
Per fiducia o per scommessa
Se io non fossi l’artefice del piano che ho ordito, farei fatica a individuare l’anfratto in cui mi sono rintanata. È un capannone abbandonato, situato giusto di fronte agli uffici della “SELLEr’s Corporation”: una ditta che vende sellini da bicicletta per corrispondenza. Un nome che la dice lunga sulle velleità espansionistiche e la fantasia opportunistica di chi ci lavora.
Perfettamente calata nella parte, coi miei abiti scuri, la giacca mimetica e gli anfibi, mi sono incuneata nella fessura angusta di una porta tagliafuoco, i cui cardini hanno ceduto al tempo da un periodo immemore. Così sto lì, scomoda per quanto peso, a osservare. Augurandomi di avere ragione e di riuscire poi a disimpegnarmi senza problemi. O, almeno, di evitare di dover ricorrere all’aiuto di qualcuno per “disincastrarmi”, che sarebbe proprio avvilente.
In una di quelle serate un po’ vuote, in cui c’è poco lavoro e le giornate si accorciano, dove il tempo pare essere diventato pigro e trascorrere più lento, ho scommesso con una collega che Matteo, il più “sofisticato” fra gli impiegati della ditta di selle, non si sarebbe mai soffermato al cospetto di un clochard.
Questa mia collega, chiamiamola pur così per non conferirle troppo potere, deve essere in segreto un pochino innamorata di lui, dato che, quando si parla di Matteo, “rinfocola” e avverte il bisogno di togliersi gli occhiali. Siccome la “SELLEr’s” non dista molto da dove lavoriamo, ci si incontra tutti quanti allo stesso bar, e lì i due devono avere stretto amicizia. Secondo me, lei gli ha chiesto propio di farci un favore, al fine di mettere a tacere le voci che da tempo si alimentano nella zona.
Vito, il senzatetto in questione, lo conosco solo di vista. Ho sentito però quello che dice la gente. Da due anni ha perso tutto e da allora vive in strada. Ha perso il lavoro, la moglie, la figlia e anche la casa. In un botto unico.
Lo hanno accusato di essere un ladro, soltanto perché dalla ditta di salumi dove lavorava sono scomparsi alcuni prosciutti. E lì, il bersaglio più facile era lui, in quanto non imparentato coi datori di lavoro e uomo dal tenore di vita alquanto modesto. Naturalmente, lo hanno subito licenziato.
La moglie, per la vergogna, lo ha lasciato. Si è rifatta una vita con la loro bambina, alla quale impedisce categoricamente di vedere il padre.
Vito allora ha iniziato a dormire in macchina, per concedere alle due ex donne della sua vita l’utilizzo della casa, sebbene erano solo in affitto.
Ma poi ha dovuto vendere anche quell’auto, che non riusciva più a mantenere, e si è trasferito in una canadese che ha montato in un prato incolto della zona industriale. Sporca e sbrindellata, quella tenda è attualmente tutto ciò che ha.
Vito trascorre le sue giornate davanti alla “SELLEr’s” che, nel frattempo, ha sostituito la ditta di salumi che è fallita.
Forse spera di riabilitare il suo nome, rimanendo lì. Anche se nessuno capisce quale sia l’intento. Questa “territorialità”, neanche fosse uno squalo bianco, è inquietante.
Matteo è particolarmente cordiale, quando scende in pausa pranzo. Vuoi vedere che quella fetente della mia collega lo ha proprio istruito per bene?
L’impiegato modello non solo si ferma con Vito, sul marciapiede antistante la ditta, ma gli offre anche un panino. Vito, dal canto suo, gli stende un cartone sotto al sedere, in cambio delle cibarie che il ragazzo si appresta a condividere con lui. Non se l’aspettava, evidentemente. Sembra oltremodo felice, come se l’altro gli avesse offerto chissà quale occasione. “No soldi. No lavoro” dice il suo cartello sbilenco, scritto a penna. Che aggiunge pena alla pena.
