Non oggi

Serie: Il solo modo che conosco


NELLA PUNTATA PRECEDENTE: Lei con lo sguardo annoiato, ascoltava il ragazzo spendersi in una dettagliata esposizione sulla formazione degli Slayer dal 1981 ad oggi. Ho provato un forte senso di comunanza con quel ragazzino bianchiccio e magrolino, avendo intuito che entrambi, quella notte, saremmo andati a letto da soli.

Per il ritorno in ostello ho lasciato fare più alle gambe che alla memoria. Con pochi lampioni accesi e i contorni più sfumati rispetto all’andata, di certo avrò mancato più di una svolta. Ci ho guadagnato però in scalinate lunghe e cocciute, che quando arrivi in fondo ti tremano un po’ i polpacci se hai bevuto un sorso di più. E in vicoli stretti la cui fine sta dietro ad una curva leggera; di quelli non ragionati, solchi che appaiono solo dopo avere costruito entrambi i muri che li delimitano, in tempi diversi.

E una volta messo piede in stanza, ecco, quello è stato il momento in cui prendere coscienza che alla veneranda età di 50 anni basta con questa stronzata anacronistica delle camerate miste. Costi quel che costi, piuttosto il cesso sul terrazzo.

Per la paura di svegliare qualcuno mi sono lavato e svestito con la sinuosità di un’iguana che muta la pelle. Come Iggy Pop nei suoi anni d’oro, come quando da adolescente tornavo a casa ad orari irripetibili e facevo di tutto perché i miei genitori non si svegliassero e mi facessero il culo.

Assegnato al piano inferiore di un letto a castello, quello superiore risultava vuoto nel momento in cui mi sono sdraiato, regalandomi una breve gioia spazzata però via quando il tizio che l’aveva prenotato ha pensato che le due di notte fosse un orario consono per fare check-in. Tizio che ha sicuramente avuto genitori più permissivi dei miei visto il modo in cui ignorava il concetto di circospezione.

Il letto a fianco al mio era occupato da un ragazzino dalle fattezze di una scrofa. Non lo dico in termini offensivi: somigliava proprio ad un cinghiale (così come uno può assomigliare ad un delfino), e come tale russava. Un suono che si presentava come un urlo, una supplica di aiuto; e a nulla sono serviti colpetti di tosse, calcetti al suo materasso o schiocchi leggeri delle dita. Ha perseverato, intransigente, tutta la notte.

Ma grazie a lui ho capito una grande verità: che non serve accanirsi contro gli elementi sui quali non puoi esercitare un controllo, perché tanto la rabbia non li farà sparire. Se invece li prendi come parte di ciò che ti circonda, cerchi di comprenderne l’equilibrio, di assecondarne il ritmo che li governa, è capace che magari riesci ad amalgamartici tanto bene che alla fine sono proprio loro a condurti dove volevi andare. Persino a farti prendere sonno, cullato dal lamento senza pace di un suino sgozzato.

Svegliandomi la mattina presto, con ancora tutti quanti addormentati ma luce a sufficienza per guardarmi intorno, mi sono accorto che quel ragazzo doveva essere a suo modo un piccolo guerriero, che combatteva ogni notte contro una qualche forma di non so che cazzo e che lo costringeva a dormire con un cerotto che gli serrava le labbra, così da respirare solo con il naso. Pensa che strazio quando ha il raffreddore.

Sono sceso a fare colazione nella stessa saletta in cui il giorno prima la graziosa ragazza di colore mi aveva spillato una birra. Speravo di incontrarla, fa sempre piacere un volto sorridente al mattino, specie se il primo visto da sveglio assomiglia a Peppa Pig con la bocca tappata come fosse la vittima di un sequestro.

Sfortunatamente di lei neanche l’ombra. Al suo posto, una cameriera visibilmente incazzata perché quel sabato mattina doveva gestirsi da sola me, normali avventori ed una squadra al completo di canoa polo in trasferta, comprensiva di giocatori adolescenti, allenatori, preparatori, talent scout, groupies e spacciatori di sali minerali. Deve rendere un casino come sport se ti permette di portarti dietro tutta quella gente.

Di mio, ho cercato di apportare il mio contributo a quella non semplice mattina di lavoro cercando di disturbare il meno possibile, evitando quanto più domande inopportune tipo:

«Scusi, sa dove sia il latte?»

