scoppiò a piangere di colpo, mentre la tirava a sé per non farla urtare dai passanti. Non le aveva mai raccontato nulla della propria solitudine, nell’ anno trascorso come semplici colleghi. Del resto, da un piano all’ altro in quella grande azienda non era molto facile conoscersi o avere informazioni di prima mano. 

“Paolo…” gli sussurrava allora lei con la voce rotta, cercando di tranquillizzarlo. 

Ma lui esordì: “Io sono un vedovo. Avevo una moglie ed é morta tre anni fa”. 

Fabiana chiuse gli occhi (“è il momento”, pensava).

“…un incidente” fece in tempo a sentire lei, nel caos. “Solo la bambina mi sta vicino e mi costringe ad andare avanti. Ma ho paura, ho paura”. 

“Non posso aiutarti a non avere paura, ma sicuramente possiamo essere in due in tutto questo.”

Lui le parve tranquillizzato. “Forse se conoscesse anche te sarebbe tutto migliore, tutto più sopportabile”. “E io voglio conoscerla”. Voglio esserci, pensò abbracciando quell’ uomo che già sapeva di amare.

ATTO II – PASQUA

“Mi dovresti dare l’indirizzo esatto” disse Fabiana. Scrisse la via su uno scontrino trovato in borsa,  appoggiandolo sul ginocchio. Sentiva la penna sulla gamba. 

C’era un rumore sotto, il rumore della città.  Di ferro di rotaie di tram, di pubblicità dalle radio, di trilli di campanelli, di allarmi, di garage, di sirene. Chiuse il finestrino, cessarono di colpo. Improvvisamente tutto era ovattato come se avesse lasciato una festa e si fosse chiusa in una stanza. 

O nell’armadio,  quando da piccola aveva paura. 

Nello specchietto retrovisore vide un tramonto rosso alle proprie spalle e occhi lucidi di stanchezza. Ma aveva  promesso a Paolo che avrebbe recuperato degli scatoloni dalla vecchia casa di lui e glieli avrebbe portati. Sospirò. 

Dopo qualche minuto era per strada. Andava verso una zona residenziale nella parte nord della città.  Dopo una curva della tangenziale,  ecco emergere sopra di lei i  palazzoni caratteristici. Dei bassi grattacieli che dall’aereo le parevano sempre cosí stonati con il contesto antico e piatto. Dietro di essi vi era una campagna boschiva non edificata, davanti invece spianate grigie di un contesto urbano pieno di luci. 

La palazzina era la 9. Si fermò sotto con l’auto, sbatté lo sportello e calpestò la ghiaia già buia. C’era l’aria dei palazzi appena costruiti,  quelli vuoti con due appartamenti abitati e silenziosi.  

Andò verso il gabbiotto del portiere,  che dormiva o guardava la televisione. Non era chiaro,  aveva il capo poggiato pesantemente su una mano. 

Bussò al vetro timidamente. 

Nulla. 

Di nuovo. 

Senza sollevare la testa,  quello la fissò da sotto in su. Lei fece con il labiale: per Penta! Paolo Penta! Poi lo disse ad alta voce. 

“che cosa deve fare? ” si era avvicinato e aveva aperto la porta a vetri. Si sentiva odore di moquette e di fili bruciati.” devo prendere le scatole che ha lasciato Paolo Penta.  Scusi,  sa,  per l’ora”. 

Quello mugugnando non disse altro e le diede un mazzo di chiavi. “deve andare lí,  poi a destra, poi scale giú, la cantina é 9”

Bene, grazie. 

Scendendo sentiva quell’assordante vuoto. Davvero tanto vuoto,  cosí vuoto quel palazzo che i passi mentre scendeva parevano tuonare. 

Tutto buio, lo scantinato era un corridoio con lunghi tubi led e file ordinate di porte metalliche laccate. Nuove. Nulla che evocasse cantine piene di ricordi e segreti. Andò fino alla 9 e si guardò indietro. 

Che strano. 

La regolarità delle porte e quel biancore del metallo camuffavano la porta di ingresso al corridoio, cosí che le parve d’un tratto che non vi fosse via d’uscita. Tutto uguale dietro di lei,  tutto uguale innanzi a lei. Dove uscire? Dove andare ora? 

