
Nascondere l’anima
D’inverno, nei rari giorni assolati di queste latitudini, il lago è splendido. Là dove s’allunga, svuotato delle vele che riposano all’ormeggio sotto le cerate, sorgono lontane le vette incanutite, scaturigine dei venti freddi che scendono a increspare la seta blu adagiata tra i monti.
I ristoranti addormentati, coricati sulle spiagge posticce deposte dai camion, si specchiano nel tremolio dell’acqua. Dietro le finestre chiuse dai tendaggi, come occhi dalle palpebre, sognano la stagione ventura e la sua gente, riparata dall’ombra dei rinverditi pergolati odorosi di glicine: scorrono birre e vini bianchi: freschi! frizzanti! i premurosi camerieri, carichi di risotti e di profumi, volteggiano tra i tavoli stracolmi del dehors, nel brusio delle voci e fra scoppi di risate; e il trillo di stupore dei bimbi, deliziati dalla placida eleganza del cigno, per un attimo soverchia ogni altro grido.
Sognano la stagione che non è, certi che sarà.
Tutti quanti in questo mondo fatichiamo per vendere qualcosa: perché siamo ansiosi di comprare. Ma, a pensarci bene, per lusinghe e flatteria, finiamo tutti, sempre, col vendere noi stessi. I prodotti di cui, bugiardi, lodiamo le meraviglie a basso costo, sono orpelli, accidentali pertinenze dell’unica merce che vendiamo.
Guidavo sulla strada grigia e umida, cicatrice d’asfalto tutta curve, incisa da una sferza colossale in riva al lago, distesa tra le pinete sempreverdi e i canneti avvizziti. Andavo a vendere me stesso, col pretesto dell’alchimia della finanza impacchettata nel computer. Un campionario di linee, di assi cartesiani incrociati dai santoni dei mercati, e ispirate glosse alle ultime tendenze, frammenti di futuro non meno che radioso, tutto racchiuso nella magia del silicio: valigia del commesso viaggiatore del secolo ventuno.
Un incontro di lavoro come tanti, senza pretese extra contratto: vendere: non importa come: non importa cosa. In un giorno feriale come tanti: sguarnito di fremiti, vuoto di presagi.
Al grande tavolo sedevamo in quattro, in una luminosa sala dalla quale spaziava la veduta sopra il lago blu stropicciato dal vento.
Lei era seduta dirimpetto alla collega con cui mi accompagnavo, dall’altro lato: dal lato padronale, dove stava l’amministratore e proprietario di quel lanificio di lane pregiate. Lane dalla lontana Australia, che, tessute e pettinate, da lì dipartivano verso le alte sartorie di tutto il globo, dalle quali sarebbero uscite nella preziosa forma di abiti eleganti, o di cappotti, o di maglioni, moltiplicate di valore dalla mano fatata delle grandi firme della moda, e degli uffici marketing.
L’avevo già incontrata qualche settimana addietro, lì nella stessa stanza, sul soffitto della quale riparano i barbagli del sole respinti dalle acque. Lì, seduti sulle stesse sedie.
L’ospite, uomo gentile e dai modi signorili d’un barone d’altri tempi, ci propose il caffè, quale corroborante elisir anteposto alla riunione. La mia accompagnatrice accettò. Io, invece, rifiutai con cortesia. È una pessima politica contrariare i clienti, anche nel diniego di chi ha radicato il timore di dare disturbo, di essere di troppo. Fu lei, assistente del maturo barone, a servirlo, dentro tazze di porcellana, accanto alla zuccheriera.
Spiegavo. Persuadevo. Spargevo nell’aria l’avvenire florido che occhieggia, per chi lo vuol vedere, dalle pagine finanziarie dei più illustri quotidiani, come una fragranza tentatrice, la quale tuttavia presto irrancidisce quando le parole son dimenticate, e non resta che fare i conti.
La guardai, per un istante soltanto, come l’attore dalla scena guarda il pubblico per indovinarne gli umori. Ricambiò sorridendo. Attratto, guardavo e riguardavo, per poi subito distogliere gli occhi, confuso e ammaliato dai dimenticati sorrisi femminili di cui faceva dono.