Li vedo conversare del più e del meno, ma non sono abbastanza vicina per capire cosa si stiano dicendo. La mia collega, per qualche strano motivo, vuole farmi vincere facile. Però non succederà niente: lo potrei sottoscrivere. Sto solo perdendo il mio tempo.
La pausa pranzo dei venditori di selle, che in ufficio sono sempre tutti impeccabili nonostante vendano per corrispondenza e nessuno li vede, dura poco. Matteo si rialza e si rallegra per il desco condiviso. Anche Vito è soddisfatto: non la smette più di ringraziare. Prima di salutarlo, l’impiegato “fighetto” si china per legarsi una scarpa. Lo so che sta morendo dalla voglia di sistemarsi le pieghe dei pantaloni eleganti e di lavarsi al più presto le mani. Ma lui resiste e si dà un contegno.
Ed è allora che Vito agisce! Introduce furtivo una mano nella valigetta che l’altro ha lasciato incustodita sul selciato, giusto per un attimo, prima di riprenderla e andare via.
È veloce, Vito. Un prestigiatore! E il portafoglio è già nelle sue mani.
Io impreco. Ma perché sono così ingenua?
In quell’istante esatto se ne va anche la mia restante fiducia nel genere umano. Una tragedia di cui porterò a lungo il lutto.
«Okay, ci siamo. Potete convergere!», sento la mia voce che gracchia dal fondo della ricetrasmittente, nonostante lo straniamento per il brutto colpo subito.
Quasi immediato è il propagarsi del suono di una sirena. La pattuglia era appostata nei pressi, in attesa di un cenno della sottoscritta. E ci mette pochissimo ad arrivare.
Due agenti in divisa scendono e arrestano il clochard, che non oppone resistenza. Anzi, nel restituire il maltolto, sorride.
Alla SELLEr’s erano stanchi di quel barbone, sempre lì davanti, che rovinava loro l’immagine. Succedevano cose strane, del resto. Parecchia gente veniva derubata in strada. Ed erano tutti convinti che il colpevole fosse Vito. Anche la mia collega. Anche Matteo. Tutti tranne me.
Che, senza nessun aiuto, fuoriesco dal mio nascondiglio. Per poi togliermi dal clamore e fare un cenno di congedo ai due poliziotti.
«Grazie ragazzi! Ci vediamo in centrale.»
Con Matteo lascerò che se la sbrighi invece la mia collega. Sarà lei a ringraziarlo, personalmente, per essersi prestato a un’operazione che pareva destinata a fallire in partenza. E qualcosa mi dice che sarà ben lieta di farlo.
Io andrò dritta nel suo ufficio, a lamentarmi per avermi usata. Non importa se la mia collega è l’ispettore capo. Il mio capo. Che bastarda! Ha pilotato la scommessa. Ha suggerito giorno e ora. Ha giocato con la mia buona fede! Per darmi una lezione che non dimenticherò in vita.
Lei ha più anni e più esperienza. Sapeva che, talvolta, i luoghi comuni obnubilano il giudizio. Chi ha fame, purtroppo, non può sempre essere una brava persona.
Avete messo Mi Piace3 apprezzamentiPubblicato in Narrativa
Ciao Cristina,
racconto ben scritto e scorrevole. Sgradevole la sensazione di essere stata usata e amaro il finale che purtroppo ha confermato che “la fame è una brutta bestia”. Brava! ?
Grazie, Isabella! Eh, purtroppo sì. Alla prossima ?
Complimenti per la scrittura, densa, che impone un ritmo lento, un graduale calare dalla narrazione dei fatti alla psicologia della narratrice, che poi si rivela essere la protagonista della storia, pur compiendo un solo piccolo gesto pesantissimo.
E complimenti per la storia, che pur nella sua brevità racconta un mondo, di relazioni, calcoli, arrivismi, e un vero e proprio arco, una presa di coscienza della “necessità” del male, al di là delle illusioni sulla natura umana.
