
Qua dentro
Io mi sono sempre considerato un uomo piuttosto basico nelle mie pulsioni, lo ammetto. Uno che quando ha fame, mangia; quando ha sete, beve; quando ha dolore, soffre senza indagare il problema perché pigro di natura; quando ha bisogno di un po’ d’amore, si arrangia come può (preferibilmente non da solo se gli riesce, e comunque non qua dentro, qui la pratica è vietata come lo sono tante altre cose); quando gli scappa, va in bagno.
Da un po’ di tempo però mi succede che in bagno non ci arrivo quasi mai e mi piscio addosso.
Vi assicuro che è un’esperienza estremamente imbarazzante. Specie per uno come me che ha sempre fatto del contegno una regola di vita.
Il Dottore che mi ha in cura qui in Istituto dice che non dovrei preoccuparmene più di tanto, che non c’è nulla di cui vergognarsi, che è solo il mio corpo che tenta di comunicare con me nel modo che gli riesce meglio per farmi comprendere la gravità del disagio che prova e l’urgenza di trovare una soluzione, e che io dovrei prestargli ascolto, perché chi meglio di me può sapere quali siano le cose più giuste da dire a me stesso, e chi se non io può essere l’ascoltatore più attento che potrei sperare di trovare al mondo?
Ho provato a fargli capire che questo tipo di reazione potrebbe anche essere vista come il mio corpo che cerca di comunicare a qualcun altro, e non a me stesso, il disagio che prova (io sono bravissimo a parlarmi da solo senza dover adottare per forza comportamenti lesivi del mio amor proprio), ma lui ha preferito continuare a scrivere sul suo blocco per gli appunti, osservandomi di quando in quando con lo stesso interesse che si può riversare su un primate da laboratorio in cattività.
E poi, dice sempre il mio Dottore, cosa ci starebbero a fare altrimenti qua dentro tutte quelle infermiere, se non coronare un sogno portato avanti con tenacia sin dalla più tenera età? Una vita di sacrifici e di fatiche sui libri ma alla fine il raggiungimento dell’agognato premio, che si presenta nelle vesti di un uomo che non riesce più a tenersi stretto quell’insieme di muscoletti e sacchettini elastici interni come invece era solito fare fino a poco tempo prima, e che riversa il frutto della propria sete fra le trame della superficie spugnosa e calda dei pantaloni di una tuta comprata da chissà chi in saldo al mercato dell’usato, tutto preso ad osservare impotente un alone umido e scuro prendere forma lungo i contorni dell’inguine e proseguire giù per le gambe, a volte la sinistra a volte la destra, a seconda dell’inclinazione dello spartiacque, interrompendo in qualche rara occasione la propria corsa sul risvolto di fortuna arrotolato a mano all’altezza delle caviglie, ma trovando il più delle volte libero sfogo su un pavimento verde in linoleum che sa tanto di interrogatori interminabili dentro stanze male illuminate in anonimi edifici durante i giorni sepolti dagli anni della DDR.
Un pavimento che emana sempre il solito odore di candeggina mescolata a qualche altro tipo di detergente, che procurerebbe a chiunque un costante mal di testa ed un’irrefrenabile lacrimazione, ma non a noi che consumiamo i nostri giorni qua dentro.
Noi ci siamo abituati, è un odore che ci serve, è la maniglia alla quale ci aggrappiamo come facevamo quando potevamo andarcene in giro sugli autobus stipati che frenavano all’improvviso. Senza la sua presenza rassicurante ad aleggiare fra queste pareti lucide rivestite di mattonelle blu ci sentiremmo soffocare, ci sembrerebbe di respirare ancora l’aria che sta là fuori, e questo sarebbe troppo, non siamo ancora pronti. Non più di quell’ora scarsa che ci concedono controllati a vista, mentre ci muoviamo sulle nostre gambe lungo percorsi ghiaiosi riparati dalle foglie di tiglio in estate e ricoperti di quelle stesse foglie in autunno.
