NON TORNA

Stamattina il banco è vuoto.

La sedia spostata di due dita, come un ginocchio che si scansa.

«Pa—», dice la prof. Si ferma.

La penna resta sospesa, goccia blu che non cade.

Salta il cognome. Va avanti.

Uno ride col naso; si zittisce da solo.

Paolo non c’è più.

E io sono pieno di lui: nelle dita, nella bocca, nel respiro che non viene.

Quel caschetto da bambola. Quel modo di stare zitto come se ascoltasse voci migliori delle nostre.

L’abbiamo punto. Punto.

Finché non ha smesso di suonare.

Mi pizzica la nuca.

Sul ripiano, una strisciata di gomma pane: grigia, un livido secco.

Uno dietro sussurra «si è impiccato» con la stessa voce con cui si dice «piove».

A me si chiude lo stomaco come un pugno.

Non torna. Lo penso piano, per non farlo sentire.

Qualcuno mastica menta chimica.

La bidella passa col carrello: candeggina incollata ai banchi come sudore vecchio.

La cera fa fischiare le suole.

Apro la chat per riflesso. Scorro.

L’ultimo messaggio suo è lì, grigio fermo: «Domani tenete un posto per me in prima fila.»

Sotto c’è il mio 👍. Mi si gela la mano.

Ieri avevo già pronto “domani”: strappargli il cappuccio, fare un video, sticker con la parrucca.

Battuta lucidata come una lama.

E domani non c’è.

Non ci sarà mai più.

Mi arriva addosso una parola che non so tenere: corda.

Non la voglio, ma arriva lo stesso.

Poi un’altra: coraggio.

Le palle che ha tenuto lui, da solo, alle cinque di mattina.

E prima ancora, la sua paura: quella che si metteva in tasca ogni giorno per tornare qui, sapendo di doverci passare in mezzo.

Ora che fai, lo incensi?

Fra poco dirai che gli volevi pure diventare amico.

Sei una merda.

Sono una merda.

Lo so.

Spengo il telefono.

Non scrivo a nessuno.

Il mio 👍 resta lì come una cicatrice.

Il banco di Paolo non è più un banco: è un buco.

Sotto, un puntino nero: un plettro.

Piccolo, triangolare, un angolo mangiato.

Lo guardo.

Nessuno si muove.

Le penne rigano tutte insieme.

Le vene sul polso tracciano una mappa che non so leggere.

Lo lascio? Lo prendo?

Se lo lascio è un altare.

Se lo prendo è un furto.

Mi piego. Lo raccolgo.

Scotta: il calore sale all’indice e all’anulare, un brivido affamato.

Dovrei rimetterlo giù. Me lo infilo in tasca.

L’angolo morde il tessuto, ci lascia un dente.

La prof detta. Qualcuno tossisce.

Tiro indietro la sedia: il suono sega l’aria.

Mi dico che lo riporto dopo.

Ogni volta me lo ripeto più piano.

A casa lo mollo sulla scrivania.

Cartone di pizza, briciole dure come schegge, biro senza tappo.

Lui è l’unica cosa pulita.

Non dovrebbe stare qui.

Dovrebbe stare nella sua mano.

Lo fisso finché gli occhi bruciano.

Vedo le dita di Paolo: polpastrelli arrossati, tagli di corda. Mi, La, Re, Sol.

La cassa chiara segnata da tacche opache lungo il bordo.

La sua stanza non la conosco e non la voglio inventare; mi arriva solo un’eco: una gabbietta che ticchetta, una madre «abbassa un poco», un padre che batte due colpi sul tavolo, a tempo.

Il triangolino non si muove.

Sembra tenermi d’occhio. Piccolo e fisso. Un occhio di plastica.

Lo riprendo tra pollice e indice.

La resina scaldata dalla mano sa di zip bagnata.

Chiudo gli occhi e sento di nuovo quelle dita. Quelle note.

La pelle pizzica.

Mi parte un pensiero lurido, nudo: è colpa sua.

È mio. La frase mi schiaffeggia da dentro. Mi faccio schifo.