Ha qualcosa di russo.
Questa analisi mi piace molto. Grazie, Riccardo. Per avere letto e commentato con così grande attenzione. Un saluto.
Degna conclusione del racconto. “Chi ha fame, purtroppo, non può sempre essere una brava persona.”, una morale amara e realistica che racchiude tutto il significato della storia.
Nonostante tutto, non perdiamo fiducia nell’umanità.
Complimenti!
Un grazie, di cuore, per avere apprezzato. Ciao Simone. Alla prossima.
Un racconto che fa male,soprattutto grazie al finale amaro. Sì, ma assolutamente plausibile. Il tuo stile non delude.?
Grazie Dario. Troppo buono ?
Ciao Cristina, racconto amaro che pone molti interrogativi. Bella la svolta nel finale che stravolge ogni cosa 🙂 Purtroppo hai fatto una giusta considerazione: “Chi ha fame, purtroppo, non può sempre essere una brava persona.” Aggiungo che “Chi ha fame, purtroppo, non può sempre permettersi il lusso di essere una brava persona.” Non parlo di crimini eclatanti, ma il mio pensiero va a chi non riesce a sopravvivere e ruba un pacco di pasta al supermercato.
Ciao Micol. Concordo con la tua analisi, che trovo arguta, come sempre. Qui, più che sui significati “morali” (forse altrimenti sarei stata banale), ho pensato di dare un effetto finale come in quei film dove il colpevole è stato individuato sin dall’inizio, ma poi vengono introdotti ad arte dei diversivi tanto che si arriva a dubitarne. E invece, alla fine, era lui per davvero! Ad esempio, a me è capitato col film “Doppio taglio” e mi è caduta la faccia. Per cui, qui, non punterei su buoni e cattivi, quanto piuttosto al fatto che era proprio Vito che rubava, nonostante la protagonista non volesse crederci, per non dare adito alle malelingue. Boh, spero di essermi spiegata. I racconti comunque sono belli perché ognuno ci vede quello che vuole. Per cui, ogni opinione è bene accetta. Un abbraccio e grazie.
Ciao Cristina! Leggendolo avrei sperato in un altro finale. Mi spiace per Vito…
Ciao Kenji. Grazie per avere letto e commentato. È dispiaciuto anche a me “sacrificare” Vito, scegliendolo come colpevole. La protagonista, poi, proprio non voleva crederci alla sua malafede! ?Però ho pensato al fastidio che ognuno di noi prova quando si trova di fronte ai luoghi comuni. Tendiamo a evitarli a priori, per partito preso. Così talvolta siamo accecati e, pur di sostenere la nostra causa, non riusciamo a vedere la realtà. Quanto è successo alla mia poliziotta, delusa e amareggiata su tutti i fronti. Un saluto 🙂
Ma la scelta di questo finale è stata dettata dal desiderio di essere originale?
Ciao Cristina, e bentornata, è sempre un piacere leggerti! La vicenda della scommessa è di certo un bel tocco di classe in chiave ironica che mi ha fatto sorridere, ma al di là di ciò, hai condotto il lab magistralmente, portandomi fuori strada e sorprendendomi sul finale. Non mi aspettavo finisse così, sei riuscita a farmi provare compassione, per poi smontare ogni mia certezza. È proprio vero, le apparenze ingannano, mentre il lupo perde il pelo ma non il vizio! Brava come al solito, e complimenti per la tua solita accuratezza, sempre ammirevole?!
Ciao Antonino. Grazie, ancora una volta, per avere letto e commentato il mio Lab. Come sempre, hai centrato il punto. La mia paura, questa volta, è di avere messo in campo troppi personaggi e avere fatto un po’ di casino. Forse per timore di essere banale, ho provato a “spiare” la scena da un’altra angolazione. Dovendo restare sul vago, per svelare poi le carte solo alla fine, può essere che la credibilità ne abbia risentito. Ma è un rischio che ho dovuto correre. Alla prossima ?