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Serie: Il solo modo che conosco


NELLA PUNTATA PRECEDENTE: Ma se ne scrivo, forse quello che ancora c’è posso farlo restare, forse lo posso ancora salvare. Perché ne vale veramente la pena.

Ho raggiunto lo Julier Pass, attraverso la cantonale numero 3 che dal fondovalle sale in direzione ovest, sotto un cielo azzurro, mite, quasi privo di nuvole.

Il percorso sino in vetta si è srotolato fra curve dolci su un panorama a perdita d’occhio, fatto di erba bassa e rocce che trattenevano ancora l’eredità dell’inverno. Se la Luna avesse un’atmosfera, dei prati e la neve sarebbe fatta così. Tanto è stato graduale e morbido l’incedere da stupirmi nell’incontrare il piccolo cartello blu che segna la cima.

Forse a causa del tardo orario di pranzo, non ho trovato praticamente nessuno sulla strada; come in quei film in cui pochi sopravvissuti ad un casino planetario si spostano soli da una parte all’altra di una terra senza più frontiere, cercando qualcosa che non sanno nemmeno loro.

A me di mangiare proprio non è venuto in mente. Prima di iniziare la salita, sono stato troppo impegnato nel godermi a moto spenta il silenzio che sale dalle acque del Lago di Silvaplana, perso a guardare il paese disegnato davanti ad una spessa fascia di abeti specchiarsi su una lastra zaffiro immobile.

In cima al passo c’era un solo punto di ristoro. Quelli che non erano sul percorso li ho ritrovati tutti lì, seduti a mangiare, scambiarsi consigli. Parcheggiate, una riga di moto da turismo, con un serbatoio che ti porta fino a San Pietroburgo con un pieno; oppure giapponesi iper veloci che quando dai gas ti portano indietro nel tempo. Greta si è distinta nella sua eleganza discreta.

Sono subito ripartito, con lo stomaco che senza fare storie ha tenuto fede al patto siglato la mattina: tu non accampi pretese per pranzo, io ti prometto grandi cose per cena.

La discesa mi ha regalato una visione di maggior respiro su una valle profondissima, con i tornanti ripiegati su sé stessi come un serpente troppo lungo per stare nella scatola in cui lo hanno confinato. Da qui, un’ora e mezza fra torrenti e altopiani, alternati da piccoli paesi in fila come le perline di una collana. In uno di questi, ho atteso che una decina di suonatori si facessero coraggio e dessero fiato ai loro lunghi corni alpini, come quelli che si vedono nelle pubblicità delle pastiglie alle erbe. Niente da fare, ho dovuto desistere; si vede che avevano finito le caramelle.

Finalmente, Landquart. Non c’è assolutamente niente a Landquart, ma è qui che il mio spirito minchione ha disinserito il pilota automatico e ha assunto il controllo del mezzo, scartando verso destra, venendo meno agli insistenti suggerimenti del navigatore.

È una deviazione questa che normalmente non verrebbe in mente di fare (come non verrebbe in mente di andare da Chiavari a Tübingen schifando le autostrade) ma sarà la mia irrazionale fonte di orgoglio per il resto della giornata.

Ho seguito un minuscolo cartello grigio, di quelli che se li vedi pensi che ti portino ad un negozio di giocatoli, o ad un supermercato. Invece ti porta in un regno.

Ci si arriva per una strada anonima, attraversando campi di erba curata intervallati da fitti boschi. Sembra non condurti da nessuna parte ma ad un tratto, dove gli alberi rimangono un po’ più distanti, lo vedi. A destra, infossato nel terreno, un palo di ferro con sopra uno stemma, di quelli che non lo capisce nessuno cosa ci sia disegnato; dall’altro lato della carreggiata una bandiera che ostenta con orgoglio una striscia blu ed una rossa con una corona in cima. E tu sai che non hai fatto ingresso nel territorio del Genoa Club ma nel Principato del Liechtenstein.

Questi piccoli fazzoletti di pianeta esercitano su di me un fascino al quale io per primo non so dare spiegazione. Forse per il fatto di essere stati in grado di sopravvivere alla Storia sino ad oggi, circondati da un territorio identico eppure differente che non è riuscito ad inglobarli, ad uniformarli, come fossero degli intoccabili protetti da un’aurea intangibile, dove le regole della natura, del più forte si sovvertono e a vincere sono i più deboli.

In realtà, in questo caso, deboli manco per niente. Il Liechtenstein è uno Stato adagiato in un contesto fiabesco, opulento più della già gaudente Svizzera, con un reddito pro capite stratosferico e una tassazione che nello scaglione massimo non supera il 20%, tutto compreso; dove sono tutti ricchissimi senza capire bene nemmeno loro cosa facciano per vivere. Gente che svegliandosi alla mattina infila le mani nelle tasche del pigiama tirandone fuori banconote. «E tutti questi soldi da dove cazzo spuntano? Ieri notte mica c’erano» disse il marito alla moglie.