L’avevo già veduta, eppure fu la prima volta che la vidi. Era meravigliosa. Vestita d’un pesante cardigan color nocciola, abbellito di ornamenti a treccia, abbottonato fino al collo per proteggersi dai rigori del risparmio energetico. Gli occhi verdi come verdi colline, dolcissimi, splendevano tra i raggi del basso sole mattutino. Diafane e mezzo chiuse le labbra sottili. Una dea baciata dall’astro. La pelle candida di ninfa brillava, aureolata del lapislazzulo prestato alle vetrate dal cielo, ingioiellata di efelidi brune. I capelli castani le scendevano lungo le spalle protette dal golf, che placava i tremori suscitati dall’algida efficienza contabile del riscaldamento al minimo.
Per un istante, volavo nell’universo caldo di quelle iridi magnifiche, come una rondine sopra un bosco verde in primavera incide festosa l’infinito che l’accoglie. Tutto dicevo di me. Vi riversavo l’inconfessata pena: rivelavo in un impeto le cose indicibili che nascondo a me stesso: le miserie di un codardo, non affidate, per la paura di doverle guardare e dire ‘sono io!’, neppure alle pagine che sperpero sporcandole d’inchiostro da due soldi. Piangevo, scosso dai singulti, e avrei pianto sino a tramutare, libero, le lacrime in risate. Raccoglievo gioioso il perdono concesso senza condizioni: senza penitenze. Mettevo fine alla solitudine autoinflitta di chi non ha voluto mai donarsi; di chi credeva di rinchiudere in una formula i segreti della vita; di chi, reputandosi nulla più che osservatore, si scansava per non essere osservato; di chi ha distrutto i suoi affetti trattenendo l’anima per sé; di chi fiducia respingeva, non avendone da offrire in concambio. Appartenevo, finalmente! messi a tacere la cautela, i però e i forse, svanita nella magia dell’attimo la fobia di appartenere, disciolta nell’abbraccio di smeraldo.
Ma gli incantesimi durano per sempre solo nelle favole.
Rivolgendosi alla mia collega, ammirava la chiarezza del mio parlare, col morbido sorriso dipinto sulle belle labbra.
Certo! rispose quella, ha una gran pazienza… con quattro figli…
Lei ne aveva tre. Mi domandò curiosa, con un sentore che mi parve di malizia, se tutti dalla stessa donna.
In quel medesimo frangente, cadde la domanda del barone, la cui autorità riportò tutti alle faccende di lavoro.
Fu a lui che risposi, ignorando lei. Non avrei mai confessato, presente una collega, il trauma del divorzio. Le ciance, i sorrisetti, i ‘poverino, ma chissà che avrà combinato’ spaventano. Sì, un’unica donna avrei dovuto dire, ma non lo feci. Preferii di nuovo fingere la maledetta indifferenza che ho portato come una maschera lungo la mia vita, ripristinate le cautele, i dubbi, la paura di avere malinteso.
Io, estromesso dalla mia perché incapace di manifestare emozioni, profonde o superficiali che fossero; perché ostinato nel simulare noncuranza sino alla disgregazione di ogni affetto; io, quest’io deprecato dispensatore di sofferenza, quale diritto avevo di sottrarla al calore della sua famiglia? io, divorziato con quattro anime sulle spalle, ingombro di fastidi con il fisco nel disperato sforzo di mantenerle in dignità, io cosa avevo da offrire? un uomo siffatto è senz’altro bestia più terribile delle terribili bestie del libro di Giovanni: temuto ed evitato. Non gli resta compagna che la miseria: nelle sostanze per definizione, nella morale per deduzione.
Fui felice che non mi avesse servito il caffè, lei che mi sarebbe onore immeritato il servire.
Sulla via del ritorno, i ristoranti sognavano ancora. Io rivivevo la memoria tenera di un sogno, di una stagione che non è, certo che non sarà mai.
Avete messo Mi Piace1 apprezzamentoPubblicato in Narrativa
Splendida l’immagine femminile. Mi sembra quasi di vederla, gentile e sorridente, muoversi nella stanza. Mi piace la luce che sei riuscito a ricreare dall’inizio alla fine, quasi fosse protagonista. Molto bello
Ti ringrazio per la parole gentili.
Emozionante questo librick!
Grazie, sei gentile.
Ti ringrazio.
Che meraviglia il flusso un po’ malinconico che riesci a creare… molto lacustre. Bravo!