Si infilò velocemente nella porta 9. Una stanza linda e senza storia la accolse con le sue luci ospedaliere. Due scatole poggiate nel centro chiuse con lo scotch e un oggetto avvolto da carta da imballaggio.  Non erano oggetti leggeri. Chiuse la porta  a fatica e poi la paura.  

Aveva sentito un colpo secco da una delle altre porte. 

Un tonfo sul metallo. 

Qualcuno aveva dato un colpo a una porta da dentro. 

Sentiva tremarle le gambe,  tremare tutto. 

Chiuse non si sa come a chiave, incominciò una corsa verso l’uscita. Spalanco la porta bianca,  inforcò le scale con le scatole strette e gravose, c’era buio,  la voce lontana della tv del portiere era un sogno, era fasulla. 

Mentre scalpitava suo gradini, una scatola sfuggí a terra e rovinò sul pianerottolo. L’eco di oggetti di plastica si udí fra le pareti. 

Con un respiro adulto e serioso accese lo schermo del cellulare per ritrovare gli oggetti caduti. 

La luce bianca illuminò delle teste di bambola con il viso truccato. Un cane marrone con dei segni di pennarello sul tessuto del ventre. Dei fogli e dei cubi di legno con i numeri. Giocattoli di Chiara,  si disse. Questo sono venuta a prendere. Chinandosi nel buio, che non sapeva dove fossero gli interruttori, raccolse ogni cosa e poi tornò nell’atrio,  salutò rapidamente il portiere, mise tutto nel bagagliaio. Aprí la seconda scatola preda di un presagio irragionevole e anche lí solo oggetti di bimba: quaderni, pupazzi,  un libro colorato e lettere. Diverse buste color pastello,  bianche, con gli orsetti,  con i palloncini, infilate in disordine in ogni spazio libero,  come se un postino ve le avesse scaricate dentro. Quella sensazione di malessere cresceva e le chiudeva –  non capiva bene perché –  lo stomaco.  Buste in una scatola di oggetti di scuola. Giocattoli.  Non c’era nulla di strano, eppure si sentiva stranita. 

ATTO III –  Primavera

Rivide quelle buste un paio di mesi dopo. Paolo continuava a tentennare sul fatto di introdurla in famiglia e Fabiana si sentiva felice di questo amore,  sí,  ma scalpitava. Si sa che nei rapporti é meglio non forzare l’altro. Si violano degli spazi e dei tempi e si incrina tutto. Del resto,  lei era riuscita a stabilire una specie di rapporto a distanza con la piccola. Avevano avuto diverse occasioni per vedersi. Una domenica lo aspettava dopo una messa in suffragio per la moglie.  Le aveva detto di voler andare da solo,  che preferiva vivere in intimità quel momento. Per la moglie,  per la piccola. Lei capiva e lo aspettava fuori,  senza intervenire. Lui era superbo e altero nella dignità che lo portava fuori dalla chiesa,  con la bambina dietro di sé,  che lo seguiva alle spalle,  muta e lenta, molto vicina e diritta. 

La vedeva poi sempre quando lo riaccompagnava a casa. Talvolta era in giardino seduta, altre volte dietro al vetro della cameretta. Non la salutava mai,  però le sorrideva. Le sorrideva a lungo, senza cambiare espressione. 

Poi un giorno le venne un pensiero brutto e quel pensiero non le uscì più dalla testa. 

Come mai quell’uomo turbato e chiuso in se stesso, così restio ad andare più a fondo nella loro relazione, teneva una bambina segregata e nascosta? Perché non le parlava mai di visite degli amichetti o della scuola? Continuava a pensare insistentemente a Chiara e a quanto poco il padre svelasse su di lei. Alla sua ritrosia nel farla uscire di casa per presentargliela. Al fatto che mai la portasse fuori con loro. Le venne un orrore profondo e che riguardava l’interiorità di Paolo.  L’orrore che lui non fosse l’uomo che credeva la prese e non la lasciò più. 

