L’unico scatolone che possiedo 

Sono uscito di casa con il coltello nella tasca larga della felpa, ho iniziato a sentirlo sulla parte bassa dell’addome, lungo la linea asciutta della mia pancia.

Sono uscito con le chiavi in mano, senza portafoglio, con il cappuccio messo sulla testa in modo sbagliato, come fossi una penna che non può essere chiusa.

Le treccine si sono scomposte sotto il collo e il rosso corallo della felpa pare essere un livido fresco sulla mia pelle biancastra.

È stato prima di uscire che ho preso il coltello seghettato dal comodino, lo tengo lì perché, come si dice, non si sa mai che non entrino i ladri.

Ho pensato parecchie volte a come si feriscano le gole, in quel punto non puoi non sentire il sangue sotto le dita, è proprio un’impressione di vita, come le lenzuola bagnate nel vento che da morte e afflosciate, a poche folate pare abbiano un’anima fluttuante.

Possedere un collo ha il potere di un’esistenza, forse anche per questo nel sesso è un punto molto ambito.

Quando sono uscito dal monolocale angusto, due fornelli elettrici, un letto singolo, uno scatolone come comodino, le mie scelte di evasione erano altrettanto ristrette: metro o treno, l’equivalente viaggiante di scatole in cui sostare dentro qualche istante.

La povertà ha un odore acre, essere puliti è la cosa più difficile, quella su cui non puoi barare.

I tessuti sintetici trattengono il sudore come le mani di una madre che non vuole abbandonare il figlio e i profumi da supermercato sono come i padri che ti abbandonano appena ti hanno dato alla luce, senti la mancanza di qualcosa che non saprai mai che consistenza abbia, sai solo che non ti appartiene.

La mia pelle è unta e sporca e ho un profumo troppo dolce per nasconderla, sono come miele lasciato in una casa umida, sono zuccherato ma so di muffa.

Cammino lento sui gradini delle chiese, la gente si siede nei bar, ordina pizze sempre più stravaganti, paga in contati svogliatamente e poi litiga con qualcuno al cellulare.

Chissà chi c’è sempre dall’altra parte di quello schermo così essenziale per noi.

Me lo chiedo spesso come facciamo ad essere così soli dentro i momenti quotidiani e così pieni dentro i telefoni, perché quelle persone non sono con noi ora?

Il mio cellulare non suona, l’ho spento ore fa, ha la batteria che funziona a metà e dovrei cambiarlo, ma non ho mica i soldi per farlo.

Così sono io, solo io.

Niente pizze, niente litigate, niente squilli inutili.

Alla stazione qualcuno si nasconde la sua dose quotidiana sotto la felpa, proprio come io ho fatto con il coltello.

Ne vorrei un po’, ma tiro dritto, compro un biglietto a caso, solo per passare del tempo.

Il vagone è mezzo pieno, gente di ogni tipo, con chissà quale vita a cui assistere.

Ci sono due bambini piccoli con dei berretti gialli, avranno due anni al massimo, la madre non li guarda nemmeno, sfoglia riviste di cucine sul suo tablet viola.

Danno l’impressione di dover piangere da un momento all’altro, faccio passi lunghi e li supero.

Quattro sedili più avanti due donne anziane discutono di politica e religione, troppo da sopportare per mezz’ora di viaggio senza cuffie nelle orecchie, la povertà è anche questo, non puoi escluderti dal mondo quando dal mondo ti senti già escluso.

Otto sedili più a destra, cinque ragazze si truccano a vicenda e fanno partire dirette su come vestirsi in treno, parecchi “Hi guys” nel giro di qualche secondo per i miei gusti.

Cammino ancora, ormai nervoso, verso i vagoni finali.

In quel momento intravedo le sue ciocche ossigenate spuntare fuori da un anonimo elastico nero, mi avvicino in silenzio.

Dalla parte opposta e accanto, ci sono altre persone, un ragazzo che ha il muso fisso contro il finestrino, come fosse una di quelle figurine da leccare e incollare al muro, poi c’è una donna asiatica, sicuramente una donna di servizio, con borse della spesa di ogni tipo, frutta e pasta, verdura e carne, detersivi, parla con un’altra donna, molto bella, vestita come avesse appena finito pilates, parlano di un nuovo centro commerciale in cui risparmiare, se fanno le brave, forse riescono pure ad andare in vacanza.