«Sì. Te lo posso dare solo io.»

«Ok. La macchina del caffè?»

«Sì. Ma anche quello te lo posso dare solo io.»

«Bene. Posso avere entrambi? Quando ha un attimo.»

«Non ora, c’è da aspettare un po’.»

«Non ho fretta, il check out è alle 11.00».

In realtà tutto quel tempo mica ce l’avevo. Mi aspettavano circa sei ore di strada normale più le soste per attraversare la Svizzera e fare il mio ingresso come un conquistatore a Dornbirn, nel lembo più a ovest dell’Austria, che si conficca come una spina proprio al di sotto della Germania. Ma mi sono guardato bene dal farglielo presente.

Con la pancia piena, sono tornato in camera per l’ultima volta. Ho radunato i miei averi e salutato i miei compagni di stanza.

«Ciao ragazzi» mi sono rivolto ad una platea di bocche spalancate (tranne una) e palpebre serrate, «non mi mancherete neanche un po’. Ma senza rancore».

Quando ho lasciato la chiave al banco e sono uscito nel parcheggio sul retro, ho sentito provenire da dietro una serranda lo scalpitare di zoccoli impazienti. Un’emozione affettuosa e genuina, naturale.

«Greta» l’ho salutata aprendo il garage, «ti sono mancato? Ti sei riposata? Ci aspetta un viaggio mica da ridere oggi.»

Una controllata di rito ed è partita al primo colpo, senza nemmeno dover tirare l’aria. Ormai la conosco, è il suo modo per dirmi di sì.

Una volta in strada, il territorio della Valsassina ci si è presentato davanti con le sue pareti verticali verdissime e fitte, da fendere attraverso la Provinciale 62 come un filo teso contro un blocco di ghiaccio. Appena un assaggio, ed io già non vedevo l’ora.

Sistemandomi i guanti dopo aver fatto benzina, un uomo anziano mi si è avvicinato a passo lento, le mani in tasca:

«Bella, è quella inglese». Non lo chiede, lo dice.

«Esatto.»

«Due cilindri?»

«Giusto». È una delle uniche due cose tecniche che conosco. «Ultimo modello a carburatori» ho aggiunto, che sarebbe la seconda cosa che so. Ma fa la sua porca figura.

«Dove se ne va di bello?» mi ha chiesto indicando la borsa sul serbatoio.

«In Germania.»

«Da solo?»

«Da solo.»

Ho visto un veloce rifesso di rimpianto attraversargli gli occhi, come un giorno toccherà a me. Ma non oggi.

«Ah, bei tempi quelli. Buon viaggio».

Serie: Il solo modo che conosco


Avete messo Mi Piace2 apprezzamentiPubblicato in Narrativa

Discussioni

  1. Questa la devo citare: “Per la paura di svegliare qualcuno mi sono lavato e svestito con la sinuosità di un’iguana che muta la pelle. Come Iggy Pop nei suoi anni d’oro, come quando da adolescente tornavo a casa ad orari irripetibili e facevo di tutto perché i miei genitori non si svegliassero e mi facessero il culo.” Mi hai fatto morire😂😂😂😂

  2. Ho cercato di mantenere un contegno, ma su Peppa Pig vittima di un sequestro sono scoppiata a ridere.
    Un tocco di malinconia, invece, l’ha dato l’incontro con l’anziano e il riflesso nei suoi occhi. Quel “non oggi” contro i rimpianti e le avventure mancate mi sembra il filo conduttore di questo viaggio.
    Grazie Roberto e complimenti, alla prossima tappa.

    1. Belin, questo episodio l’ho scritto ieri notte e Peppa Pig mi era completamente passata di mente😂. Grazie per avermela ricordata, oltre che per l’apprezzamento. Alla prossima tappa!

  3. Divertente la narrazione del bestiario da camerata. Per quanto pittoresco, riconferma che non ne sarei capace, forse non lo sarei stato neanche da giovane. Ho trovato quindi liberatoria e piacevolissima la ripartenza, con la parentesi del vecchio a cui non è rimasto che il piacere di vedere qualcun altro avventurarsi su due ruote, seguendo la rotta indicata dal cuore. Grazie Roberto per la lettura