Lo appoggio sul foglio.

Mi scappa un singhiozzo corto, a strappo.

Mi piego. Piango senza suono.

Il naso cola, in bocca il gusto di ferro della graffetta masticata prima.

Ho quattordici anni e mi sento guasto, in un angolo della testa dove nessuno è ancora passato con la scopa.

La mia stanza non è una stanza: è una scatola con fessure.

Le tende sanno di polvere vecchia.

Il sole, quando passa, ci muore dentro a rallentatore.

Mi sdraio per terra, la guancia incollata al parquet freddo.

Il legno sa di farina stantia.

Tengo il plettro tra i denti per un secondo: stagnola e monete in bocca.

Lo tolgo, lo strofino sulla maglietta. Non serve a niente.

Rido. Un suono corto, da cane che sogna. Poi mi fermo. Le orecchie ribollono.

Spengo tutto.

Nel buio il plettro è una macchia inventata; lo riconosco dal silenzio che fa.

Allungo la mano, lo cerco come un interruttore in casa d’altri.

Lo trovo. Lo stringo.

Appoggio l’indice sulla scritta in rilievo — una marca che non conosco.

Immagino la sua voce: non quella vera, perché non la conosco.

Non l’ho mai voluta sentire per davvero.

Immagino come avrebbe detto «basta» se avesse avuto voglia di dirlo.

Però non l’ha detto. O noi non abbiamo voluto sentire.

Forse l’ha scritto da qualche parte e abbiamo risposto con un meme.

Mi parte nella testa la playlist: i vocali, gli sticker, le faccine.

Le cancello mentalmente una per una, come se bastasse.

Tap lungo, elimina per tutti, conferma.

Ridicolo: “per tutti” era la parte che preferivo piazzare.

Adesso suona come un funerale digitale.

Cancello, cancello, cancello.

C’è un vuoto dove prima c’era rumore.

Dentro il vuoto, il plettro.

Paolo non parla, ma mi spinge il dito contro il vetro ogni volta che mi viene voglia di inoltrare un singhiozzo.

Hai capito? dice senza voce. Hai capito cosa sei?

Sono vigliacco. Lo dico senza dirlo. Sono un assassino.

La parola si sbriciola sulla lingua. Sa di medicina scaduta.

Me la tengo in bocca finché diventa poltiglia.

Mi addormento.

Sogno che torno in classe e il banco non è più vuoto.

Seduto c’è un plettro grande come un cuscino.

I compagni si siedono sopra per non graffiarsi.

La prof scrive alla lavagna ma dalla punta del gesso esce sangue.

Mi sveglio col collo indolenzito e odore di federa: tessuto umido, saliva secca.

Mi chiedo se riportarlo.

Buttarlo via — sarebbe ucciderlo di nuovo.

Lasciarlo sul piano di legno con un bigliettino. Darlo ai suoi. Non lo so.

So solo che stanotte dorme qui, a guardarmi, a non farmi scappare.

SCUSA.

Non so a chi.

Forse a lui.

Forse a me di dieci anni. Forse al niente.

Non torna niente. Resta tutto. Domani.

La mattina dopo non voglio alzarmi.

Mi trascino.

Mi lavo con acqua troppo fredda.

Lo specchio non mi riconosce.

Sul bordo strisce di dentifricio secco: le gratto con l’unghia.

Felpa scura.

Plettro in tasca.

Esco.

Fuori il cielo è piatto, steso come un lenzuolo bagnato.

La rampa d’ingresso sa di gas di motorini.

Un ragazzo della A ha gli occhi rossi. «Allergia», dice.

Nessuno gli crede e nessuno insiste.

Passo davanti alla cappella di piante finte piazzata vicino ai bidoni.

Un biglietto con un cuore sbavato:

«Ciao Paolo, suona forte anche lassù».

Mi viene da ridere e da vomitare insieme.

Mi mordo il labbro finché sa di ferro.

Nessuno parla forte.

Le frasi si sono incrinate nella notte e adesso strisciano, zoppe.

In aula arrivo presto.

Il banco è pulito.