Mi domando continuamente come sia possibile che uno spazio di pace come quel piccolo boschetto che si vede anche dalla mia finestra possa fungere da biglietto da visita ad un luogo in cui la dignità è capace di perdersi con tale facilità. Forse è una specie di punizione, una lezione di vita, che ci ricorda a quanta bellezza abbiamo detto addio per avere perseverato nell’essere, nostro malgrado, gli involucri all’interno dei quali siamo nati, ostinati individui incapaci di curvare la schiena, condannati presto o tardi a farcela spezzare.
In inverno no, non ci fanno uscire. L’inverno non esiste più per noi, ce lo fanno vedere nelle fotografie sulle riviste, quelle che riportano una data talmente vecchia che nemmeno ricordavo fosse mai esistita. Chissà se la neve è ancora fredda al tatto.
Il mio Dottore dice che mi serve ancora un po’ di tempo. Ma ogni volta che gli chiedo quanto, sguscia via dal discorso e imbocca tanti di quei vicoli stretti e tortuosi che mi pare un ladro che sia appena uscito dalla casa di qualcuno colto con le mani nel sacco, ed io per quei vicoli mi ci perdo mentre tento di inseguirlo e di strappargli via quello che non è suo, perché lui quei posti li conosce alla perfezione, molto più scaltro di me nel ritrovare la strada maestra dopo avere nascosto la refurtiva Dio solo sa dove. Del resto è proprio per quello che lui sta dalla sua parte del tavolo e io dalla mia, e che non ci scambiamo mai la seggiola.
Però vorrei vedere lui cosa farebbe, se continuasse a pisciarsi nei pantaloni.
Una volta gliel’ho chiesto.
«Mi metterei un pannolone» mi ha detto senza un briciolo di rispetto, «te li abbiamo dati apposta».
Lo vedete com’è bravo? Riesce sempre a girare il discorso nel verso opposto a quello su cui stavo concentrando tutta la mia attenzione per cercare di farmi capire. Mi fa sentire come se mi rivolgessi al cielo di notte con gli occhi puntati verso la faccia sorridente e luminosa della Luna ma la risposta mi arrivasse invece dal suo lato oscuro.
Non era questo che intendevo, io volevo dire esattamente… Lui non guarda la cosa dal mio punto di vista, si concentra esclusivamente sul suo.
Ma sbattere i pugni sul tavolo per fare sentire le proprie ragioni, qua dentro, non è un atteggiamento contemplato.
Se lo fai ti puniscono nel modo peggiore che possa esistere: non facendoti niente. Assolutamente niente. Non considerandoti più se non nel momento in cui ti portano da mangiare e vengono a rifarti il letto, alla mattina, mentre fai colazione con una tazza di latte tiepido che quando ti sei comportato in modo non conforme – come lo chiamano loro – non si capisce bene come mai ma ha sempre un retrogusto che ti appiccica sul palato il sapore amaro delle occasioni perdute, un sentore persistente e noioso fino al momento in cui non sparisce all’improvviso, repentino così com’è arrivato, lasciandoti a chiederti di cosa esattamente ti stessi lamentando e perché non ti abbiano ancora portato la tua tazza di latte tiepido per fare colazione.
Questo è un posto in cui l’autodeterminazione viene ripagata con il silenzio, la collaborazione con la speranza. Per il primo si riscuote subito e in contanti, mentre per la seconda il credito cresce a dismisura ma il saldo sembra non arrivare mai. Per quello ci vuole sempre ancora un po’ di tempo.
Allora si cammina. Si cammina tantissimo qua dentro. Tutti i chilometri e tutte le strade e tutto quello che non mi fanno più vedere là fuori me lo percorro e me lo guardo lungo corridoi illuminati sempre allo stesso modo, in qualsiasi ora del giorno e della notte.
Cammino così a lungo che l’altro giorno ho sentito due inservienti parlottare tra di loro e uno dei due, riferendosi a me, mi ha chiamato Forrest Gump. È una pratica vietata dare nomignoli ai pazienti qua dentro, ma è una regola che non rispetta nessuno. Io comunque non mi sono offeso.
