
Mia madre e io
Io mi sono rovinata con le mie mani, il che è già una bella soddisfazione.
Anche mia madre è dello stesso parere.
«Pensa» mi dice «se fosse colpa di qualcun altro. Allora sì che dovresti spararti, Franci. Ma hai fatto tutto da sola, e questo ti sposta verso l’area artistica, se capisci quello che voglio dire.»
«E se invece» le chiedo «dovessimo incolpare, ad esempio, un uomo, in che situazione mi troverei secondo te? Anche distruggersi per amore è un gesto artistico. Potrei citare…»
Ma da quell’orecchio mia madre non ci sente. Non vuole sentir parlare dell’amore. Mi risponde con un’esperta volgarità e cambia discorso.
Mia madre è ancora una bella donna ed è una pittrice. Non ha mai fatto altro.
Venticinque anni fa ha avuto un isolato episodio di successo durato esattamente due mesi.
Aveva dipinto una tela intitolata “Abissale tramonto”.
“Aveva dipinto una tela” è un’espressione sintatticamente ineccepibile. Descrive un’azione e un intento: e l’intento e l’azione coincidono, aveva proprio e soltanto dipinto una tela.
Fu questo a incantare i critici. Insomma, uno solo, alla fine, che però le fece un sacco di complimenti.
«L’evidente assenza di ogni finalità che non si identifichi col puro e semplice gesto di spargere colore» scrisse su una rivista quel tale, che al tempo contava qualcosa «ci costringe a una domanda esiziale: perché dipingere ancora?»
Ci sono momenti nella cosiddetta vita culturale di un paese durante i quali la Dea dell’ironia prende il sopravvento a dispetto della serietà dei propositi. Gli esperti le cadono fra le braccia come un diciottenne fra quelle di una navigata cortigiana e si risvegliano solo dopo una serie di orgasmi. Però si risvegliano, questo è sicuro, fa parte della strategia della Dea.
In quel periodo mia madre cambiò tutto: abbigliamento, orecchini, profumo, acconciatura, ideologia ed età. Si sentiva sulla soglia di un destino e si preparò ad accoglierlo a braccia spalancate e a occhi chiusi. Si accorciò gli anni con una sforbiciata portandoli a ventidue (ne aveva quasi trenta). Partecipò a serate ed esposizioni – non sue – lanciandosi dalla piattaforma più alta, incantata da un riflesso che le suggeriva (ma era la Dea) che laggiù nella piscina ci fosse acqua a sufficienza dalla quale riemergere sollevando il pugno in segno di vittoria.
Dopo un paio di settimane, in coda a una riunione ad alto livello culturale e alcolico, andò a letto col personaggio che contava qualcosa. Spero almeno che se la sia spassata. La mattina gli parlò di matrimonio. Quell’altro la pregò di dargli tempo per riflettere, disse che l’arte doveva avere la precedenza su tutto e che non era il momento di appiattirsi su soluzioni piccolo borghesi.
Dopodiché non si fece più trovare. Al ventesimo giorno, a titolo di risarcimento, pubblicò un secondo articolo sulla terza pagina di un quotidiano. Il succo di quello scritto era che una rondine non fa primavera, ma due sì.
«Siamo in attesa» concludeva «che Anna Larsen liberi un altro uccello dalla sua gabbia e che ci convinca che la pittura attende il tempo di cominciare a finire.»
La Dea lavorava notte e giorno, evidentemente.
Mia madre si mise subito all’opera e in tre ore (tre) dipinse “Intramontabile abisso” usando la stessa tecnica. La Dea si era ormai impadronita anche di lei e non le dava scampo.
Seguì un notevole nulla, durante il quale mia madre si accorse di essere incinta. Devo darle atto che fece tutto il possibile, fino al punto di piazzarsi con cavalletto e tela sotto l’ultimo domicilio conosciuto di mio padre. Ne ricavò alcune elemosine e un assoluto silenzio.
Al trentesimo giorno esatto toccò il fondo asciutto della piscina, e la Dea dell’ironia sorrise e si involò di nuovo verso i cieli a dichiarare missione compiuta.
E’ così che sono entrata nel mondo: per una svista critica in gran parte interessata e sotto auspici divini.
***
«Sai» mi dice mia madre «all’inizio non volevo tenerti. Avevo consultato un dottore e un centro, insomma potevo risolvere tutto. Però mi sembrava di darla vinta a quel cialtrone, e questo proprio non lo potevo accettare. Non che ti volessi, Franci. Ma era meglio che azzerare tutto. Spero che tu possa capire.»
E si tira indietro i capelli biondo tinto, mettendo in evidenza il suo profilo da elfo e le mani con le vene rilevate.
«Non credere che tutti si siano ormai dimenticati di me» dice «e poi per un artista essere ricordato troppo a lungo è addirittura volgare, non ti sembra?»
Io non le rispondo nulla. Non le chiedo nemmeno come faccia a tirare avanti con i soldi.
Credo che venda ancora qualche quadro, di tanto in tanto, anche se non so immaginare a chi.
Ma non parliamo mai di cose vere, ad esempio di ciò che è successo a me, di come mi sento o di cosa si prova col passare del tempo.
Ho paura che una qualsiasi domanda seria ci manderebbe in pezzi nello stesso momento, mia madre e io.
Così, va a finire che accendiamo tutte e due una sigaretta e ce ne restiamo lì a fumare in silenzio, pensando ognuna alla propria storia.