Guardo il posto di Paolo: la sedia un filo storta e, sull’asse, una mezzaluna lucida dove la vernice è consumata — il segno di chi si dondola avanti e indietro quando non sa dove mettere le mani.

Appoggio il plettro, piatto e muto, come una moneta che nessuno raccoglie.

Ruoto l’angolo scheggiato verso la finestra: deve guardare fuori.

Mi siedo dietro.

Lo guardo senza guardarlo, come si fa con le cose che bruciano.

La prof entra. Appoggia il registro: colpo secco.

La penna stride.

La campanella vibra.

Restiamo seduti.

Uno beve come se gli stessero rubando l’aria.

Nessuno esce, nemmeno quelli che non sanno stare fermi.

La paura in aula si sente.

Non è un’idea: è un odore.

Sudore fresco, deodorante sgonfio, carta inumidita, gomma raschiata fino all’osso della seduta.

Non è la sua paura. È la nostra.

Paolo adesso è un coltello senza lama che comunque taglia.

Penso: ha vinto lui.

Mi entra nel petto senza bussare.

Bocca asciutta, mani appiccicose, lo stomaco che si torce piano come uno straccio.

Le ore si sgranano: italiano, matematica, scienze.

La voce degli adulti ha perso le curve: cade piatta, come acqua da un secchio.

Il plettro resta.

Ogni tanto qualcuno guarda lui e poi guarda me.

Non so se se ne accorgono.

Magari no.

Magari sì.

La timidezza collettiva è uno scudo: basta tacere e siamo tutti salvi.

Sorrisi a bocca chiusa.

Occhi piantati nei buchi del banco.

La lavagna odora di spugna acida.

Nel corridoio, due prof parlano sottovoce.

Una parola si stacca e mi entra nell’orecchio: «induzione al suicidio».

Resta lì, come un insetto.

La bocca mi si riempie di saliva amara.

Vedo il mio pollice su inoltra, gli sticker, il 👍.

Le mani sudano fino ai polsi.

Mi immagino il cellulare sulla scrivania della preside, le chat stampate, il mio nome cerchiato in rosso.

La gola si chiude. L’aria non basta.

All’ultima ora vado in bagno.

Il neon sfarfalla, come se fosse già sera.

Pisciatoio gelido, porta scrostata.

Una scritta: PAOLO—, raschiata via male.

Mi sciacquo la faccia. L’acqua sa di rubinetto vecchio.

Appoggio la fronte alle piastrelle.

Mi punge il naso. Sale acido in gola.

Ripeto in testa quella parola — induzione — come un chiodo spinto piano.

Torno. Il plettro è ancora lì.

Mi guarda. Non può, ma mi guarda.

Lo prendo. Tasca destra.

Il tessuto fa un fruscio corto, come carta umida.

Sento l’angolo sulla coscia.

E mi scopro a pensarlo utile.

Come se quel triangolino nero potesse fare da scudo.

Come se, tenendolo addosso, Paolo parlasse per me: non sapevi, non volevi, smettila.

Una sciocchezza.

Un porta-sfortuna al contrario.

Ma la tasca si scalda e per un attimo respiro.

Resto così, fermo.

Se aprono i telefoni, se guardano tutto.

Stringo la tasca finché fa male, come a stringere una mano che non c’è.

Mi dico che finché lo tengo con me non mi cadrà addosso tutto, che possa fare da avvocato, da tappo, da diga.

So che è falso.

Eppure il battito rallenta di un niente.

Poi riparte, più forte.

Esco. Cammino.

Non cerco scuse, ma mi vengono dietro come cani sciolti, i pensieri:

«Era un gioco», «Non eri solo tu», «Se lo cercava». «È colpa tua.»

Li lascio ansimare. Non li spengo.

Ogni tanto uno morde al polpaccio.

Non esce sangue. Fa male lo stesso.

Al cancello una madre al telefono: «un bambino meraviglioso», voce di fretta.

Tiro dritto.

Mi accorgo che sto contando: uno, due, tre.

Non so cosa.

Forse i passi fino a casa.