Io mi siedo sul sedile appena sopra alla ragazza dai capelli biondi ossigenati, ha anche degli occhiali, lo noto ora, e scrolla il telefono come un tempo si buttavano via i dépliant nella cassetta della posta.

Sembra annoiata, lo sono anche io.

Tolgo il cappuccio e libero le treccine, me le ha fatte Marie, la vicina francese del terzo piano.

Vedrai che non ti fanno male, mi aveva detto; invece, tirano sulle tempie come delle maledette, e quando mi siedo, risento il coltello, sulla pancia, nitido.

Usalo.

È la voce anch’essa nitida dentro la mia testa.

Sbuffo pesantemente dal naso, qualcuno si gira, accorgendosi di me solo ora, ma lei no, le gambe accovacciate, lo schermo sempre accesso, lo sguardo come nel vuoto.

E se non è davvero qui, forse non l’ammazzo per davvero.

Afferro il coltello, alzo la mano e le arrivo alla gola.

Il potere del collo che racchiude il respiro.

Una volta.

Due volte.

Tre volte.

Le si dirama appena nella sua agonia, forse piange, sicuramente non capisce.

Nessuno mi guarda, nessuno mi ferma, ora sono tutte figurine appiccate ai finestrini, come il ragazzo di prima.

Che delusione, sono solo anche ora.

Nemmeno una mano, un pugno, una voce grossa, uno spavento, nessuno si è avvicinato a me, a lei, a noi.

Mi alzo, decido che è questa la mia fermata.

Nessuno ancora mi guarda, cammino tranquillo sgocciolando sangue fino all’uscita, chiamo la fermata con la mano rossa, la porta si apre, l’aria umida invade l’odore ferroso di ruggine attorno.

Adesso non odoro più di muffa e miele, ma anche di metallico e salato, stranamente non mi sento più così sporco.

Le gocce di sangue continuano a scendere, le porte del treno si richiudono e la ragazza dalla ciocca bionda ossigenata ritorna lontana da me.

È tardi, devo tornare a casa.

Quando compro un altro biglietto, c’è ancora qualcuno che sta ordinando pizza nei bar e tutti ma proprio tutti stanno sentendo qualcuno al telefono, io penso solo a come un’altra giornata sia finita e che devo stare attento a non sporcare il comodino di sangue, quello è l’unico scatolone che possiedo.

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Discussioni

  1. Ciao Marta.
    Il personaggio è fantastico. Prima di svelarsi ci fa pensare ad altro. Povertà, disagio, ma niente da farci sospettare l’evolversi degli eventi. A parte il coltello. Ma è un coltello seghettato, quasi amico. Però lo nasconde all’altezza della pancia…
    E la sua percezione del mondo “alieno”?
    Che dire: geniale.

  2. Mi è parso un racconto cinematografico. Una sequenza dove l’indigenza pare essere l’unico elemento di contesto, e assurdamente sembra assumenre anche la giustificazione per l’azione (o l’intenzione) che si viene a generare. La totale indifferenza di chi è presente all’atto di violenza, unitamente all’assente reazione della vittima, mi ha fatto pensare a un sogno (o un incubo), piuttosto che a un evento reale; forse a rimarcare che chi è invisibile può continuare ad esserso persino commettendo un gesto tanto estremo. Le descrizioni sono incisive e ben costruite. Ho letto con interesse, grazie Marta

  3. Splendido come si evince dal modo in cui serpeggi tra gli eventi, la tua capacità di scrittura. E tutto così sottile e crudo, una lama che ti entra senza manco sentirla. Forse è questo un po’ che mi ha lasciato a desiderare, anche perchè prima o poi la lama la senti e fa male, mentre il tutto verso in finale mi ha risuonato “piattino”. Forse perchè il protagonista è uomo ma non lo sembra, potrebbe benissimo essere anche una donna. Non c’è nessuna differenza, un po’ per scelta un po’ per condizionamento, credo. Detto questo, i tuoi scritti mi incuriosiscono e se mi posso permettere ti do un mio personale consiglio: osa di più. Calca, non avere alcun timore al riguardo

  4. Mi ha preso allo stomaco: voce fredda e vicinissima, odori, metallo, sudore—la città che scivola via mentre l’alienazione esplode. Disturbante ma ipnotico, non riesci a staccarti.

  5. Agghiacciante e potente…
    Difficile da commentare (almeno per me) per il momento devo riuscire a metabolizzare la realtà che ho letto nelle tue parole: non giudizio, non morale ma cruda realtà.