
Quel che un giorno mancherà
«Tirate in parte, che adess el riva.»
Ma Luchino è troppo piccolo, lui non sa.
Il padre lo toglie dalla porta, dalla quale giungono gli spifferi, e lo deposita sulla paglia.
Il tempo, nelle ultime ore, è cambiato. La casa è troppo fredda e Luchino ha bisogno di un posto caldo dove stare. Presto arriverà anche il Bepi, con Massimo e la signora Bruna. E Tony, che purtroppo è da solo, ma fa uguale. Luchino è piccolo e crede sia una festa. Non capisce che, nei rigidi inverni, quello è l’unico modo per restare vivi.
Ci vuole comunanza, che è condivisione proprio di tutto. Di idee, di principi. Di progetti, facili da realizzare, ora che le giornate si sono accorciate e non si passa più tutto il tempo nei campi.
A Luchino piacciono queste serate nella stalla, a contatto con gli animali. Con le mucche che sembrano liete di elargire il loro fiato, quasi fossero memori di avere in passato salvato dal gelo un ben altro illustre bambino. Almeno, così si dice.
La signora Lucia ha fatto la torta di castagne, quelle che le ha portato la zia dai Colli Euganei. Luchino aspetta con frenesia un pezzetto di quel dolce spianato, che la mamma gli pone sul palmo come fosse un capitale. Tutti i presenti ne potranno godere, anche se il Bepi finisce per parlare con la bocca piena, che non va bene. E Tony per bere un po’ troppo di quel vino che tengono nel fiasco, tanto a casa sua nessuno si lamenta.
«Adess Massimo el riva. Varda Luca, l’è zà chì!» ripete la mamma al bambino. Attende il suo amico, lui, ma lo vede troppo impaziente e lo vorrebbe quietare.
Luchino e Massimo hanno più o meno la stessa età. Mentre gli adulti discorrono e le donne lavorano a maglia, una lana ruvida che sembra fatta di vetro, loro sono soliti giocare a rincorrersi. La signora Lucia lo tiene sempre d’occhio, suo figlio, ma allo stesso tempo è contenta che si distragga e non senta ciò che gli altri hanno da dire.
Gli uomini usano argomentare di terra ghiacciata e di progetti per la primavera; di nuove colture che potrebbero provare a piantare. Di un aratro che si è rotto e che qualcuno riuscirà a riparare.
Poi però, Tony, che è da solo, finisce per tirare in ballo le donne. Come la tabaccaia Serena, che vive giusto in punta al paese. E, come da copione, si copre la bocca sdentata per confidare che ha un culo sodo, di quelli che fanno provincia. Mentre nella congrega calano silenzi imbarazzati, se la ride e si schiarisce forte la voce, neanche avesse la bronchite.
Verso la fine della serata, è sempre l’ora della signora Bruna. Lei è sensitiva da quando i suoi genitori sono stati travolti da una camionetta che faceva la ronda in paese e aveva beccato un ladro di polli. Inseguito sulla strada principale, lo spiantato aveva tagliato per i campi con la sua bicicletta sgangherata. Così, per anticiparlo, i soldati avevano saltato di netto un incrocio, piombando dritti sull’auto dei genitori della signora Bruna. All’epoca lei era poco più di una bambina, ma si dice che abbia gridato nel sonno, nell’attimo esatto in cui i due poveretti perdevano la vita.
Certo, avrebbero osservato poi quei soldati, nessuno si sarebbe aspettato che alle tre di notte ci fosse ancora qualcuno per strada. E invece c’erano i genitori di Bruna, che cercavano di raggiungere il vicino ospedale. La madre, al quinto mese di gravidanza, si era sentita male.
E adesso, quando una donna rimaneva incinta, andava a casa di Bruna a chiedere se avesse brutti presagi. Talvolta portava del pane o del formaggio, per ringraziarla del suo consulto, legittimandola a presentarsi sempre più come la “strega buona” del paese.
Quando pochi anni prima aveva concepito Massimo, riguardo al quale, fra l’altro, non aveva mai avuto sinistri pensieri, i suoi racconti erano stati più allegri. Bruna parlava delle donne floride che le entravano in casa, entusiaste e aperte alla vita. Oppure del sole che faceva bene alle ossa, quando seguiva il Bepi, suo marito, nei campi. Ma adesso che era giunto l’inverno, quei discorsi avevano assunto una sfumatura macabra. Così, quando provava a parlare di morti o di spiriti, che diceva di vedere di continuo, Lucia la interrompeva fingendo di interrogarla sui punti del lavoro ai ferri. Erano calze, quelle che la signora Bruna confezionava: due dritti e due rovesci. E fra un discorso e l’altro, le offriva una fetta di torta. Sempre nei giorni in cui la zia, scendendo dai Colli, portava le castagne. S’intende.
Bruna allora metteva la bocca in movimento e tacitava i suoi fantasmi. La voce della sorella maggiore che, rimasta a casa con lei quella notte fatidica, continuava a ripetere «Xe ninte, Brunin, dormi. Fra un fià i torna.»
Ma ecco gli ospiti! Finalmente arrivano e l’attesa di Luchino si placa. Massimo entra tutto trafelato, con le gote rosse, pieno d’entusiasmo e del freddo che ha preso durante il tragitto. Luchino lo abbraccia: lui è sempre tanto formale.
Gli adulti si siedono in cerchio, soffiandosi aria calda nelle mani. Sono contenti di poter condividere l’ennesima serata al tepore della paglia. Fuori la luna è un disco d’argento, appena un poco velato.
Dentro c’è il dolce di Lucia; il fiasco del vino è nascosto più in là. Nessuno ha bisogno di altro.
Forse un giorno, tutto questo mancherà.
Avete messo Mi Piace1 apprezzamentiPubblicato in Narrativa
Mi hai emozionato, forse perché sono nato e cresciuto in una cascina e mi sono visto in questa storia. Sempre eccellente il tuo stile.?
Grazie 🙂
Mi piace, ho rivisto alcuni personaggi tipici i determinati luoghi, è sempre un piacere leggerti, in queste storie così umane e vere!
Ciao Marta. Grazie di cuore.
Bel racconto della provincia.. mi piace l’atmosfera, mi piace il freddo fuori ed il caldo dentro, mi piace la semplicità delle vite raccontate e mi piacciono le intrusioni del dialetto nelle conversazioni.
Altri tempi quelli… forse non ci sono più e questo lascia sempre l’amaro in bocca.
Alla prossima lettura.
Lieta che ti sia piaciuto, Raffaele. Alla prossima.