E poi io mica corro. Io passeggio per i fatti miei. Con le mani dietro la schiena quando mi sento più riflessivo, quando nei muri mezzi azzurri e mezzi bianchi ci vedo il mare calmo che mi piaceva guardare camminando lungo la Promenade della mia città, nelle giornate che si allungavano a vista d’occhio in Aprile, quando quel tratto di spiaggia era ancora soltanto mio.
Oppure con le mani in tasca, quando mi sento più spavaldo, quando mi sembra di ricordare che sapore abbia la birra appena stappata da una cameriera di Cracovia sul bancone di un bar alle sette di sera, a stomaco vuoto e con la testa piena di idee.
Irrealizzabili, questo sì, ma comunque belle da coccolare ancora un po’, prima di farle naufragare alla svelta e fare posto a delle altre altrettanto inverosimili.
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Scrivi benissimo, Roberto, e leggere i tuoi racconti è sempre un piacere.
Grazie Guglielmo, il piacere è sapere che tu sia arrivato a trovare questo!
Bell’affresco su una realtà molto spesso dimenticata.
Vero, a volte del tutto ignorata. Grazie Rocco.
“Irrealizzabili, questo sì, ma comunque belle da coccolare ancora un po’, prima di farle naufragare alla svelta e fare posto a delle altre altrettanto inverosimili.”
Applauso Una bella frase per concludere un viaggio introspettivo. Un racconto molto bello, i dettagli sono la sua forza, parole semplici, fluide, che formano un disegno degno di un opera d’arte. Complimenti!!
Grazie Giglio, sono contento che ti sia piaciuto, non sono sicuro di essere riuscito ad esprimermi come volevo in questo racconto.
Capolavoro ..lo farò leggere a mia moglie che lavora in una casa di riposo. Io mi sono pisciato dentro perché non sono grande come te.Bravissimo
Grazie Giulio, sarebbe un onore🙏🏻
È un racconto molto profondo e ben scritto, pervaso dalla nostalgia che nasce dal confronto tra una vita passata in libertà, tra sogni da realizzare e viaggi in posti diversi, e un presente in cui il protagonista deve accettare l’ineluttabile destino di non avere più né la giovinezza né un altro posto in cui andare. Il suo stesso corpo sembra volergli comunicare che deve arrendersi alla sua condizione, eppure il protagonista sembra non volerlo ascoltare e cerca invece di cambiare il destinatario di quella comunicazione e trasformarla in una richiesta di aiuto al suo medico affinché gli permetta di uscire da quel posto e riprendersi ciò che ha perduto.
Ti ringrazio per essere andata così in profondità nella lettura, davvero.
L’ho riletto dopo aver visto quel tuo commento e solo allora ho focalizzato quei particolari che allontanano dall’idea della casa di riposo. Però in questo gioca il suo ruolo anche l’immaginario collettivo, gli stereotipi del vecchio che se la fa sotto e del pannolone.
È un bel lavoro, con piu passaggi degni di nota: il medico che applica il “manuale di psichiatria” snobbando il disagio del paziente; il premio per una vita di sacrifici sui libri; il riferimento alla DDR quale esempio per descrivere una sensazione… l’odore di candeggina che ricorda ai pazienti il perché sono lì è il passaggio che preferisco, porta a un paradosso che hai saputo esprimere con particolare validità.
Insomma, non mi dilungo oltre se non per l’immagine di quella birra a Cracovia: il racconto mi è piaciuto tantissimo.
Grazie Francesco, sono davvero felice che tu abbia apprezzato tutti questi aspetti, you have made my day!
“Lui vi legge tutti☺️”
Big Husband😂
Che dire? L’ho voluto leggere ad alta voce, mentre mio marito ascoltava. Abbiamo cominciato ridendo e divertendoci. Poi siamo passati al sorriso che si è fatto piano piano amaro. Infine è bastato l’ascolto e i pensieri e riflessioni hanno cominciato a volare. Amarezza e nostalgia. Bravissimo
Grazie Cristiana, e ringrazia anche tuo marito per l’ascolto! 😅
Lui vi legge tutti☺️
“Chissà se la neve è ancora fredda al tatto.”
e questa! ma ce ne sono altre.
