Prigioniero del tempo – 3

Serie: Amazing stories


A Las Vegas il cielo era azzurro. Il presidente Reagan parlava dal televisore nella vetrina di un negozio.

Fece il suo trionfale ingresso nel tempio della fortuna. Era strapieno. Una folla di curiosi attorno alle roulette, code alle slot, “liste d’attesa” alla toilette. Tipi discreti osservavano quel che accadeva ai tavoli.

Si confuse in un gruppetto di turisti vestiti da poveracci, come lui, alla ricerca del suo doppio.

Si mise in coda per giocare alle slot, ma ebbe un moto d’orgoglio. Aveva già da pagare debiti non suoi!

Continuò a passare in rassegna le varie postazioni. Un’anziana dalle rughe stirate dava sfoggio della sua fortuna sfacciata. Il tizio di fronte a lei imprecò.

Era lui! L’altro!

Si nascose nella toilette e osservò la scena dall’oblò della porta. L’altro lui si alzò, sconsolato, ma subito un tizio lo prese per il braccio e lo portò a un tavolo appartato, dove parlarono fitto.

Curioso di sentire, uscì dal nascondiglio e si avvicinò furtivo. Li vide scrivere su un foglio e firmarlo entrambi. Doveva essersi offerto di coprire il suo debito di gioco.

Stette ad aspettare che si congedassero e dopo dieci minuti raggiunse il benefattore al bar.

– Già qui? Hai il fuoco al culo?

– Ehm… – iniziò, ma subito si zittì. Quello sguardo lo inibiva. Due occhi da specchiarsi dentro.

– Non hai appena detto di non avere più un soldo?

– Vedi… ho trovato una banconota in auto, – improvvisò. – Non mi piace avere debiti.

Gli strappò il centone dalle dita e lo ispezionò in controluce.

– Wow! Sei certo che sia buono? È la prima volta che ne vedo uno simile.

Sbiancò. I suoi dollari erano quelli di vent’anni dopo!

– Scherzavo, amico! Avresti dovuto vedere la tua faccia!

– Quanto è che ti devo? – chiese, mentre il sudore gli rigava i fianchi.

– Ottantacinque e 65.

– Hai il resto?

– Solo dieci dollari. Prendere o lasciare.

Stava per protestare, poi pensò che aveva già abbastanza guai. Fece un cenno di noncuranza e accettò.

– È stato un piacere fare affari con te, amico, – concluse Zucker.

– Aspetta! Il foglio.

– Prego.

Lo ridusse in tanti pezzi, con devozione. Quando rialzò gli occhi dal mucchietto di coriandoli, Zucker era svanito.

– Mi sono salvato per un pelo.

All’esterno, camminando lungo la passeggiata, una Chevrolet del ’82 sfrecciò a un pelo dai suoi piedi.

Fu come se un vaso di fiori gli fosse caduto in testa dal terzo piano.

Come avrebbe fatto a ritornare indietro… cioè avanti nel futuro?

L’unica cosa a cui non aveva pensato.

Era prigioniero del tempo.

*

Il Belvedere era illuminato da una cascata di luci bianche, blu e rosse che partivano da un pinnacolo e scendevano fino al primo piano.

Una ragazza lo sfiorò e il libro che teneva sottobraccio le cadde a terra. Rialzandosi dopo averlo raccolto, lo fissò.

– Amanda, vieni dai! – le gridarono i compagni, fermi al passaggio pedonale.

– Arrivo! Mi scusi, signore.

Corse via e lui, come un automa, prese a seguirla.

Cosa c’era nello sguardo di Amanda? Una sfumatura di compassione? O dell’altro? Era a causa della distanza che percepiva tra di loro in quella situazione? Nella realtà si sarebbero conosciuti solo quattro anni dopo, nel 1986.

I ragazzi entrarono in una biblioteca.

Era stato stupido seguirla, a interferire con il destino. E se non si fosse mai più innamorata di lui?

*

La città di notte era qualcosa di molto simile a una giostra in movimento. Si sentiva come un bambino per la prima volta dentro un parco divertimenti. Percorse il viale dove sorgeva il Belvedere una decina di volte. Era stanco, ma non aveva soldi per una camera d’albergo. Sperava solo di trovare un tavolino appartato in un locale, scolarsi uno scotch e schiacciare un pisolino. Sparire fino a quando non avesse trovato una soluzione.

Scelse un locale dall’insegna azzurra, lo Space Oddity. Per il tempo che l’aveva osservato, c’era entrata poca gente strana.

L’interno era piccolo e intimo. Una panca di legno ad angolo, occupava un terzo della sala. Sembrava comoda per dormirci. Luci basse. Al banco non c’era nessuno. Dalla porta della cucina, sul fondo, proveniva rumore di stoviglie. Sedette, cercando di mimetizzarsi con la tappezzeria.

Tirò mattino tra due ali di bevitori olimpionici di tequila, che gli tiravano gomitate per indurlo ad approfittarne. Alle prime luci dell’alba i suoi abiti erano intrisi di fumi alcolici e aliti pesanti. Ma almeno era sopravvissuto.

Fece il punto.

Era intrappolato nel 1982. Probabilmente con una stronzata, aveva alterato il suo futuro con Amanda. Era terribile il fatto di essersi incontrati. Potenzialmente catastrofico. E non aveva idea di come ritornare a casa.

Conosceva una sola persona che potesse aiutarlo: il benefattore.

Doveva ritrovarlo.

Se come pensava si trattava di un gran furbacchione, dedito a spennare polli come lui, non c’era altro posto dove potesse trovarlo.

