
Rayhan, basilico
Serie: Simorgh
- Episodio 1: SIMORGH/Azadeh
- Episodio 2: Rayhan, basilico
- Episodio 3: Invasione
- Episodio 4: Io mi chiamo Leyla
STAGIONE 1
Entra in classe senza bussare, senza chiedere permesso, senza scusarsi, coperta da uno straccetto rosso a mo’ di vestitino. In ritardo e con un rametto di basilico in mano, che posa sulla cattedra, in silenzio.
«Bello! Grazie. Sai che in persiano questa pianta si chiama rayhan?»
«Davvero, maestra? Ci sono tante parole arabe nel persiano?»
«Molte, molte davvero. Anche la scrittura che usiamo è quella araba, con qualche lettera in più.»
Azadeh lancia un’occhiata circolare alla classe, vede che tutti la stanno ascoltando e decide di proseguire.
«Per molti anni i persiani parlarono solo arabo, dopo essere stati invasi, e sembrava che nessuno più conoscesse la nostra lingua. Dopo tanti anni comparve un poeta che ha cominciato a scrivere una bellissima storia in persiano. Da allora tutti hanno ricominciato a studiare il farsi, per potere leggere quella storia paradisiaca.»
La ragazzina, che si chiama Alexandra ed è una che ha l’abitudine di preoccuparsi per gli altri, e per tutto quello che accade, sembra prendere la palla al balzo.
«Ecco, vedi: per questo noi non vogliamo che gli ebrei vengano a comandare qui, perché ci obbligherebbero a parlare la loro lingua, che non ci piace per-nien-te.» La piccola termina la sua allocuzione battendo forte un piede a terra e Azadeh deve coprirsi la bocca con la mano per non far vedere che sta ridendo. Non le passa nemmeno per la mente di informare Alexandra e il resto della classe di quanto siano affini la lingua araba e la lingua ebraica, preferisce restare in un terreno meno doloroso.
«In questa classe non ci occupiamo della lingua di Israele, solo delle nostre: arabo e persiano, con un po’ di francese e un po’ di inglese. Per esempio, il tuo nome Alexandra, lo sai che non è arabo, vero?»
«Ma certo che lo so. Io sono nata a Parigi, perché mio papà stava studiando in quella città. Io parlo anche francese, sai»
«Direi che sei una bambina fortunata, e hai anche un nome importante.»
«Perché è stato il nome di Alessandro Magno?»
«Certo, ma non solo, anche perché ha un significato speciale, tanto speciale che molti popoli hanno fatto entrare questo nome nella loro lingua.» A questo punto Azadeh si interrompe per dare un’occhiata al resto della classe, con il timore che si sentano esclusi, ma vede davanti a sé solo occhi splendenti, di quello splendore speciale che hanno gli occhi dei bambini quando c’è qualcosa di veramente nuovo da imparare. Si continua, allora.
«Alexandros è un nome greco che significa “difensore degli uomini”, in arabo si dice al-Ksandara e nella mia lingua Iskandar, tutti con lo stesso significato.» Da qualche, tra i banchi, si alza un fischio di quelli proprio da stadio. Nemmeno la guerra fa dimenticare ai bambini come si sottolinea un bel gol. Azadeh ha guadagnato un punto a suo favore e Alexandra raggiunge il suo banco gonfia d’orgoglio, pare voglia dire:«Non abbiate paura di nulla, ragazzi, vi difendo io che degli ebrei. Anā qawì, io sono forte.»
«Ehi, tu, salvatrice di uomini!»
«Moi?», si esibisce ridendo Alexandra.
«Si, toi toi, non mi hai detto dove hai trovato il basilico.»
Il visetto di Ale si è fatto di colpo più rosso del vino della Bekaa e lei scivola a occhi bassi dentro il suo banco. Non risponde e Azadeh decide di lasciar perdere, per il momento, riprende a fare lezione proponendo alla classe di scrivere un racconto sul luogo in cui sono nati. È dolce il silenzio della classe, il fruscio delle penne sui fogli, le diverse espressioni di ragazzine e ragazzini concentrati a pensare, ricordare o inventare, secondo i casi.
All’improvviso la sirena. In un baleno tutta la classe è in piedi, quaderni dentro la borsa e borsa in spalla.
L’unica allarmata è la maestra, oggi al suo primo bombardamento.
«Ragazzi! Qui, vicino a me, nessuno si allontani. Siamo tutti? 1,2,3…28. No, accidenti, non c’è Alexandra. Qualcuno ha visto Ale?»
«Non ti preoccupare, maestra, Ale se ne va sempre per conto suo.» Boutros è quasi più alto di Azadeh e sicuramente più tranquillo.
«Grazie, caro, ma io vorrei essere certa che è al sicuro. Sapete in che direzione va, di solito?», chiede Azadeh, sperimentando la differenza tra i ragazzini che vivono in pace e quelli che stanno imparando le regole per vivere in guerra. Da questo gruppo non si alzano ventotto voci, tutte con risposte diverse. C’è un portavoce, e come abbiamo capito in questo caso è Boutros, che si consulta brevemente con gli altri e poi risponde all’insegnante.
«Vedi quella baracca là in fondo, a destra? La vediamo arrivare fino a lì, quando usciamo da scuola e girare ancora a destra, tra quelle macerie, poi la perdiamo di vista.»
