Quel posto che cresce all’incontrario

Serie: Personalissimo buio


«Sono Alex e non riesco a smettere di bere.»

«Ciao, Alex.»

Un coretto canzonatorio di due parole si riversò nella stanza anonima con una piccola eco, stavano zitti da un po’ e solo un paio dei più partecipi le dissero: gli altri accolsero quelle di Alex senza trasporto, divisi tra un disincanto spietato ed un’allenata indifferenza. Stavano tutti seduti su diverse sedie poste a cerchio, molte di più le vuote che le piene.

«Grazie Alex, ma dicci di più: da quanto tempo senti di aver perso il controllo?», la voce stavolta veniva dal consulente della struttura, psicologo sulla trentina, giungeva condita da una specie di cantilena melliflua: la perfetta dizione tradiva un certo distacco, mentre scarabocchiava su una cartellina; a volte con un dito si spingeva sul naso gli occhiali, lanciando sui presenti uno sguardo timido e fugace dal basso verso l’alto.

«Quando ho perso… Il controllo?»

«Certo, da quanto senti di essere dipendente dall’alcool?»

«Io non…» una specie di risatina nasale, un po’ imbarazzata gli uscì dalla bocca e lo interruppe, riprese: «non penso di averne mai avuto, di controllo». Si mise coraggiosamente a nudo. Una mano strofinava nervosamente l’altro avambraccio, come se avesse freddo e cercasse di scaldarsi, arrivava a ripassarsi le cicatrici sul polso.

«E chi ce l’ha?» Aggiunse ironicamente la ragazza di fronte a lui. Non l’aveva salutato lei, all’inizio; aveva continuato a succhiare quella sigaretta attorcigliata e piegata: come faceva così ridotta a bruciare ancora?

«Sarah, cerchiamo di non essere sterili. È la prima volta che Alex decide di parlarne.» Quell’ultima parola sembrò fermare il flusso dei pensieri di Alex: “parlarne”. Il clitico sembrava un’insegna al neon, una grossa freccia sagomata con le lampadine. “Parlare” sì, certo, ma di cosa? Bhè, del fatto che era un relitto. Del suo problema. Aveva deciso di aprirsi e se ne era già pentito, era come se il dottorino, che fino a ieri aveva fatto finta che Alex non esistesse, che aveva a malapena registrato mentalmente l’andirvieni di persone nella saletta dove faceva le sue sedute, con due lettere avesse detto a tutti “ehi, finalmente qualcuno di questi moduli anonimi del cazzo ha deciso di farsi associare ad un vero relitto umano. Toh, pare che si chiami Alex”.

«Lei sa benissimo che ho un problema col bere. C’è scritto là sopra», indicò, con una bella mano tesa che fece penzolare decisa una volta sola, in avanti, verso l’arrogantello: «…Sa del mio, di problema. E sa quello di tutti, qua dentro».

«Alex, il punto delle riunioni è proprio questo: se riusciamo ad ammettere di avere un problema», rispose con fare paternalistico, «…poi possiamo fare dei passi verso la sua risoluzione, la tua condivisione è importante al di là di ciò che c’è scritto qui» sciorinò, già disilluso alla sua prima esperienza lavorativa.

Alex stava rientrando in quello spazio scuro e tutto personale, quello spazio che sembra solo chiudersi quando torni indietro a grandi passi subito dopo averne fatto uno piccolino in avanti dentro una luce troppo forte. Quello che a volte sembra l’androne di un palazzo signorile ed altre l’anticamera di un postribolo da due soldi, ma che sembra svilupparsi in una sola direzione: indietro. O in basso. Sempre all’indentro, comunque, verso il raccoglimento dell’incomunicabile affanno dell’essere soli. Uno spazio che sembra crescere all’incontrario.

Le ricordava, Alex, tutte quelle volte in cui le altre persone ti ricacciavano dentro la tua “tana”, e come sembrasse un buco sempre più profondo, un “altrove” sempre più grande e sordo: uno spazio mentale che pur diventando sempre più stretto, con sempre meno ossigeno, con sempre meno luce, risultasse comunque sempre più riconoscibile ed, in qualche modo, perversamente accogliente.