Eh si, una frase che messa in tutto il contesto da quel tocco di realtà ad una mente ormai improgionata
“Mi fa sentire come se mi rivolgessi al cielo di notte con gli occhi puntati verso la faccia sorridente e luminosa della Luna ma la risposta mi arrivasse invece dal suo lato oscuro.”
ad esempio questa
tu dici che ti è venuto male e non c’è nessuno che possa contraddirti sul piano delle intenzioni. Però se non avessi letto la tua autocritica avrei detto – e lo dico – che è un bel racconto e che sì, è vero che sembra ambientato in una casa di riposo, e proprio per questo le dinamiche descritte corrispondono a una situazione esistenziale del tutto credibile. Hai disseminato qua e là frasi che vale la pena di ricordare.
Ciao Francesca, beh sì, in effetti alla fine sta tutto nel trasmettere qualcosa. Grazie per avergli dedicato del tempo!
Strano ma interessante!
Grazie Kenji 🙏🏻
Sei crudele, veritiero ma truce, nel tracciare un destino che incombe, incurante, su tutti noi. E la chiudiamo qua la nostra umanità? Nel pisciarsi addosso perché incapaci di governare valvole e muscoli? C’è di più, anche di meno a dire il vero, ma se la vescica non tiene e la prostata fa i capricci l’importante è che il cervello non scorreggi, altrimenti si, siamo finiti, e allora sarebbe doveroso accettare, e far accettare, il concetto che ciò che dovevamo fare e dire l’abbiamo fatto e detto: lasciateci andare. Hai scritto bene, hai graffiato dove fa più male ma non so se è più il piacere o il dolore nell’aver letto. Comunque sia, ammiro questo tocco alle mie terminazioni più sensibili e quindi non posso che, mio malgrado, dirti: ottimo lavoro ragazzo!!!
Ciao Giuseppe, apprezzo particolarmente il tuo commento, perché conferma in me il fatto che più leggo questo racconto e meno mi piace. Ma ormai l’ho pubblicato e mi prendo la responsabilità delle mie parole. Mi è uscito talmente male che io volevo parlare di un uomo con sopravvenuti problemi mentali, mentre quel che ne è venuto fuori è il paziente di una casa di riposo. Sono caduto nell’errore più grossolano, quello di dare per scontato che ciò che avevo in mente trasparisse con chiarezza. Grazie per avermelo fatto notare, una bella lezione.
Un testo, secondo me, eccellente, per contenuti e forma. Ironico, credibile, amaro ma non troppo. Ho l’ impressione che ad ogni tuo tratto in avanti di scrittura, stia compiendo passi da gigante.
Grazie per questo bellissimo apprezzamento Maria Luisa!
“Mi metterei un pannolone» mi ha detto senza un briciolo di rispetto, «te li abbiamo dati apposta».”
Quando sarà il suo turno, non se li metterà. Fidati.
Temo anch’io!
Mi ha commosso e colpito, fra le altre cose, la sincera e disarmante umanità del protagonista. Non si mente, non ha indosso maschere. Si porta fiero addosso il coraggio di essere fragile. E mica il Dottore, che la sua comoda maschera la indossa tutti i giorni insieme al camice. (Non me ne vogliano eventuali dottori all’ascolto 😅).
Grazie Dea, quella del protagonista è una figura che ammiro anche io nella sua onestà.
Amaro quanto quella tazza di latte, il mattino dopo aver pestato i pugni sul tavolo del primario.
E così reale da far paura.
Bravo.
Grazie Giancarlo, parole molto apprezzate.
“Questo è un posto in cui l’autodeterminazione viene ripagata con il silenzio, la collaborazione con la speranza. Per il primo si riscuote subito e in contanti, mentre per la seconda il credito cresce a dismisura ma il saldo sembra non arrivare mai.”
Metafora di una vita intera… 👏 👏 👏