Forse i giorni finché smetterà di pungere.

Fuori l’aria sa di pioggia che forse non viene.

Stringo le spalle. Mani nelle tasche. Vuote. Freddo uguale.

In testa una frase non si spegne: dovrei sparire.

La ripeto finché si consuma. Poi ritorna.

Non torna altro. Resta questo.

Non guardo il cielo. Non ci vedo niente.

Cammino col mento giù. Lacci sporchi.

La strada sa di benzina giovane e pane.

Un motorino lascia una scia.

Chiudo gli occhi al semaforo. Li riapro.

Un cane tira verso un palo. Un bambino ride. Non noi.

Metto una mano sul petto. Il cuore fa poco rumore. Meglio.

In tasca, niente.

In bocca, nessuna morale.

E in fondo alla lingua, la parola che non cambia più: non torna.

Torno a casa a piedi. Evito il bus: fumo e chiacchiere molli.

Costeggio il campo da calcetto: la rete disegna gabbie sul marciapiede.

Mani in tasca. Sento il plettro. Vivo.

Mi scappa un pensiero che odio: se lo tengo io, lui sta con me.

Lo ricaccio. Non voglio essere quell’egoismo morboso. Lo sono già.

A casa non c’è nessuno.

Dal piano di sotto una risata registrata.

La mia porta cigola più a lungo del solito.

Poso il plettro sul tavolo. Legno con aloni scuri di bicchieri.

Spengo la luce. Mi siedo. Respiro.

Il buio ha il suono del naso tappato.

Passo le dita sulle ginocchia: pelle tesa, peli, brufoli.

Penso a carnefice.

Mi viene da ridere un secondo: parola troppo grande per noi.

Poi ci sta.

Paolo, quattordici anni; io, il suo carnefice.

Il suo gesto ci ha marchiati.

Non perché ci abbia fatto del male, ma perché ci ha tolto la scusa.

È lui a tenerci per il collo adesso, a farci dire: «non ero io», «si scherzava», «non volevo».

È lui a farci scegliere, ogni minuto, che tipo di merda essere:

quella che non guarda,

quella che guarda e scappa,

quella che dice «era goliardia»,

quella che si appuntisce in tasca un pezzo di plastica per sentirsi punita.

Mi alzo.

Stacco un pezzo di scotch dal cassetto.

Nastro il plettro sotto il piano della scrivania, al centro.

Premo bene.

Così, quando cerco una penna, punge.

Così non dormo. Così non scappo.

Non è memoria. È spina.

Non so se è giusto. Non so se esiste un giusto.

So che il dolore piccolo tiene lontano quello grosso per qualche minuto.

Mi avvicino alla finestra.

Fuori niente di importante. Gente che passa. Una signora con le buste.

Il mondo ha già ripreso il suo rumore di sempre. Io no.

Più tardi, magari, infilerò la mano sotto la scrivania.

Non per punirmi.

Per ricordarmi che, anche se non torna, c’è.

E pungere è tutto quello che ci ha lasciato per non dormire tranquilli.

Chiudo gli occhi.

Nel nero una forma triangolare rimane accesa.

Non fa luce. Fa caldo.

Basta così.

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Discussioni

  1. Ciao Lino, hai scritto un racconto commovente, duro, che affronta un tema complicato. Non sempre i responsabili di atti di bullismo hanno cognizione della gravità dei loro gesti. Penso che la sensibilizzazione verso questo tema passi anche attraverso storie come la tua, racconti che invitano alla riflessione. Complimenti per la sensibilità che dimostri ogni volta.

  2. Un lungo flusso di coscienza che cerca di seguire il filo dei pensieri di un ragazzino che assaggia la morte. Tante parole, tante cose dette o solamente accennate, sottintese. Altre, invece, urlate.
    La cosa che mi stona è la mancanza degli adulti. Non credo sia verosimile immaginare una classe piena di alunni e insegnanti, dopo che è capitato un evento tanto grave. Immagino piuttosto il tentativo, anche se spesso ‘a vuoto’ o goffo, di accompagnare i minori fino alla consapevolezza di un gesto da cui non si torna.
    Però, questo è un racconto e, alla luce dei casi di cronaca così toccanti, credo sia giusto usare la propria voce per dare voce.