Ho guidato sull’unica strada di rilievo della nazione, per tutti i suoi venticinque chilometri di lunghezza, da sud a nord, guardandone gli abitanti camminare sui loro marciapiedi fatti di pietra come ce li abbiamo noi, eppure più preziosi, domandandomi cosa si provasse ad avere avuto il destino di nascere entro quei confini.

Mi sono immaginato le masse di svizzeri che si accalcano ogni giorno alla frontiera, tendendo le mani ed implorando ancora un po’ di quelle esenzioni fiscali delle quali non se ne ha mai abbastanza.

Chiedendomi se quella donna dai capelli corvini e luminosi e gli occhiali griffati in corno di lince dai denti a sciabola, che passeggiava sotto un sole abbacinante in un top bianco super attillato con le tette che sfidavano la forza di gravità, in tutto somigliante a quella stronza che tempo addietro si è fatta fotografare con un pataccone d’oro e platino al polso davanti ad una gabbia di detenuti ammassati uno sull’altro in una prigione di El Salvador, chiedendomi appunto se fosse consapevole della propria condizione di peculiarità. Oppure nemmeno le venisse più in mente e la vivesse come qualcosa di scontato, privo di valore.

Aspetta aspetta, non me lo dire, fammi indovinare. Ci casco sempre anch’io.

(nda: signorina del Liechtenstein, nell’improbabile caso in cui un giorno leggessi queste righe, ci tengo a precisare che non volevo dire che sei una stronza. È che proprio ci somigli un sacco a quella là)

Serie: Il solo modo che conosco


Avete messo Mi Piace2 apprezzamentiPubblicato in Narrativa

Discussioni

  1. “Grande, hai messo una foto di Greta! Un’altra tappa da favola. Le descrizioni sono sempre fantastiche, così come le ‘perle’ che dissemini nel testo. Ho notato che ognuna di noi ha la sua preferita.”

    1. “Il mio spirito minchione ha disinserito il pilota automatico e ha assunto il controllo del mezzo, scartando verso destra, venendo meno agli insistenti suggerimenti del navigatore.”

  2. Che bella questa tappa che sa di cartolina anni ’80 spedita dalla nonna da Cervia, ma che poi, a un certo punto, viene fuori quel cazXXXe di Robbberto e tutto riprende la piega giusta. Un applauso!

  3. “in tutto somigliante a quella stronza che tempo addietro si è fatta fotografare con un pataccone d’oro e platino al polso davanti ad una gabbia di detenuti ammassati uno sull’altro in una prigione di El Salvador”
    Ma come ti è venuta questa? 😂 😂 😂 👏 👏

  4. “In uno di questi, ho atteso che una decina di suonatori si facessero coraggio e dessero fiato ai loro lunghi corni alpini, come quelli che si vedono nelle pubblicità delle pastiglie alle erbe. Niente da fare, ho dovuto desistere; si vede che avevano finito le caramelle.”😂😂

  5. Due cose, su tutte.
    La prima descrizione del Principato e di come gli svizzeri tendano le mani verso quel Paradiso. Come noi le tendiamo verso la Svizzera?
    La seconda (la prima in ordine cronologico) è l’aspettativa che crei e distruggi in meno di dieci parole, quando annunci di essere arrivato a Landquart.
    Finalmente Landquart. Non c’è assolutamente niente a Landquart…
    Fantastico.

    1. Beh, sì, diciamo siamo (quasi) tutti e allo stesso tempo il nord e il sud di qualcun altro. Grazie per continuare a leggermi Antonio, e per la tua presenza all’incontro.

      1. L’incontro è stato davvero interessante. Avendo letto “Il consiglio di Steven” ho trovato utile confrontare la mia interpretazione con le tue parole di presentazione.
        E lo stesso si può dire della serie di cui stiamo discutendo e di cui hai raccontato alcune cose ieri sera. Poche parole bastano per far percepire in modo diverso il racconto del tuo viaggio.

  6. Nuovo tragitto e nuove emozioni. E pensare che non sono mai stato particolarmente attirato dalle narrazioni di viaggio… sì, be’, ma qui si va in moto e questo cambia tutto! Bello il riquadro sul paradiso fiscale (o ex paradiso…?); lascia pure pensare che, in fondo, siamo privilegiati anche noi, nonostante i nostri scaglioni fiscali, ma fuori da quella galera di El Salvador… Grazie Roberto, per questi altri chilometri insieme