
Non in vena il 4 luglio
Non era più una giornata uggiosa, ma a Mike non gliene fregava un cazzo. Si sentiva lo stesso triste dentro. Doveva bere. Il suo cuore era un macigno che faticava a stare al suo posto nel petto, il cervello martellava contro le pareti craniche dando scossoni cosi forti da spostargli l’equilibrio e gli gonfiava gli occhi gialli. Decise di alzarsi ugualmente dal materasso lercio di vomito dov’era crollato nudo il pomeriggio precedente, o forse il mattino precedente e si diresse barcollando al cesso. Qualcosa di grande quanto il suo pollice e nero come la macchia di caffè sul cucinino saettò all’interno della tazza, ma Mike puntò meglio che potè e ci pisciò dentro. Faceva le cose per puro e semplice istinto. La bocca secca ed amara lo portò a fissare un limone rinsecchito e un succo d’arancia con della muffa sul tappo, gli unici ospiti del frigo. Forse c’era ancora della vodka. Doveva bere. Trascinò allora un piede dopo l’altro verso l’angolo notte e tra gli stracci dismessi trovò una bottiglia con due dita di liquido trasparente all’interno. Annusò il contenuto per accertarsi che non fosse acqua e tornò al frigo. Trovò un bicchiere incrinato nel lavandino e vi versò dentro la vodka e il succo.
Mike fissò il bicchiere con la mente vuota per qualche minuto prima di afferrarlo più saldamente che potè e portarlo alla bocca per berne il contenuto tutto d’un sorso. Cazzo, come si sentiva meglio! Ora, doveva uscire e vedere di raggranellare qualche dollaro per provare ad andare avanti ancora un giorno. Porco boia, quanto odiava uscire, quanto odiava vedere il mondo. Quel mondo era pieno di gente spocchiosa ed ipocrita, capace di fare le peggio porcate pur continuando a guardare il prossimo dall’alto in basso, per poi casualmente qualche moneta ai poveracci come lui per pulirsi una coscienza più fetida del buco in cui si rifugiava. Che ci si pulissero il culo con la loro falsa elemosina!
L’ex pugile messicano alto due metri che se ne stava sempre sul pianerottolo ad aspettare qualcuno da prendere a cazzotti, gli faceva paura, cosi Mike venne fuori scavalcando la finestra scendendo dalla scala antincendio. Il magone andò con lui. Passò attraverso le sterpaglie dannatamente pungenti e urticanti di un giardino abbandonato alla spazzatura, ai profilattici usati e alle siringhe e si ritrovò sulla Thomas Boyland Street. Di fronte alla chiesa abbozzò un segno di croce, automatismo robotico e invincibile delle forzate ore di catechismo infantile, si orientò e si diresse a piedi verso Manhattan. Ci sarebbe voluto un po’.
Doveva bere, cosi attraverso il Ponte di Brooklyn porgendo la mano tremante ai turisti e ne ricavò qualche moneta del resto dei loro menù McDonald’s. Rimediò anche una sigaretta schiacciata sul ciglio del passaggio pedonale, ma fumata solo a metà. La raddrizzò con le dita e nascose la testa fra le spalle per accenderla con un fiammifero umido. Si godette l’intenso istante in cui il fumo scende giù per la gola e ti riempie dentro, ma poi tossì fuori tutto il suo catarro sui piedi di una vecchia che a stento alterò il passo.
Giunto a Manhattan si grattò la barba mal tagliata con delle forbicine dalla punta rotonda. Sputò muco e una bestemmia in direzione di Wall Street, che si nascondeva dietro quei quattro grattacieli di merda. Tra i postumi della sbornia precedente e la necessità di bere decise dove andare. Girò a sinistra sulla South Street per raggiungere il Battery Park, il molo dei ferryboat per la Statua della Libertà doveva essere un formicaio a quell’ora.
Al Vietnam Veterans Memorial, un anziano signore ben vestito andava avanti e indietro con passo marziale ordinando ad alberi e cespugli di stare sull’attenti e serrare i ranghi per prepararsi all’imminente battaglia. “Un altro povero disgraziato vittima di questo nostro sistema di merda”, pensò. Proprio come quell’altro sciroccato che che andava sempre sulla Quinta a cui la testa, già in giovane età, gli ordinava di vestirsi da Cenerentola al Ballo facendo però voltare e sorridere solo i turisti, che avrebbero portato a casa la foto ricordo di un rincoglionito. Benvenuti a New York, la tana dei pazzi.
Mike continuò in direzione dell’attracco dei traghetti che andavano e venivano da Liberty Island. Sorrise per la previsione azzeccata. Gente a valanghe. Chilometri e chilometri di soldatini in fila per un posto per visitare, a pagamento, la più grande menzogna del secolo.
Delle ragazze in fila discutevano su quale tipo d’uomo fosse quello da sposare.
“Quello con la fava più grossa!”, pensò. Si avvicinò a loro con fare garbato, si schiarì la voce e butto in fuori il petto.
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Fece un inchino e porse la mano. Le ragazzine sorridevano divertite. Un dollaro e mezzo guadagnato. Doveva bere.