«Che voi sappiate, ha una famiglia?»
Si guardano, qualcuno si stringe nelle spalle, qui non cambia niente avere o no una famiglia.
Comunque Azadeh ha deciso.
«Io vado a cercarla, non sono tranquilla. Voi sapete cosa fare?»
«Siamo sopravvissuti fino a oggi, non ti devi preoccupare per noi.», le risponde serio e tranquillo Boutros.
Non mi devo preoccupare per loro? Va bene, andiamo. Ecco la baracca, giro a destra. Che silenzio. Hanno appena bombardato e c’è tutto questo silenzio? Dove sono tutti, dove sono i camion con il cibo? Dove sto andando? Un momento.
Là in fondo, un’idea di rosso che appare e scompare. Una fiammella che saltella, io provo a seguirla.
Con le infradito nere di plastica, la tunichetta azzurra e la borsa dei libri, non è facile tener dietro a quel piccolo jinn, un diavoletto salterino che appare e scompare. È lei, di sicuro è lei, e adesso è scomparsa di nuovo, come se fosse stata inghiottita dalla terra.
La maestra Azadeh accelera il passo e il suo cuore accelera i battiti. Davanti a lei si apre e scende una specie di spelonca, cui arrivare piano piano, un passetto alla volta con quelle ciabattine, e poi attenzione a chinare la testa perché il soffitto della grotta si abbassa e si sentono due voci. Forte e squillante, di una bambina, debole e tremula, di quello che era un uomo.
«Allez, mange ! Si tu meurs, ils ne pourront pas te libérer.»
«Je suis fatigué…»
La luce è scarsa ma s’intravvede, vicino all’inferriata, una piantina di basilico.
Serie: Simorgh
- Episodio 1: SIMORGH/Azadeh
- Episodio 2: Rayhan, basilico
- Episodio 3: Invasione
- Episodio 4: Io mi chiamo Leyla
Bellissimo personaggio quello di Alexandra: giovane ma, da quanto fai capire attraverso le tue parole, già matura. Riesci a dipingere l’atmosfera tragica della guerra, ed è sconvolgente leggere dei bambini costretti ad affrontare questa realtà che non dovrebbe esistere. Grazie per i tuoi racconti.
Alexandra è meravigliosa! Schietta, intelligente, intraprendente e con tanta voglia di imparare. Soprattutto, è una bambina di buon cuore.
Non riuscirò mai ad abituarmi a quel sapore dolce-amaro delle tue storie, a quegli scenari di vita quotidiana spezzati dalle guerre. Viene da domandarsi come ci si possa adattare e sopravvivere in quelle condizioni.
Purtroppo la tua è una buona domanda a cui si dovrebbe dare una risposta dura: non ci si deve adattare. Se non ci adattassimo, forse le cose potrebbero essere diverse.😍
“«Siamo sopravvissuti fino a oggi, non ti devi preoccupare per noi.», le risponde serio e tranquillo Boutros.”
Non so cosa provare dinnanzi a questa frase: sollievo perchè i bambini sanno esattamente cosa fare, oppure tristezza per la rassegnazione di una vita segnata dalla guerra?
Spero di aver capito male, ma Alexandra porta cibo a un soldato nemico? Lo aiuta o è complice dei suoi carcerieri? Scusa se ho pensato a questo, ma in un contesto come quello della guerra, coinvolgere bambini non è raro. Complimenti, stai scrivendo un racconto bellissimo, Francesca❤️
Eccomi. Sta portando cibo a un prigioniero, emergerà chiaramente dal pezzo cancellato. Grazie mille per la tua lettura. Quanto ad Android che mi hai suggerito, io non uso ne’ tablet ne’ smartphone e se mi metto a cercare di adattarlo al Mac mi passa la voglia di scrivere. Mi adatterò a Word. Ri-grazie.
Grazie a te🙂
Avrei dovuto aspettarmi il suono della sirena, dato il luogo in cui si svolgono i fatti, eppure mi ha colto di sorpresa. Immaginavo i ragazzini che scrivevano in silenzio e quel bombardamento proprio non me l’aspettavo. È incredibile pensare che qualcuno possa davvero vivere così 😔
I palestinesi sono tanto antichi. Grazie per la lettura e il coinvolgimento.
Un racconto che ispira tenerezza e simpatia verso i bambini, costretti a crescere e ad adattarsi in fretta al dramma dei bombardamenti. Scorrevole, coinvolgente e quasi leggero, nonostante la pesantezza grave nell’aria, soprattutto dopo le sirene che, immergendomi nella lettura mi hanno dato un po’ d’ansia, attenuata dal finale; pur non essendo certa di aver inteso bene da chi e a chi fossero rivolte quelle parole.
Grazie cara, anche per avermi confermato che sono stata abbastanza criptica nel finale del racconto, il che era ciò che volevo. Su di te si può sempre contare.
Bello questo episodio, ho letto con piacere. La giovane maestra, di primo acchito, appare piuttosto saggia, ma aspetto di vedere come si comporta in seguito. Hai un po’ saltato il bombardamento e le reazioni di maestra e alunni, a parte l’addestramento quasi militare di questi ultimi al suono della sirena. Grazie molte per la lettura
Hai ragione sul bombardamento ma non volevo distogliere l’attenzione dall’immagine finale. Grazie mille per l’osservazione e la lettura.