Avete messo Mi Piace6 apprezzamentiPubblicato in Narrativa
Una penna tagliente, se fosse un manoscritto. Un racconto arguto, ironico, dal gusto un po’ amaro, ma con un retrogusto che, leggendo, piace. La forza e la fragilità delle donne che resistono e, per motivi diversamente uguali, possono ricordarci qualcosa anche di noi.
Grazie M. Luisa. Putroppo i manoscritti… ma dove saranno mai? E non certo nel mio caso, che non è importante, ma in generale. Che ne sarà delle “prime stesure”?
Qualcuno c’é che ancora si ostina a scrivere le prime bozze con la penna. E spesso lo faccio anch’io. Subito dopo aver trasferito il testo sul PC, taglio a pezzi i fogli di carta. Se vedessero gli errori e gli “orrori” dei miei manoscritti, scarabocchiati e indecifrabili, i critici (ipotizzando, con molto ottimismo, di poter attirare l’attenzione di qualcuno di loro), temo che potrebbero valutare quel caos, sintomatico di qualche disturbo psichico 😂
Il tuo brano ha una densità particolare e scava nella relazione madre–figlia usando una scrittura chirurgica, senza concessioni emotive, ed è proprio questo che mi colpisce. L’intensità nasce dal parallelismo dei destini: la madre, artista mancata, consumata dall’illusione di gloria e da un abbandono, e la figlia, che si riconosce nello stesso impulso autodistruttivo. Lo stile alterna ironia corrosiva e precisione tecnica. I dialoghi sono fatti di frasi spezzate e silenzi, e sembrano mettere in scena un vuoto comunicativo incolmabile. Il finale, con le due donne che fumano insieme senza parlarsi, è l’immagine perfetta di una complicità fragile e disperata. Davvero molto bello.
Sono davvero contenta di questa tua valutazione, Cristiana, molto attenta e dettagliata. È vero quanto dici dell’autodistruttività, consapevole nella figlia ma sostanzialmente inconscia nella signora Larsen. Grazie mille.
Questo posto è un luogo di una ricchezza infinita. C’è il tuo racconto, che sa di terrazzi bui alle due di notte e che a sua volta mi fa venire in mente l’altra storia che vuole un’artista (una pittrice, una scrittrice) sia tale in ragione del rapporto avuto con chi l’ha messa al mondo. E poi c’è il commento di @Dea , che ho trovato di una lucidità e al tempo stesso di un estro degni dei più riusciti sussurri alle orecchie da parte delle muse di @Tiziana.M . Che dire, meno male che ci siete ragazze.
Roberto, che dirti? Grazie, e il di più sarebbe troppo.
È notevole l’idea di usare lo spazio dei commenti di una persona per fare i complimenti ad altre due.
Mi è piaciuto molto. La narrazione ironica, a tratti grottesca, della figlia indesiderata che, attraverso la sua sinossi della vita della madre, non si arrende all’accusa sottesa di essersi rovinata da sé. Grazie molte per la lettura
Sei molto gentile, Paolo grazie a te. Insomma, forse lo sa il perché o almeno, per quanto la riguarda, sa che non è stato per amore.
La signora Larsen doveva invocare la Dea Bendata; questa avrebbe costretto la sua collega “Ironia” a prendere in ostaggio tutte le muse, e anche il padre di Franci sarebbe ritornato in ginocchio. Non so perché, ma questa pittrice mi è molto simpatica.
Sarebbe stato meglio, in effetti: il fatto è che la signora Larsen ignorava completamente l’esistenza della dea. Grazie mille, Concetta.
Un racconto “crudo”.
Uno di quei racconti che o ti affascina o non lo capisci fino in fondo…
…a me ha affascinato!
Grazie, Corrado, sono molto contenta che tu l’abbia apprezzato.
Un racconto scritto molto bene che apre molte riflessioni. Se ne potrebbe parlare per ore senza annoiarsi. Mi ha colpita il modo in cui apri: la figlia racconta di essersi rovinata la vita, ci aspetteremmo di sapere come, perchè, che si proceda verso quella direzione lì. Invece no. Addirittura ce ne scordiamo e il focus finisce sui guai della madre (gli artisti sono così, esigono la scena. A volte ti fanno un favore, come quello di metterti al mondo, poi tornano ad occuparsi di sè.)
Sul finale torniamo alla figlia, all’incomunicabilità tra le due, che pure si sono sfidate, per queste righe e per tutta la vita, in un gioco di specchi, senza mai dirsi apertamente nulla. Le parole non dette le ammazzerebbero. Così rimbalzano mute, come le colpe, e quel rovinarsi la vita che come un’eredità ostinata persiste. Ho fumato anche io in silenzio, per un sacco di tempo. Credo che in certi casi sia l’unico modo per dirsi che in fondo ci si vuole anche un po di bene.
Grazie per la lettura e l’ampio commento, Irene. Il racconto potrebbe essere volto al maschile senza cambiare in nulla il senso e la dinamica di ciò che è raccontato. È vero che la figlia fa da sfondo alla madre e che di lei sappiamo ben poco: soprattutto sappiamo che non era propriamente desiderata e che sta al mondo per una sorta di rivalsa sul precario amante della signora Larsen. Grazie ancora.
È vero, funzionerebbe perfettamente anche volto al maschile. Mi sono soffermata sul rapporto madre figlia, ma la figura di Larsen in effetti è sempre lì, presente nella sua assenza ( e nella presenza della figlia…). Questa intreccio è un altra delle molte e interessanti interpretazioni.