Gli piaceva la musica che sentiva. Era una melodia, sembrava il suono di una chitarra. Lo attraeva, lo chiamava. Chiunque fosse quello stronzo con la chitarra si sarebbe intascato un bel po’ di verdoni, e a scapito suo e di tutti quei disgraziati come lui che erano buoni solo a bere. Nessuno sembrava farci caso, addirittura nessuno sembrava sentirla tranne lui, ma che ci vuoi fare, la gente qui e così. Questa è New York, amico, a nessuno gli frega un cazzo neanche se schiatti sotto i suoi occhi.
Mike non riusciva a togliersi quella cazzo di musica dalla testa, continuava ad essere un richiamo. Non riuscì a fare a meno di seguirla. Oh, quel tipo era proprio bravo. Ne avrebbe fatti di verdoni!
Come una marionetta che non può fare a meno di assecondare il volere di chi ne muove i fili, si mosse verso gli alberi piantati attorno al Castle Clinton. Guidato dalla musica Mike trovò in men che non si dica l’uomo che suonava. Era un vecchio nero. Si era scelto proprio un bel posto, quel figlio di puttana. Appartato dalla fila di coglioni sotto al sole, racimolava qualcosa dai passanti che cercavano di evitare la calca, ma comunque abbastanza vicino perché ogni tanto qualche bambino grazioso e dai vestitini puliti si staccasse dai genitori in coda per posargli una moneta nel cappello lercio.
Si avvicinò anche lui pian piano e notò gli stracci di cui era vestito. Una maglia bianca piena di polvere bucata qua e là e dei pantaloni di velluto, forse un tempo marroni, dovevano essere stati la sua unica divisa per molti anni. Aveva i piedi scalzi consumati dal molto camminare e con gli occhi semichiusi si guardava le mani sottili e agili che armeggiavano sapienti su una vecchia chitarra. Sembrava un raccoglitore di cotone con un fottuto talento arrivato li dal Mississipi e dall’Ottocento.
Quell’uomo d’improvviso alzò gli occhi e guardò Mike come se lo avesse riconosciuto, poi gli fece cenno di sedersi accanto a lui. Il tutto senza mai smettere di suonare. Senza dire una parola. Mike eseguì senza fiatare. Non si sa mai, magari lo avrebbe fatto partecipe di un po’ del malloppo.
Sembrava una cazzo di magia. La melodia penetrava tutto il suo corpo, riempiva ogni fottutissimo spazio vuoto dell’anima. Si sentiva intontito, ma la sensazione gli risultava piacevole, come dopo essersi scolato una bottiglia di whiskey di marca. Il dolore alle tempie si affievolì, la tristezza lentamente si sciolse, la rabbia contro il mondo andava diradandosi.
Le labbra del nero finalmente si mossero e una voce profonda, malinconia ed irreale ne uscì liberamente. La canzone cominciava allegra, per poi farsi lenta e d’improvviso veloce ed aggressiva, infine malinconica.
Mike ebbe l’impressione che stesse raccontando la sua storia. Ma come diavolo faceva quel tipo a sapere i cazzi suoi? Nella musica c’era la sua storia. Nelle parole c’era la sua storia. Era triste, mesta, pesante. Fatta di rabbia e di niente. Mike aveva vissuto una vita di merda. Era caduto sempre più in basso, guardando se stesso come uno spettatore infastidito. Tastò le monete in tasca. Doveva bere, ma quel tipo non smetteva di suonare e lui non riusciva ad alzarsi.
D’improvviso il vecchio smise di cantare e allontanò le mani dalle corde che vibrarono in una sorda eco. Guardò con occhi spiritati alle spalle di Mike come se qualcosa di brutto stesse per assalirli. Anche Mike si voltò timoroso ma dietro di lui c’erano solo fronde. E gente in fila. E l’Hudson che scorreva e divideva New York e il Jersey. E quella troia col braccio alzato se ne stava ancora lì all’orizzonte. Il mondo era tornato al suo posto, e faceva schifo come prima. Si girò per chiedere spiegazioni al vecchio ma quello in un secondo era sparito, volatilizzato, dileguato. E con lui la sua chitarra. E il cappello con la grana. Doveva bere.
Questo racconto sa di New York già dalle prime righe e ti trascina in un vortice di miseria, ma anche di bellezza, a suo modo. L’ho letto con grandissimo piacere. Parole esagerate, ma sempre al posto giusto. Veramente bello! Complimenti
Grazie Cristiana!
Sono contento che ti sia piaciuto. Ricordo che quando uscii la prima volta dalla Central Station, New York mi diede subito una sensazione di casa, ma come tutte le grandi cittá possono elevarti a godere della loro grande bellezza cosí come tirarti giú in un “vortice di miseria” come hai detto tu.
Grazie ancora.
La mia attenzione si è concentrata sul musicista nero. Demone? Confesso di aver pensato fosse lì per raccogliere l’anima ammaccata del protagonista. Angelo? La musica è riuscita a dargli pace, seppure per un istante. La sua scomparsa nel nulla ha amplificato la sensazione che la sua presenza fosse un elemento soprannaturale. A meno che questo non sia l’incipit di una serie, temo non avrò modo di scoprirlo…
Grazie Micol!
sono davvero contento del tuo commento. Demone e Angelo forse solo le due facce della stessa. medaglia, ma siamo noi a guardarla da un lato o dall’altro. Siamo noi a rispondere agli stimoli esterni anche e soprattutto in base alle nostre capacità di ricezione e di riposta che possiamo avere.
Molto originale questo librick, mi è piaciuto!
Grazie Kenji! 😀