Giorno per giorno, cena per cena, passeggiata dopo passeggiata, Fabiana si fece sempre più sospettosa e intimorita. Ogni cenno e ogni parola di Paolo erano per lei indizi di un malessere e cercava in ogni frase la prova che aspettava. Non riusciva a dirlo nemmeno a se stessa, ma era oramai più che convinta che un orrore si celasse dietro a quella parvenza di uomo afflitto, un po’ depresso, schiacciato dalla perdita.

Quello che lei temeva, ed era oramai certa fosse così, era che Paolo vivesse una disperazione a tal punto profonda da aver coinvolto anche la bambina. Che la tenesse segregata in casa e la stesse trascinando in un abisso, un abisso che poteva avere risvolti tragici. Era qui, in questo che aveva preso forma e voce il presagio che aveva sentito in precedenza. Un presagio tragico, di qualche cosa di irrisolto che riguardava il rapporto fra Paolo e sua figlia. 

CI si avvicinava alla primavera. Il sole di un parco non bastava a rendere davvero allegro Paolo, che era affascinante e sereno, affettuoso e spontaneo, ma non sorrideva. La stringeva e lei sentiva un estraneo al suo posto. Ne aveva paura, ma allo stesso tempo ne era attratta. Tutto era incredibilmente naturale nel loro rapporto: la bambina era prematuro conoscerla. La bambina era a casa o in giardino. La bambina era sempre accanto a lui. Lui aveva bisogno di tempo per sentirsi legato a un’altra donna. Lui non sentiva ancora giunto il momento di farla entrare nella loro vita.

Lei, quel giorno al parco, sbottò di colpo. Non posso così, Paolo. Fammi entrare nella tua vita. Fammi entrare a casa tua. 

Era incertezza, quella che lesse negli occhi di lui?Oppure era tristezza?Una specie di rassegnazione che le sferzò sul viso. Aveva, in cuor suo, un po’ paura di lui. E come tutto ciò che ci fa paura, ne era attratta disperatamente.

Davanti alla casa il verde del prato che brillava. Attorno auto che correvano e persone a passeggio. Era primavera e nulla poteva farle del male. Con pacata confidenza lui la teneva per mano e la accompagnava alla porta. Entrarono piano e senza fare rumore. Invece, lei non lo aveva capito, il ruggito di una aspirapolvere scosse la calma del sabato pomeriggio. 

“Ah, è Marta, la signora delle pulizie”. 

Questa presenza rallegrò moltissimo Fabiana. Si sentiva in una casa, una casa vera in cui era tutto normale. Sbucò una festosa signora con pantaloni e maglione verde: “Buonasera Paolo!Ho quasi finito e vi lascio”. Sembrava felice di vedere una donna in quella casa.

“Ma no no Marta, tanto beviamo solo qualcosa in sala”

La portò nella sala da pranzo, dove vetri grandi erano protetti da tende spesse per filtrare il sole. Tende che emanavano sottili polveri nell’aria. 

“Ma Chiara dov’è?”

“È qui. Solo che penso non si voglia far vedere.”. Mentiva, chiaramente. Aveva pronunciato quelle parole in un tono sostenuto e poi non era plausibile che un padre non andasse subito a vedere come stava la figlia. Né lo aveva chiesto a Marta. Aveva completamente ignorato di avere una figlia. La felicità e le rassicurazioni che aveva costruito fino a quel momento si sgretolarono e ritornò a non fidarsi di quell’uomo.

Non appena lui si alzò per un qualche motivo, anche lei si alzò e senza un piano preciso si mise a rovistare dove poté. Bollette, vecchie penne, legni tarlati, graffette. Nessuna fotografia sui mobili, nessun suppellettile, qualche bomboniera di cristallo, alcuni argenti. Nulla che le potesse dare risposte. 

Il malessere e il disagio crescevano sempre più, tanto più che Marta pareva essersene andata. C’era un silenzio attonito nella casa. E mentre lo ascoltava, mentre ascoltava questo silenzio e ne prendeva coscienza, vide le buste colorate.

Erano buste di letterine di bimbi. Evidente. Con calligrafie incerte c’era scritto ovunque “per Chiara”. 

Istintivamente ne afferrò una. La aprì e lesse l’incipit di una lettera: “Cara Chiara, sei la mia migliore amica e penso a te ogni giorno”…” ” I bambini sanno mostrare un affetto senza schemi e sovrastrutture. L’amore vero” Paolo le tolse di mano la lettera.

