Orchestra – cap. 2, parte I
Serie: Sara & Nami
- Episodio 1: Come tutto iniziò – cap. 1, parte I
- Episodio 2: Come tutto iniziò – cap. 1, parte II
- Episodio 3: Orchestra – cap. 2, parte I
- Episodio 4: Orchestra – cap. 2, parte II
STAGIONE 1
La luce del mattino dissipò la nebbia creata da alcool e orgasmo.
Mi guardai un attimo intorno; il letto di Nami, poco distante dal mio, implorava di essere rifatto. Ciondolai non molto allegramente verso la cucina, dedicando la solita breve carezza mattutina alla mia natica destra, e trovai mia sorella seduta sul divano, intenta a leggere un libro.
La solidità di quanto successo la sera prima mi colpì con violenza allo sterno: gay, bacio, eccitazione. Mi avvicinai a lei e l’abbracciai goffamente da dietro il divano, schioccandole un bacio sulla testa. Non parlammo molto di quanto mi aveva rivelato la sera prima, sapevamo che non ce n’era bisogno. Mi chiese semplicemente com’avessi fatto a intuire la sua omosessualità e le snocciolai una dopo l’altra le mie teorie, contandole sulle dita della mano:
– “Una persona raramente è ancora vergine a ventitré anni, nemmeno le più ferventi credenti ci arrivano… si sposano prima! No, non iniziare – frenai il suo impeto -, so che sei vergine, me l’avresti detto se così non fosse! Inoltre, al liceo i ragazzi facevano quasi a botte per chiederti di uscire, ma a malapena consideravi le loro proposte; quelle rare volte in cui lo facevi, rientrata a casa la sera dicevi sempre che non ti eri trovata bene.”
Continuai così per un po’, esplicandole l’elenco mentale di teorie (una più affascinante dell’altra), e finimmo per ridere quando mi domandò se mamma e papà lo avessero intuito.
La giornata passò tranquillamente, alternammo l’ozio a inconcludenti sessioni di studio scandite da continui “Ma quindi quella volta…” e anche “Allora avevi capito che…” e ancora “Non ci credo, non posso essere stata così palese…”. Risposi alle sue domande quasi meccanicamente, la mia mente stava indagando su quella nota stonata che avevo avvertito la sera prima, quando le diedi quel bacio a stampo sulle labbra, cercandone le motivazioni e analizzando i desideri che io stessa celavo nel subconscio.
La guardai, mi preoccupai. I capelli corvini e serici le cascavano in ciocche disordinate sulle spalle – quella mattina non li aveva raccolti, come sempre faceva, in una coda – e gli occhi, neri come la pece, erano incorniciati da una frangia ribelle. Le fissai per un secondo (che parve un’intera esistenza) le labbra carnose e d’impeto m’immaginai intenta a baciarle con passione, cercando di intuire quale sensazione quel consapevole contatto lascivo potesse scatenarmi nello stomaco.
Ornella, dabbasso, richiamò la mia attenzione; la zittii subito e cercai di concentrarmi nuovamente sullo studio, maledicendomi per le diapositive che la mia mente mi proiettava.
Cercai di distrarmi giocherellando con il cellulare e guardando i post di uno dei tanti social a cui ero iscritta: avevo paura di essere un libro aperto per Nami e di certo non volevo farle capire che, fino a pochi momenti prima, avrei volentieri indugiato in un’orgia tra me e la lussuria con il suo corpo nudo quale tema d’ispirazione.
Apollo continuò per un po’ a volare sul suo carro, ogni mattina; i giorni si susseguirono quasi uguali gli uni agli altri senza che riuscissi minimamente a dare risposta a sensazioni che erano andate intensificandosi con il passare del tempo. Più di una volta, da sola a casa, mi era capitato di concedermi del piacere immaginando mia sorella nuda. I sogni a occhi aperti più ricorrenti erano però quelli in cui io e lei ci legavamo in un amalgama saffica, incuranti dei preconcetti morali imposti dalla società; e “che vadano tutti a quel paese!”.
Da quasi insignificante briciola qual era, quel bacio (poco innocente) s’era evoluto in un impasto ben lievitato nelle mie mani. Ne ero quasi ossessionata. Scandagliavo in continuazione la mia mente in cerca di risposte, cercavo su internet spiegazioni scientifiche a quel che sentivo, ma la frustrazione permeava il mio stato d’animo. Mi sentivo sporca ma allo stesso tempo arsa dal desiderio. In alcuni momenti fui persino tentata di entrare in bagno con una scusa qualsiasi mentre lei era nella doccia – come più di una volta mi era capitato di fare prima di essere posseduta da una versione così perversa di me -, ma la parte razionale del mio cervello, quantunque in minoranza, m’imponeva di restare dov’ero. Non c’era nulla di sbagliato (forse) a immaginarla nuda, non era corretto (forse) compiere delle azioni, un tempo pure e innocenti, portando la malizia al guinzaglio.
Credo che Nami avesse intuito che c’era qualcosa che non andava in me, che stessi combattendo una lotta interiore, che fossi vessata dalla famosa Spada sulla testa. In parecchie occasioni mi chiese cos’avessi, desiderosa d’aiutarmi, a mio avviso. Ogni volta glissavo sull’argomento, dando la colpa alla stanchezza dovuta alla preparazione dell’ennesimo esame universitario o a qualche sciocca lite con gli amici. Qualcosa era cambiato per la seconda volta, tra me e lei, ma quasi mi rifiutavo di credere che desiderassi mia sorella quale amante.