    1. @cristiana Grazie per la lettura attenta. L’assenza degli adulti è una scelta: quel silenzio, per me, è responsabilità mancata. Nella vita reale arrivano protocolli, circolari, “momenti di riflessione”; nel racconto li ho tolti per far sentire il buco che lasciamo quando voltiamo la testa, quando travestiamo la prepotenza da goliardia, quando scarichiamo tutto su scuola e schermi e intanto seminiamo etichette a cui i figli si aggrappano.

  3. Mi ha colpita molto il modo in cui hai descritto lo stato d’animo di questo ragazzo che narra. Il suo flusso di pensieri è contrastante. Non è facile affrontare la morte a questa età. Non è facile affrontare neppure la vita. Figurarsi un evento atroce come il suicidio di un compagno. Colpisce la presa di coscienza riguardo l’accaduto, un tentativo di elaborare dove la consapevolezza affiora a tratti, perchè l’adolescenza è l’età degli eccessi, nel bene e nel male, i confini non sono chiari e la violenza purtroppo è sfrenata, gratuita, proprio perchè non si ha ancora ben chiaro il proprio ruolo, la conseguenza alle quali certe azioni possono portare. Lo hai reso benissimo. Manca la voce degli adulti. Che invece la consapevolezza e il senno di poi dovrebbero averlo fatto e finito. Anche a detta degli psicologi, credo.
    Molto coraggioso e molto bravo.

    1. Grazie per lo sguardo preciso. L’assenza degli adulti è voluta: quel vuoto, per me, è colpa. Siamo noi, gli adulti, a “guardare altrove”, a normalizzare la prepotenza chiamandola goliardia, a delegare alla scuola o allo schermo, mentre costruiamo stereotipi a cui i figli si aggrappano (“capelli lunghi e biondi? allora sei Nino D’Angelo”). Siamo gli stessi che decidono guerre e il clima di violenza in cui loro respirano. Il plettro non punge solo il narratore: è un atto d’accusa contro di noi. Siamo i principali responsabili della sua morte. Noi adulti facciamo pena. E tra pochi giorni archivieremo tutto, finché una nuova notifica nera ci riaprirà lo stomaco: questa “memoria a scatto” è quello che mi fa più rabbia. Il racconto prova a dire: non chiudiamo il file. Non basta commuoversi, bisogna sporcarsi le mani: intervenire quando vediamo, prendere posizione nei corridoi e nelle chat, smontare gli stereotipi che abbiamo fabbricato, costruire adulti presenti (a scuola, in famiglia, ovunque). Se resta solo emozione, diventa rito. Io non voglio il rito: voglio che punga adesso, per cambiare adesso.

      1. Esatto, sono queste le riflessioni che ho avuto leggendo. Credo la forza del pezzo stia proprio in questa assenza. Deve arrivare lo schiaffo, c’è da sentirsi coinvolti, e mai assolti.

  4. Mi è piaciuta, nella sua atrocità, questa ridda di pensieri. Il punto di vista controverso di chi, inconsapevole a detta degli psicologi, pare prendere atto del suo ruolo solo attraverso il gesto estremo della sua vittima che solo così si sottrae dalla sua mira. Bella anche la figura retorica che assume il plettro, un oggetto apparentemente insignificante che finisce per diventare un elemento di contatto con la coscienza del protagonista. È proprio questa inquadratura che ho trovato interessente, la riflessione che, portata dalla parte del carnefice, ci interroga sulle dinamiche che possano rendere un ragazzino incapace di distinguere il bene dal male e comportarsi di conseguenza. Grazie Lino per questo brano

    1. Costringere il lettore nella scomodità del carnefice, dove la presa di coscienza arriva tardi e fa male. Il plettro nasce come cosa minima e diventa “spina”: non un’assoluzione, ma un promemoria che punge. Mi interessa la domanda che poni: quanto c’è di individuale e quanto di collettivo in quel buio? È una linea che passa anche attraverso i silenzi di tutti. Grazie ancora.
      Lino