Lei chinò il capo colpevole. 

“Sono le lettere che i compagni di classe hanno scritto a Chiara dopo l’incidente. Sono piene di amore e di parole belle. I bambini non hanno pelle, sentono tutto e non hanno paura di esprimerlo. Soffrono in modo struggente”.

” E tu, Paolo?” disse lei voltandosi di scatto. Lo fissò negli occhi. “Tu Paolo provi qualcosa?Sai provare qualcosa ed esprimerlo?”. 

Ma davanti a lei c’era un uomo vitreo e immobile. Lui le carezzò il braccio poi, e sospirò. “Le cose sono complicate nella mia vita, ora”. 

ATTO IV – La visita

Da quel giorno trascorse un altro mese. Era maggio inoltrato e c’era l’aria gravida di pollini.

La villetta di Paolo era ferma e assolata. Chiara passava di tanto in tanto da una stanza all’altra e lei, da giù. la seguiva con lo sguardo provando pena. Aveva deciso di aiutare la bambina e con lei il padre. Oramai il loro rapporto era una adulta farsa fra colleghi di lavoro. Una relazione onirica fatta di colloqui surreali in cui evitavano gli argomenti più importanti e seri, quelli che riguardavano il suo stato d’animo, la depressione, il crescere una bambina. 

Mentre osservava la casa, passò accanto a lei Marta. La vide in auto e bussò al vetro. “Signora buongiorno!Che cosa fa di bello, non entra?”

“Buonasera Marta!” era felice di vedere quella signora tanto cordiale. La sola che la faceva sentire a casa, in una casa in cui metteva piede poco o niente e in cui le pareti la separavano dalla vita del suo uomo. Dalla figlia del suo uomo.

“No no, non entro, aspetto Paolo. Si vede che ha da fare con Chiara!”

” No no!” disse subito Marta “È già andato stamattina!”

“Dove?”

“Da Chiara!”

Restò interdetta. “Perché non era qui stamattina?”

“No no, ma adesso è qui, ora esce”

“Va bene. Ma scusi” non voleva apparire invadente, ma Marta poteva darle informazioni utili “Chiara dov’era stamattina?Intendo: dove è andato Paolo, che ha detto che è uscito?”

Marta la fissò incuriosita. Poi si fece seria. Probabilmente non voleva essere indiscreta e quindi taceva.

Fabiana vide questa serietà e lo sguardo le parve parlare e chiarire tutto. Mentre il velo in mente si squarciava, Vide la porta della villetta aprirsi e Paolo venirle incontro diligentemente. Marta era ancora accanto all’auto e lui se ne accorse. Sembrò accelerare il passo.

La testa di Chiara era ora un turbinio di pensieri che prendevano un posto ordinato uno alla volta. 

Pensò a quando aveva trovato le letterine per Chiara. Che cosa c’era scritto, davvero? Non erano lettere. Erano pensieri.

Ricordò di quando a Carnevale Paolo le aveva detto che solo Chiara gli era vicino. E che aveva paura.

Pensò a come in quei mesi era riuscita a non avere mai, davvero mai, un contatto con la bambina.

E infine pensò alla figurina dietro ai vetri che le sorrideva sempre. Un sorriso continuo e mai diverso. Con gli occhi puntati su di lei.

“Marta…” mormorò “Quindi dove è andato a trovare Chiara, stamattina?”

Paolo stava sopraggiungendo. C’era panico nel suo sguardo.

“Marta la guardò nuovamente interdetta, come se avesse compreso. Paolo era quasi da loro.

“Al cimitero, Fabiana. Chiara è al cimitero”.

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Discussioni

  1. Pincherle, davvero ben concepito, mi è piaciuto tanto! Ha arricchito la mia fugace pausa pranzo, mi sono anche unto di olio mentre lo leggevo, ma ne è valsa la pena. Angosciante come un incubo; scorrevole e avvolgente. Bravissima! Da fruitore consumato di storie horror e thriller psicologici avevo intuito il colpo di scena, e non vedevo l’ora di arrivare fino in fondo per vedere come avresti svelato quel momento. Grazie per aver condiviso questa storia! 🙂