Aprirsi? Comunicare? A volte ci credeva. Diceva a sé stesso: “Nah, la devo piantare! Ho sbagliato tutto io, finora: ero io a chiudermi, il mondo è lì che mi aspetta. Posso uscire“. E sbamm, Qualcuno, una frase, un gesto, un’espressione del volto, lo rimandavano là dentro. Appena apriva la porta, metteva un piede fuori e… Una scatola si richiudeva, una serranda sbatteva, una serratura scattava. Un po’ più rumorose dell’ultima volta.

«Sono cazzate, Dottore. Rispettosamente…» Qualcuno rimise in moto il mondo immobilizzato di Alex accompagnando le parole con un inchino denigratorio: «…Sono qua da sei mesi (almeno, sono sei a questo giro), bevo da quando ho memoria e condividere, come dice lei, non mi ha fatto risolvere nessun problema».

«Gabe, è perché bere non è un problema per te.»

Qualcosa di simile ad una risata, vera – questa volta – passò di bocca in bocca.

«È quello che dico sempre anche io! Almeno: non è che l’ultimo dei miei problemi.»

Alex si ritrovò a fissare i due che avevano appena parlato, quello dell’uscita divertente era un’omone scuro che ridacchiava dando pugnetti sulla spalla di “Gabe”, che era un vero personaggio, a vedersi: una testa di capelli lunghissimi tra il biondastro sporco ed il rosso ruggine, una mascella quadrata con qualche ciuffetto di una barba di due settimane che spuntava qua e là, sotto due occhialoni neri e fuori moda. Stava stravaccato con un ginocchio piegato che abbracciava la sponda della sedia scomoda, quasi a sfidarla a farglielo indolenzire ancora un po’. Aveva un chiodo borchiato addosso e stava facendo scattare lo Zippo sulla cima dell’ennesima sigaretta.

Qualcuno aveva detto ad Alex che Gabe Fustaine era tornato in comunità dopo l’ultimo disco, ma non credeva che sarebbe capitato nella sua. Lui amava molto la sua musica, e Fustaine era l’unico motivo per cui aveva deciso di venire a queste riunioni. Voleva conoscerlo.

«Gabriel, siamo in questa struttura per risolvere dei problemi di natura… Personale. Il fatto, poi, di incontrarci qui è un importante passo che ciasc…»

«CAZ-ZA-TE. Un mucchio di cazzate. Io vengo qui perché c’è scritto su un foglio che devo fare un minimo di ore di terapia di gruppo. C’è una ricetta, come per le torte: “tot milligrammi di questo, tot milligrammi di quello, tot ore di terapia…” quando ho barrato tutte le caselline, posso uscire di qui.»

«Gabriel, se queste sedute per te non sortiscono effetto, possiamo sicuramente fare qualcosa per…»

«…E poi mi annoio. Qua ci fate entrare solo le sigarette.»

«Signor Fustaine, ma la chitarra gliel’hanno fatta portare?» Questa volta fu Alex a rivolgergli la parola direttamente.

«Fanculo la chitarra, ragazzino. Quello è lavoro. E non darmi del Lei. Gabe. È il mio nome, usa quello.»

«Ed io non sono “ragazzino”. Il mio nome te l’ho detto all’inizio.»

Gabe con la mano libera abbassò leggermente le lenti, dardeggiò il giovane con un’occhiata stupita. Poi li inforcò di nuovo: «Tu mi piaci, Alex. Ma quanti anni hai, venti? Ventidue?»

«Ventisei.»

«Ventisei, appunto: tu dici che non riesci a smettere di bere, io ti dico che ho cominciato da prima che tu nascessi. Ti posso dire che non smetterai mai davvero, ragazzo. Nessuno smette.»

«Gabe ha ragione. Al massimo cominci con altra roba… Che vuoi capirne?»

«Sarah, bere smodatamente non è da sottovalutare», si insinuò lo strizzacervelli nel dialogo «Un bicchiere per chi ha una dipendenza non è mai solo un bicchiere.»