  5. Crudo e disturbante, rende in maniera angosciosa il marchio indelebile che, da oggi, tormenterà per sempre un ragazzo che, troppo tardi, ha preso coscienza delle conseguenze di una subultura di prevaricazione aberrante e che ci fai apparire doppiamente vittima.
    Prima vittima di una subcultura di prepotenza che lo ha reso un energumeno prepotente, e, dopo, lacerato da un senso di colpa che lo strazierà per sempre

    1. Grazie per la lettura e per come metti a fuoco la “doppia vittima”. Era proprio l’intento: far sentire la ferita prima della subcultura della prepotenza e poi quella, diversa, del rimorso che non assolve.

      1. Intento estremamente centrato.
        In queste sanguinose spirali, tutti sono carnefici e vittime contemporaneamente.
        È un groviglio complicatissimo di disagi di vario genere in cui esistono, oltre le evidenze, legami invisibili difficilissimi da evidenziare.
        Ricordiamoci che se è vero che la vittima esiste dove esiste un carnefice, è vero anche che un carnefice esiste dove esiste una vittima

  6. Un racconto profondo e commovente. Il bullismo è una ferita aperta nella nostra società, sempre più diffuso. Le conseguenze possono essere devastanti, talvolta persino più dolorose di un’aggressione fisica. Una testimonianza toccante: il monologo interiore di un giovane che comprende tutto solo quando è troppo tardi.

    1. Grazie di cuore. Era proprio questo il nodo: dare voce a quel “troppo tardi” e alla ferita collettiva del bullismo, che segna dentro più dei lividi. Se il monologo punge, allora forse ci costringe a guardare meglio.

  7. Un altro racconto struggente: pensieri di un ragazzo che troppo tardi si rende conto della gravità dei suoi comportamenti, insieme al branco dei tanti che uccidono o feriscono persone sensibili o fragili e indifese, attraverso il bullismo. Una piaga sociale, un fenomeno dilagante, diventato, attualmente, soprattutto virtuale, che può uccidere quanto e più di un pugno in uno occhio, reale.
    Compimenti Lino, i tuoi racconti non deludono mai.

    1. Ti ringrazio per lo sguardo lucido. Era proprio lì il bersaglio: far sentire addosso il “troppo tardi” e il rumore del branco, soprattutto quando passa dallo schermo e fa male quanto (o più di) un pugno. Il plettro resta come promemoria che punge, non come scusa. Felice che il pezzo ti sia arrivato.
      Lino

  8. Le tue parole sono quella coscienza che ahimè è sotterrato sotto un mare di “non sono fatti miei” – “me la faccio alla larga che non voglio problemi”… e tanto altro ancora.
    Ma sono anche quella speranza che non forse indietro si potrebbe tornare.
    Forse…

    1. @Currauzzu Hai messo il dito sulla ferita: l’alibi del “non sono affari miei” che soffoca la coscienza. Le tue parole, però, tengono una fessura aperta: da lì può passare il “non voltarsi più”. Forse basta cominciare.
      Lino

  9. È tremendo che un ragazzino di 14 anni sia costretto a uccidersi perché è deriso dai suoi coetanei e non trova altra soluzione. È sempre tremendo che un altro quattordicenne provi quello che tu hai descritto molto bene. Un sentimento che potrebbe distruggere chi lo prova senza neanche redimerlo, perché è qualcosa che a volte si vive come una condanna inflitta dalla vittima. Una costrizione, un sentimento conflittuale tra rimorso e rabbia. Spetta a noi adulti insegnare il rispetto con l’esempio. Bravo, Paolo.

    1. @conchita59 Hai messo a fuoco la doppia devastazione: chi non regge il peso delle derisioni e chi, troppo tardi, scopre un rimorso che non assolve. Concordo: il rispetto si insegna solo con l’esempio, giorno dopo giorno. Il racconto prova a tenere aperta quella ferita perché non venga archiviata in fretta. (L’“eroe” qui è Paolo, il ragazzo.)