
Pompei
Lui era in una stanza polverosa, abbandonata da tanto tempo.
Nell’angolo più remoto di carta stampata in cumuli odorosi, in un desueto abbandono caotico e affettuoso -infantile-, fastidioso a chiunque ma per lui croce e delizia: se la piangeva bevendo parole da un libro a lume di sigaretta, facendo scudo al volto insonne e addolorato, stringedosi i capelli in una mano.
Da molto lei lo cercava.
Il trapassato ed il recente avevano lunghezze estreme, estremi legami con l’adesso venuto a convergere nel tempo agrodolce del dolore.
Si erano scoperti soli e distanti allo squillare della prima tromba, quando il fuoco aveva preso a piovere dal cielo e le macerie della città che amavano gl’inciampavano la corsa pel rifugio; poi la quiete, la fame e la malattia avevano fatto vittime e lacrime laddove il fuoco ne aveva scampati.
E il buio, la lunga notte calata senz’alba e senza stelle, il frastuono della realtà che si rompeva, il mare lontano che divorava i continenti nello spavento muto delle sue onde immense.
Lei da allora non aveva smesso di cercarlo: tra le rovine delle cattedrali, nelle canzoni che ricordava a malapena. Si era vista morta e fantasma nel pellegrinaggio.
Quando salirono i mostri strisciando da sotto, l’aria era già di zolfo e lei aveva perso la speranza di trovarlo.
Era scivolata in fuga sotto un altare tra le ossa di un santo, laddove agli Orribili era impedito d’entrare.
Lui era là .
Si guardarono a lungo, nel taglio di un respiro, alla marea crescente negli occhi.
Non avevano mai parlato prima d’allora.
Lui era certo d’essere ammattito in quelle visioni immaginarie riservate ai poeti e ai santi, perché aveva rischiato più e più volte di morire: ormai vedeva fantasmi in pieno sguardo, e pensava che pure lei fosse uno di questi.
Ma si toccarono le mani per conoscersi, gli occhi per dirsi tutto quel che si dovevano dire.
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