Pausa pranzo

Il suo cellulare suonò. Era Michela dalla sede centrale.

“Sei già in ufficio?”

“Sì, sono sola, perché?”

“È successa una cosa gravissima, Roberto e Nicola, ieri notte… hanno avuto un incidente, dopo il lavoro sono partiti insieme con la macchina di Nicola… nulla da fare.”

“Ma… come?”

“Non so niente di più per adesso. Torna a casa se vuoi.”

“Aggiornami appena puoi Michela. Grazie.”

Invece, non tornò a casa ma rimase nell’ufficio. La prima cosa che fece fu quella di andare in bagno per liberarsi del topicida e del mix di pillole di vario tipo. Non erano più necessarie. Non aveva più senso togliersi la vita.

Rimase come sospesa nel nulla, forse non aveva ancora realizzato ciò che era successo. Emersero i ricordi dei giorni passati, spontaneamente, senza che lei li avesse evocati.

Come quando Roberto, il suo capo, era solito avvicinarla da dietro quando era seduta alla sua scrivania. Lo faceva ogni giorno, più volte. Si sentiva morire quando indugiava più del dovuto, quando le appoggiava le mani sulle spalle. L’alito pesante di fumatore incallito sui suoi capelli.

“Ottimo, vedo che il lavoro procede. Siamo felici di averti assunta” la elogiava avvicinandosi ancora di più per osservare il monitor del suo computer. Roberto, elegante nei modi, ma nella sua vera natura un puzzolente e finto dandy.

Come quando Nicola, che aveva la postazione davanti alla sua, non mancava di fissarla in continuazione. Era sempre costretta a tenere la testa abbassata davanti al monitor, pur di non incrociare il suo sguardo. Quando aveva necessità di alzarsi, scattava come una molla anche lui.

“Facciamo una pausa? Caffettino?”

Magari un caffè lo voleva per davvero, ma da sola. Oppure doveva solo andare in bagno e doverglielo dire, ogni volta, le creava un tale imbarazzo.

Subiva in silenzio, ogni giorno. Non riusciva ad opporsi, per timidezza, per paura di perdere il posto di lavoro. In quell’ufficio, un distaccamento dalla sede centrale, c’erano solo loro tre. Lei era stata assunta da poco.

Poi la mente la riportò al primo giorno di liceo. Quando furono formate le classi, nella sua capitò un certo Ettore. Era stato bocciato due anni. La differenza rispetto agli altri compagni matricole era evidente. Era più alto e vantava un fisico già ben definito che non passava inosservato. Una ciocca ribelle, biondo platino, spiccava tra la sua folta chioma di capelli, mentre un orecchino dorato con finto brillante, aggiungeva un tocco di originalità al suo aspetto. Forse non era del tutto soddisfatto dei suoi occhi, piccoli e poco espressivi, ma nel complesso era un bel ragazzo e ne era consapevole. Non c’era disputa, era lui il figo della classe.

Lo vide avvicinarsi al suo banco. Le rivolse la parola senza presentarsi e chiedere permesso, come se gli fosse una cosa dovuta.

“Ti chiami?” sorrise piacione il coglione.

Le disse come si chiamava, contenta dell’attenzione ricevuta e gli ricambiò il sorriso.

Lui si toccò il pacco e rimase per qualche istante immobile con un sorriso da deficiente stampato sul volto. Arrossì tutta.

“Sei vestita tutta di nero, fai un po’ impressione, ma sei carina.”

“Grazie” sussurrò.

“Ti chiamerò Morticia, fin quando continuerai a vestirti di nero.”

Pensò che tutto sarebbe finito lì, quel primo giorno, ma si sbagliò. Il coglione non le diede un attimo di tregua.

“Buongiorno Morticia” ogni santissimo giorno che vestiva di nero.

“Oh, oggi siamo resuscitate” quando non vestiva di nero.

Trovava sempre il modo per un contatto fisico, o sfiorandole le braccia quando passava vicino al suo banco, o soffiandole nei capelli ogni volta che gli si presentava l’occasione. Oppure, quando le chiedeva in prestito qualcosa, la sua mano non si limitava a prendere ciò che aveva chiesto, ma le dita si allungavano fin verso i suoi polsi, per trovare anche un solo istante per tenerli stretti. Alcune volte però, lui era più insistente e le stringeva forte le mani. E più lei si opponeva, più lui non la lasciava.

“Dai che scherzo” ridacchiava il coglione.

La situazione precipitò quando un giorno Roberto se ne uscì con la proposta di cambiare l’orario della pausa pranzo. Non più dall’una alle due, ma dalle due alle tre. Più che una proposta impose una regola.

“Ottima idea. A quell’ora i locali sono meno affollati e tranquilli” gli diede corda quel pagliaccio di Nicola.

