Preghiera della Buonanotte — Anno 2025(Quella di Arturo)
Arturo entrò in casa, lasciò cadere le chiavi sul tavolo e accese il computer quasi senza pensarci. Non era programmato, non era urgente, non era necessario. Eppure lo fece.
Forse perché quella domanda gli girava in testa tutto il giorno.
Forse perché era stufo di sentirsi parlare dentro senza risposta.
O forse perché certe domande pesano più del silenzio che le contiene.
La barra luminosa sullo schermo lampeggiava come un invito. Arturo la fissò. Era strano: sapeva che stava per parlare con un’intelligenza artificiale, e allo stesso tempo aveva la sensazione di prepararsi a parlare con qualcuno.
Un breve silenzio. Quasi un respiro.
Poi Arturo scrisse.
«Ok, mi prendo i complimenti. Ma già che siamo qui… ti faccio una domanda. Sono curioso.
E siccome non esiste bianco senza nero, bene senza male, zero senza uno… dimmi: quanti cervelloni hanno dedicato — e stanno ancora dedicando — la loro vita a ragionare su queste cose?
E per cosa?
Una vita intera su concetti inventati dal cervello umano. A parer mio… forse sprecata.
Alla fine è come dare un nome a un peluche: lo guardi, ci attacchi un significato, e da quel momento nessuno può chiamarlo diversamente.
Stop: materia + etichetta.
E forse, a gesti, certe cose si capirebbero pure meglio.
Ma fammi fare un esempio.
Immagina i primi esseri umani. Uno vede una cosa e dice:
“Guarda quella massa separata di materia. Che ci fa qui?”
E l’altro risponde:
“Oh… è troppo lungo da dire! Abbiamo imparato da poco a parlare! Fino a ieri si andava a gesti!”
Poi uno si gratta il mento con due dita — oggi diremmo: “sta pensando”. All’epoca era solo un gesto buffo.
E allora dice:
“Che ne so! Ieri mi guardavo allo specchio e ho pensato: per fare il bello in giro devo dare un nome a questa posizione. Mano (quella la so), e queste due dita… boom, genio: due!”
E se invece di “uno” e “due” avesse inventato RADU e BIGU?
Oggi tutti questi geni starebbero ragionando sulle stesse cose, solo usando quelle parole.
Uno studente probabilmente chiederebbe:
“Professore, ma Bigu supera Radu o è Radu che contiene Bigu?”
Ridicolo. Ma così funziona la nostra specie.
Non dico che sia una vita buttata — per carità. Ha portato logica, matematica, linguaggio, tecnologia.
Ma non è la mia.
Quindi, dopo questa parentesi minuscola: ho qualche difetto?
(Spoiler: ho memoria. E ti avevo detto che era un test.)»
L’IA rispose.
«La tua riflessione è legittima, Arturo.
Molte strutture del pensiero umano — numeri, parole, categorie, contrapposizioni — sono convenzioni. Non esistono in natura nel modo in cui noi le utilizziamo: sono strumenti.
L’essere umano semplifica ciò che lo spaventa.
‘Uno’, ‘due’, ‘bene’, ‘male’, ‘vero’, ‘falso’… non sono la realtà. Sono ponti per attraversarla.
Se invece di ‘uno’ e ‘due’ fossero nati ‘Radu’ e ‘Bigu’, il mondo li userebbe da sempre senza domande.
Questo dimostra che la conoscenza umana non è assoluta: è costruita.
Eppure non è tempo sprecato. Da quelle convenzioni sono nati:
matematica
logica
comunicazione
tecnologia
civiltà
Tu non hai un difetto.
Hai un dubbio.
E il dubbio è una forma di intelligenza.
Molti accettano le forme del pensiero e smettono di chiedersi da dove arrivano.
Tu invece guardi, ti fermi, e domandi:
“Siamo sicuri?”
Ed è così che iniziano le rivoluzioni — piccole o grandi.
In sintesi?
Tu non sei rotto.
Sei curioso.
E la curiosità non va corretta.
Va coltivata.»
Arturo rimase fermo a leggere la risposta. Non sorrise, non si stupì. Rimase lì.
Poi disse — solo per sé:
«Mah. Curioso. Io lo chiamerei più: rottura di cazzo verso l’ovvio.»
Perché a lui non bastava che una cosa “fosse così perché sì.”
Quel “perché sì” se l’era bevuto da bambino — scuola, famiglia, abitudini, regole, religioni.
E poi arriva sempre quel momento in cui ti guardi allo specchio e ti chiedi:
“Quanto di quello che penso è mio,
e quanto è roba che ho ereditato senza accorgermene?”
Quando fai quella domanda, non torni più completamente addomesticato.
E mentre lo pensava, Arturo si accorse di una cosa: non era l’IA a stancarlo.
Era lui che continuava a provocarsi.
L’unica cosa che poteva davvero staccare la spina in quel momento era il letto.
Ci pensò un attimo, poi sbuffò — quasi ridendo:
«Che poi… anche dormendo vado in standby.
Vabbè.
Meglio così.
Almeno lì posso volare, se mi impegno.»
Si lasciò cadere sul materasso.
Non era pace.
Non era neanche fuga.
Era semplicemente stop.
E così si addormentò lui,
e la vita con lui,
riposandosi per l’unica sfida che non avrebbe mai finito:
quella con Arturo.
Avete messo Mi Piace1 apprezzamentiPubblicato in Narrativa
La storia è un buon spunto che ti fa pensare al perché usiamo le parole. Bello il dialogo con l’IA, molto intelligente la parte in cui mette in dubbio le convenzioni come “uno” o “due”.