
Nonsenso
Mattina. nella totale oscurità delle ore invernali mi alzo dal letto caldo per tuffarmi in quelle spire ghiacciate di quel venticello notturno che va cedendo il passo all’aria della mattina appena rischiarata all’orizzonte da rosei formosi bagliori. Dovrei essere agitato dal pensiero che più tardi mi lascerò frugare in testa da qualcuno ciò che ho studiato il giorno prima, ma sono tranquillo. Anzi, c’è una tensione che mi muove. Una frugale colazione scandita dal ritmo di un orologio che da quando ho memoria ho sempre giudicato al limite della sopportabilità. Il vetro della macchina veste una sottile patina di lucente specchio, perché è inverno. Non posso far altro che aspettare che lei scenda. Anche lei deve farsi frugare oggi. Ma lei è diversa. Rabbrividisce, forse per freddo o per timore che qualcosa manchi.
Tarda.
Mi chiedo sempre come mai le poche bici che lente se ne vanno la mattina con questo freddo, me le debba beccare tutte io… Beh è normale. La strada si sa, è l’alcova perfetta per salutisti e legge di Murphy. Lei va per la sua, io proseguo.
Parcheggio. sto per dimenticare i fari accesi… bella mossa! Ma una lezione tempo fa le è valse tutte. Da quando porto questo mezzo (non è poi molto) ho imparato a starci attento. Lo zaino mi pesa addosso ma io sono sicuro di me e avanzo in direzione opposta a quella che dovrei prendere.. ma è presto, voglio prendere di che ristorarmi più tardi.
Mi appresso al forno e, come da fuori scorgo la sapienza risplendere della sua luce, sorrido. Un sorriso di pura felicità e appagamento «Ma buongiornoooo!» l’accoglienza è ottima al pari di sempre, parlo con tutti e con nessuno. ciò che importa è quella. «Gauguin», oggi ha in testa. va bene, io rispondo in un novello greco. Lei sorride «Mi piace il greco» io sorrido. Taccio. Fra le mille frivolezze di cui si discorre c’è un guizzo di scienza, di quella bella, in questo più che in altro ci intendiamo. Forse è questo che la sapienza mi ha così colpito. All’inizio avevo detto «si, bella.. come altre in verità! ha tutto e niente. E se poi è una bambola? Di cosa si discorre?»
Ma nel tempo ne ho imparato a conoscere il più intimo carattere. Non mi piace parlarne ma lo devo fare.
È un fine settimana. Mi arriva un messaggio che mi scuote la tasca destra. È la sapienza, io non so cosa voglia, a quanto pare, come spesso accade, ha voglia di uscire e chiede a me. «No, non mi ha scritto niente» È strano, perché solo io? Cosa vuole? Ho paura.
Paura che la mia testa cominci a prendere il volo e sia costretta a ripiombare da molto alto. «C’è molto anticipo, val la pena aspettare e vedere. Nel frattempo non una parola. Sia mai che è ciò che penso io!» Lui lo sa, gliene ho parlato. A dire il vero non passa giorno che non gliene parli. Talvolta ho il sospetto che mi nasconda qualcosa, ma temo sia solo la mia testa che vola.
Passano i giorni e non so niente. Nessuno ha ricevuto l’invito. In quel limbo ci sono io e soltanto io. Lo rileggo. Ci sono dei dettagli che l’indicano essere un messaggio studiato. Uno spazio di troppo e un copia-incolla malfatto, scritto e riscritto, forse, ma la verità è che non so nulla. Mancano nove giorni esatti e tutto può succedere in questo abisso. Ma, non una parola. Dìche comanda.
L’albeggiare del mattino fa da contorno ad altri otto ugualmente sospesi giorni allorquando decido di fare il possibile, di frugare in testa alla sapienza.
«Ehi, si esce più?»
Sta scrivendo… ora non più… ora si… starà cercando un modo per dirmi di no.
«Solo noi»
Per Dio, sta succedendo per davvero. É lunedì, sono le 14:05 e tutti vanno. La Sapienza si dovrebbe appropinquare dalla porta d’ingresso. Una mano sbatte sull’altra a mo’ di T. Che diamine intende? Ha paura di farsi vedere con me? Il piazzale è vuoto e il solo mezzo fermo posteggiato ad arte è il mio e scintilla sotto un debole sole di fine febbraio.
«Ti devo dire una cosa»
«Ascolto.»
La sala è buia, una serie di pubblicità scandisce il ritmo del trascorrere del tempo unitamente al vociare dimesso di sottofondo. Lei esita.
«Io…»
E poi il buio.
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Racconto con un linguaggio quasi poetico, con parole scelte con attenzione che, a tratti, fanno perdere un poco il lettore, come se si trovasse dentro un fitto bosco senza avere punti di riferimento.
C’è un senso di agitazione nelle tue parole, direi quasi di educata pazzia che mi piace molto.
Unico consiglio: perdi qualche minuto in più nella rilettura, la correzioni di piccoli errori di svista gioverà alla fluidità della storia.
Alla prossima lettura.
Grazie mille per i preziosi suggerimenti. Sì, il mio è un linguaggio volutamente ansioso e al limite della norma. Vuole rappresentare una consapevole rottura con il concetto di ‘accademico’; appunto questo senso ‘poetico alterato’, mantenendone però i connotati.
È futto di un’ispirazione di getto, spontanea e deltutto vissuta, assieme alle sensazioni che sono descritte, altrettanto sentite. Provvederò a correggere gli errori.