Nemmeno le chiesero cosa ne pensasse. Due contro uno. Vince la maggioranza. Pranzare insieme, fare squadra, la stronzaggine del team building. Il nuovo orario non veniva quasi mai rispettato. Il più delle volte si iniziava a pranzare ben oltre le due. Resistette tre settimane, poi comunicò che per lei pranzare a quell’orario era troppo tardi. All’una, se non prima, il suo stomaco già borbottava sonoramente.

“Se vuoi pranzare da sola, sei libera di farlo” le rispose severo Roberto.

“Peccato” la ammonì acido Nicola.

I due maschi non la presero bene e la vita in ufficio divenne per lei un inferno. Finì per odiarli, ogni giorno di più. Ma quel sentimento oppressivo, incatenato nel suo cuore, la tormentava tanto quanto, se non di più, delle umiliazioni che subiva. Non voleva odiare. Voleva solo essere rispettata, desiderava vivere giornate piene di gentilezza.

Fu colta da un improvviso senso di panico. Pensò con orrore all’idea del suicidio. Aveva maturato quella decisone durante la notte, dopo che Roberto, il giorno prima, l’aveva rimproverata e costretta rifare il suo lavoro. Ancora una volta, e ingiustamente. E aveva deciso di suicidarsi sul posto di lavoro, perchè fosse chiaro il motivo, perchè quei due si sentissero in colpa. Ma davvero avrebbe compiuto quel gesto estremo? La morte di Roberto e Nicola l’aveva salvata? Rabbrividì pensando a quella tetra coincidenza. 

Sentì il bisogno di respirare aria fresca. Spalancò la finestra e lasciò che il vento le sfiorasse delicatamente il volto. Era una mattina di metà settembre, il suo periodo preferito. Le luci dei neon erano spente e tutto l’ambiente godeva della luce naturale che entrava generosa dalle grandi finestre. Si calmò.

Guardò fuori e riconobbe due ragazze che lavoravano nella sua stessa zona. Le osservava ogni giorno uscire all’una per la pausa pranzo, sempre sorridenti, serene. Pensò a quanto sarebbe stato bello pranzare insieme a loro.

Un’emozione intensa, struggente, la sopraffece: calde lacrime iniziarono a scorrere, silenziose ma liberatorie.

Avete messo Mi Piace3 apprezzamentiPubblicato in Narrativa

Discussioni

  1. Una storia che fa riflettere sul peso delle violenze quotidiane che alcune donne soffrono, e sull’importanza di rompere il silenzio. Il finale è agghiacciante e al tempo stesso liberatorio: la morte dei due colleghi, per quanto tragica, diventa una salvezza per la protagonista. Una coincidenza “tetra” che la fa desistere dal suicidio è un twist amaro, ma che lascia spazio a un barlume di speranza. La scena delle lacrime finali, con lo sguardo rivolto alle due ragazze serene, è potentissima: un misto di dolore, invidia e forse, finalmente, la possibilità di immaginare un futuro diverso. Complimenti!

  2. Grazie Francesco per questo racconto. Hai saputo calarti bene nei panni di una donna vittima di mobbing e stalking. E si percepisce quanto, nel tuo modo di raccontare, questo problema sia sentito, anche nelle espressioni più forti che definirei molto appropriate. Una situazione fin troppo frequente che, direttamente o indirettamente, colpisce o ferisce la società intera.

  3. Bel racconto, che si legge veramente tutto d’un fiato, e molto contemporaneo per la tematica. Mi ha colpito come utilizzi il dialogo, in maniera asciutta e molto realistica, e come restituisci bene l’oppressione (fisica e mentale) dei corpi.

  4. Ciao Francesco. Ti sei calato molto bene nei panni, non tanto di una donna, quanto piuttosto di una persona che è costretta ogni giorno a subire quella che è una vera e propria forma di violenza, di abuso. Lo hai fatto in maniera tanto delicata quanto esplicita, con esempi in cui ciascuno si può ritrovare. Molto bello.

  5. Buongiorno Francesco. Affronti un argomento difficile per quanto attuale nelle sue mille sfaccettature. E secondo me lo affronti bene. Colpisce l’impossibilità della protagonista di uscire da suo copione, e riflette una situazione normale per tutti anche se è difficile accorgersene.
    Buona settimana!

  6. Sono rimasto davvero colpito da questo racconto. Chissà quante donne, come la protagonista, vivono situazioni di questo tipo. Amiche, sorelle, compagne, figlie e madri. E magari noi, chi sta attorno, distaccato e superficiale, manco se ne accorge. O chissà quanti se ne accorgono e fanno finta di niente, perchè tanto “va bene così”, “sì fa per scherzare” e via dicendo.
    Questo racconto ha la sua forza nel sottinteso, in quel dolore ed ansia non detti, ma definitivamente palpabili.

    1. Ciao Sergio, si credo proprio che piccole forme di violenza sono all’ordine del giorno e come dici tu perchè tanto “va bene così”, “sì fa per scherzare” e via dicendo.