Presi una decisione drastica, convinta che questa scelta avrebbe contribuito a farmi rinsavire: niente più giochi con la mia Ornella. Forse smettere di assecondare le sue pulsioni avrebbe fatto sì ch’iniziassi a vedere la cosa più lucidamente, inquadrandola per quello che doveva sicuramente essere: una piccola cotta innocente destinata a spegnersi come una fiamma coperta da un bicchiere. Si era accesa, mi aveva bruciata per un po’, ma la mia decisione di privarla dell’ossigeno l’avrebbe fatta spegnere definitivamente. Quanto mi sbagliavo.
La fine di luglio portò con sé un caldo estremo. In certi giorni era quasi impossibile indossare nient’altro che gli slip, tuttavia, stoica fino in fondo, m’imposi di restare ligia al dovere ed evitare in qualsiasi modo il benché minimo riferimento a una possibile lussuria. Quantomeno mia sorella, da sempre più pudica di me, non infieriva sulle mie indecisioni girando solamente in intimo. Né io le domandai perché non si vestisse in maniera più leggera visto il gran caldo, né me lo chiese lei. Era come se una sorta di consapevolezza fosse sorta tra noi due, una consapevolezza ignara di ciò ch’era realmente. Perché, ne sono convinta, lei non era assolutamente al corrente dei miei pensieri incestuosi nei suoi confronti. Di nuovo, quanto mi sbagliavo.
La mancanza di condizionatore in casa ci aveva obbligate a utilizzare un vecchio ventilatore che, da un po’ di tempo, aveva deciso di essere invidioso della Torre di Pisa. Quel pomeriggio afoso io indossavo solamente una semplice canotta sudata e dei pantaloncini. Avrei volentieri fatto a meno dell’intimo (quantomeno del reggiseno), ma stavo sempre più cercando di evitare qualsiasi tentazione. Inutile dire che tutti questi accorgimenti non stavano facendo altro che spingermi dalla parte opposta.
Nami uscì dalla doccia con solo l’asciugamano indosso. Il telo liso per l’avanzata età, bucato in un paio di punti, mostrava qualcosa che, secondo la mia razionalità, sarebbe stato meglio non vedere. I miei occhi si fissarono su quel lembo di pelle sul gluteo sinistro, messo in mostra dal “telo galeotto”, e Nami se n’accorse. La cosa che mi lasciò basita (tuttavia giustificabile con il fatto che non stava mostrando nulla di particolarmente erotico) fu che lei non s’affrettò a coprirsi meglio come avrebbe fatto la Nami che conoscevo, bensì si avvicinò a me per vedere cosa stessi leggendo. Avevo la sua pelle d’alabastro a pochi centimetri dal viso; mi sentivo calda al punto da far alzare la temperatura interna di parecchi gradi. Guardai verso l’alto, per evitare di essere troppo palese, e le sorrisi. Mi sorrise di rimando. Il telo consunto (che inconsciamente ringraziai tante e tante volte) era appoggiato sul suo seno, ne nascondeva l’intima natura ma non i contorni. Scendeva giù informe lungo il suo corpo, per poi adagiarsi dolcemente sui fianchi e lasciarle scoperti i polpacci.
Mi scrollai di dosso un pensiero erotico che m’aveva afferrato le viscere e feci finta di nulla, continuando a leggere; lei andò in camera a cambiarsi. Ritornò poco dopo, i capelli ancora umidi che le regalavano un misto di gocce d’acqua e sudore sulle clavicole e sulla schiena, sulle spalle e sul collo. Si sedette accanto a me sul divano, vestita di nient’altro che d’una semplice canotta, dei soliti pantaloncini che indossava dopo la doccia e, a sua insaputa, del mio desiderio. Mi domandai se avesse l’intimo, sotto quei semplici tessuti, ma nuovamente spinsi via quella domanda infiltratasi nella mia mente come un’ostinata goccia in una roccia.
Nami aveva un profumo buonissimo. Distese le lunghe gambe affusolate sulla sedia lì davanti al divano, lasciando le ciabatte sul pavimento. Era incredibile, mi dissi, come un tempo non avrei minimamente fatto caso a dettagli del genere, mentre ora dedicavo tutta me stessa a osservare ogni suo piccolo movimento, ogni minuscola smorfia. Continuai a leggere, probabilmente lo stesso paragrafo per diverse volte, mentre lei guardava la TV. La mia concentrazione era altalenante, il mio intelletto diviso tra ciò che leggevo (sempre più distante da me) e la vista delle sue cosce, delle ginocchia, dei polpacci e dei piedi scoperti.
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Fantastico questo librick
Ciao Parole al Vento, il tuo racconto mi convince, le due protagoniste mi paiono ben delineate, ti mando un messaggio privato con alcune idee.
“Si sedette accanto a me sul divano, vestita di nient’altro che d’una semplice canotta, dei soliti pantaloncini che indossava dopo la doccia e, a sua insaputa, del mio desiderio.”
Che bella questa immagine ❤️