La piazza del Belvedere era circolare, con palme piantate in aiuole quadrate e panchine di pietra. Tagliata nel mezzo dalla strada, sulla scalinata d’ingresso c’erano due statue della dea fortuna, dell’altezza di tre metri almeno. Sedette all’ombra, perché faceva già molto caldo.

Per tutta la mattina non vide né Zucker, né il suo doppio. Il poco riposo si fece sentire verso le undici e lo scacciò passeggiando.

Finalmente, quando stava per perdere la speranza, J.J.O. apparve. Entrò deciso al casinò. Lui attraversò la strada e fece altrettanto. Osservò mentre cambiava dei dollari. Anche a quell’ora il posto era affollato. Buttafuori si aggiravano guardinghi tra i tavoli.

L’uomo si accomodò al tavolo del bar e iniziò a mescolare delle carte con molta destrezza. Un energumeno in nero lo avvicinò e scambiò qualche parola con lui, sorridente. Doveva conoscere tutti lì dentro e gli lasciavano fare i suoi giochini.

Seguì tutti gli spostamenti del benefattore, per non perderlo di vista. Salutava tutti con confidenza. Si accostava ai tavoli del bar, proponendo qualche numero di prestidigitazione. Ammiccava alle cameriere, come fossero tutte sue amanti. Lo attese fino al primo pomeriggio, quando se ne uscì.

Lo seguì e lo raggiunse prima che salisse sulla Chevrolet del ’82.

– Oh, chi si rivede! Non dovevi partire?

– Io? Ho detto che sarei partito?

– Sei un tipo distratto, vero?

– No, ho pensato che qualche giorno di vacanza mi avrebbe fatto bene.

– E dove dormi, senza soldi?

– Senza… – ops, si stava incartando. – Oh, conosco una persona che vive da queste parti. Sono stato da lei. Ma stasera parto.

Raggiunsero uno Starbuck’s affollato di impiegati.

– Vinto qualcosa, oggi?

J.J.O. fece spallucce. – Io non gioco mai.

– Ah ah! Io… sto cercando di smettere.

– Vieni, ti offro qualcosa? A proposito… interessante la tua banconota da cento. Un bell’esemplare, davvero.

Bevvero una birra. Zucker scambiò qualche battuta con alcuni avventori. Lui stette in disparte, ma sempre attento a tutti quelli che entravano. Non voleva trovarsi di fronte al suo doppio.

J.J.O. si recò in bagno e quando ritornò al tavolo si fece vicino, circospetto. Prese la banconota da cento e la stirò per bene sul piano.

– Stavo osservando questa ieri sera. Non ero molto lucido, però c’era qualcosa che non mi tornava. Non so se rendo l’idea. Questo ministro del tesoro… con questo nome… non c’è mai stato. – Appoggiò una mano sulla sua. – Fino a oggi…

Gli uscì solo una risata isterica. Poi disse, cercando di sembrare scettico: – Qualsiasi cosa abbia in mente, non credo troverà qualcuno disposto a crederci.

Nei grandi occhi dell’interlocutore traspariva una grande sicurezza.

– Sì? Allora ti invito a casa mia. Non credo avessi davvero intenzione di partire questa sera. Più che altro, – ammiccò, – non potresti…

Mentre raggiungevano la casa di Zucker, si domandò dove avesse intenzione di arrivare. Alzò gli occhi al cielo stellato, in una muta preghiera.

La casa era un villino con il verde sul davanti e una bella aiuola di cactus. Parcheggiò la Chevrolet accanto all’autorimessa, sul retro.

Scesero dall’auto. Zucker aprì la porta del garage.

– Prego.

Entrando non si curò di accendere la luce. Lo lasciò aspettare nell’oscurità, ma dandogli l’impressione di vedere bene quello che stava facendo, come se fossero in piena luce. Sentì che sistemava delle cose e ne spostava altre, con precisione assoluta.

Non faceva freddo, ma lui lo sentì ugualmente.

– J.J.O…

– Un attimo di pazienza. Non vorrai rovinarti la sorpresa!

– Beh, se è così, non mi muovo da qui.

– Lo vedo, sembri una statua del museo delle cere!

Finalmente un interruttore scattò e un lampo bluastro li avvolse. Si abituò subito a quella luce così rilassante.

E vide.

Quell’affare dalla forma di una ciambella, con un bulbo di vetro nel buco e quattro gambe da insetto. E una rampa d’acciaio che scompariva nel ventre metallico. Un anello di luce blu intermittente si rifletteva sul pavimento immacolato.

Allungò una mano per toccare il misterioso manufatto. Era caldo.

Sorrise. Allora non si era proprio bevuto il cervello!

Zucker salì lo scivolo e sparì all’interno della macchina. Un istante dopo fece capolino dalla cima del ciambellone.

Con un cenno lo invitò a seguirlo.

– Vuoi un passaggio?

Un passaggio? – Per dove?

Zucker scosse il capo, divertito.

– Come per dove? Per il futuro, no!

FINE

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Discussioni

  1. Ciao Emanuele. Quello che soprattutto mi piace di te, è che hai trovato una tua “collocazione”. Un marchio distintivo che rende possibile riconoscerti fin dalle prime righe. Uno stile, un mode. Seguirò con piacere gli altri racconti della serie 😀

  2. Ciao Emanuele anche qui hai saputo ben intrecciare questo viaggio nel tempo stile anni 80! Ho letto piacevolmente i tre episodi, riportandomi un po’ alla memoria Ritorno al futuro… mai influenzare il tempo, altrimenti… Comunque lega questo libriCK alla serie, non compare come terzo episodio?! Alla prossima!