«“Le dipendenze… Le dipendenze…” la pianti con questa retorica del cazzo», Gabe interruppe lo psicologo che girò gli occhi «Sarah ce l’ha detto, le piace l’eroina ed ha fatto le sue, io le mie, Tyler pure e, te lo posso assicurare ragazzo, non mi sono fatto mancare nulla».

«Alex. Mi chiamo Alex. So tutto delle tue sparate, ti conosco, io… Adoro la tua musica.»

«Ah sì? Allora saprai che quando scrivevo i miei pezzi migliori non ero mai sobrio.»

Si ritrovò di nuovo nel suo spazio buio. Ricacciato là dentro. In fondo, lo dicono: non bisognerebbe mai incontrare i propri eroi. Non gli aveva detto nulla di nuovo, poi: tutti sapevano che Gabe Fustaine era un drogato, non c’era sostanza che non lo avesse corteggiato coi suoi piaceri, lo avevano cacciato dal primo gruppo perché faceva solo casini. Lo sapevano tutti che tipo era. Era quell’aria di sufficienza che lo ferì, non mostrava comprensione né rispetto per il fatto che aveva ammesso una debolezza, solo un vago disgusto. Sono solo quelli che non ci sono indifferenti che hanno le armi per ferirci, gliele diamo noi. Aveva sbagliato di nuovo: “un altro fallimento” realizzò, mentre si artigliava il polso.

«Nessun tossico del cazzo può scrivere quella musica. Tantomeno suonarla. Se vuoi fare il padreterno con quell’atteggiamento da grande esperto di autodistruzione fa’ pure, se credi di sembrare tanto figo. Ma non ti azzardare a minimizzare la musica che amo. Dalla prima volta che l’hai suonata non è più solo tua. Porta rispetto, coglione.»

La mascella di Tyler sembrò toccare terra e Sarah gli sorrise, senza ironia. Lo psicologo inforcò di nuovo gli occhiali: «Due minuti di pausa».

E Gabe, riabbassando i suoi, sorrise: «Sì, tu mi piaci Alex».

Serie: Personalissimo buio


Avete messo Mi Piace2 apprezzamentiPubblicato in Narrativa

Discussioni

  1. C’è un espediente in letteratura (usato spesso in assoluta buona fede) in base al quale un personaggio con delle debolezze entra facilmente in sintonia con il lettore (e risulta spesso simpatico). Eh niente, Alex mi ha preso. Proseguo molto volentieri con la lettura di questo personalissimo buio. A presto!

  2. ciao Giuseppe!
    e grazie mille per la tua lettura e le tue parole ^^’

    questa storia è un esperimento, l’ho cominciata perché ho sentito di nuovo il bisogno di scrivere ed è la prima volta che pubblico qualcosa dove possa essere letto da estranei, quindi è tutto nuovo per me.

    ho qualche idea su dove farlo “andare a parare”, ma sono cosciente che finire una storia è sempre più difficile di cominciarla, quindi bhè… vedremo!

  3. Ciao Maurizio, ciò che ho apprezzato in questo incipit è senza dubbio il tentativo di Alex di voler abbandonare quel luogo buio ed interiore in cui viene ricacciato puntualmente, è un vortice malinconico dove la comunicazione sembra non sortire alcun effetto. Al di là del problema delle dipendenze, è proprio lo stato psicologico di Alex che seguirei con molta attenzione. Non mi resta altro che proseguire?!

    1. ciao Antonino, ringrazio anche te!
      l’aspetto psicologico è quello che mi interessa, infatti. non nascondo che mentre ti trovi a scrivere di queste cose ed a “scavare” in sensazioni e stati d’animo, ti sembra di dire sempre un po’ troppo, di metterti a nudo.
      però la mimesi narrativa ti viene in aiuto e capisci che puoi “essere” e “provare” quello che vuoi, quindi gasa.
      ancora grazie per la lettura.

      (ho risposto al primo commento senza notare il reply, scusate)

  4. Ciao Maurizio. Inizio di serie alquanto notevole, sia per il linguaggio adottato e sia, soprattutto, per i significati espressi. Complimenti anche per il testo: l’ho trovato molto pulito. Ancora non riesco a immaginare dove vuoi andare a parare con questa storia, non mi resta che proseguire con la lettura! 🙂