
Riccardo e la contessa
Serie: Per chi suonan le campane?
- Episodio 1: Riccardo e la contessa
- Episodio 2: Emilio
STAGIONE 1
Era decisamente insolito che le campane suonassero a festa di lunedì mattina. Attorno alle nove uno scampanio gioioso aveva coperto il brusio ancora timido del giorno appena cominciato. Per quella data, il calendario liturgico non prevedeva alcuna celebrazione; naturale quindi che il paese intero si domandasse cosa gli si stesse annunciando. Risposte non ce ne furono; in pochi minuti i batacchi tornarono a tacere.
I portali della basilica restavano chiusi e in questo modo pareva avessero dissuaso i fedeli dall’accorrere verso qualche supposta novità. Con ogni evidenza, ciascun abitante doveva essersi fatto l’idea che più che di un falso allarme si fosse trattato di un vero e proprio errore del campanaro. Data questa collettiva conclusione, la prima sensazione di smarrimento non aveva tardato a dissiparsi e la vita aveva presto ripreso il suo corso consueto.
Il sole ancora basso era riuscito a farsi strada nella piazza cittadina stendendo i suoi raggi oltre la porta delle mura. L’umidità della notte manteneva a stento un’ultima traccia, mentre l’aria si faceva più calda e andava a confondersi col profumo avvolgente del pane sfornato. Nei vicoli cominciava ad agitarsi l’ordinario andirivieni e a ciascun incontro le voci dei paesani salivano in uno squillante scambio di saluti.
Non era passata neppure un’ora quando le campane suonarono una seconda volta. Le orecchie tornarono all’erta, tese ora ad una sequenza di rintocchi grevi, scanditi da brevi istanti di silenzio. Benché si trattasse di pochi secondi, era impressione comune che la loro durata si dilatasse, trascinando con sé un’eco vibrante del tocco che li aveva preceduti. Ai primi colpi ne seguirono altri più acuti, trasmettendo un messaggio di suoni puntiformi che annunciavano la mesta notizia di un trapasso. Ciascun abitante del borgo era ben avvezzo a quella forma di comunicazione scampanante, motivo per cui nessuno ebbe difficoltà ad interpretare la serie di rintocchi ancor prima che terminasse. In genere, quel tipo di colpi suggeriva di chiedersi spontaneamente chi fosse morto. Tuttavia, in quel caso fu diverso; la gente non riusciva a capacitarsi di come l’annuncio di una dipartita potesse abbinarsi al richiamo festante di quello stesso mattino. Se un morto c’era davvero, la sua presenza (sempre che abbia senso parlare di “presenza” per un defunto) sarebbe dovuta bastare a confermare l’ipotizzato fallo del campanaro. Sfortunatamente anche in questo non ci fu verso di far chiarezza; di decessi non se ne seppe nulla. Ebbene sì, “decessi” perché, a voler prestare fede alle campane, pareva fossero ben più di uno: prima di mezzogiorno, avevano ripreso a suonare a lutto così tante volte che se non fosse stato per la dubbiosità generale ci si sarebbe messi ad urlare alla strage.
– Mmm, carne fresca… – disse la contessa, fissando il campanile in cima alla collina con espressione improvvisamente cupa. Abbarbicato sulla scala a pioli, Riccardo le rispose dall’alto.
– Non ci avevate fatto caso? È tutta la mattina che non si sente altro. Ad un certo punto mi sono perfino detto “Ma quanti morti abbiamo oggi?!”
Nel dar voce alle sue considerazioni, aveva interrotto la sua ascesa, poggiando un solo piede sul tetto.
Era proprio per il tetto che gli era stato chiesto di arrampicarsi fin lassù: la notte precedente, un violento acquazzone vi aveva aperto delle falle, svegliando la contessa nel pieno del riposo. Senza voler in alcun modo oltraggiare la dignità del suo titolo, si dovrà ammettere che quella specifica circostanza era stata alquanto spassosa. Difatti, più che trasecolare di fronte alle perdite del soffitto, l’anziana signora aveva corso il serio rischio di soffocare a colpi di tosse quando una goccia d’acqua le era precisamente caduta in gola.
Stando a questo fatto, è lecito qui interrogarsi su come la goccia incriminata avesse potuto raggiungere la nobile ugola. Ebbene, per scrupolo di veridicità, sarà presto spiegato che nel farlo non aveva incontrato alcuna difficoltà, trovando al contrario il passaggio ben spalancato. Difatti, per quanto nelle ore di veglia avesse delle maniere posate, la contessa non aveva modo di controllare che fossero altrettanto inappuntabili nel sonno e così finiva immancabilmente per addormentarsi a pancia all’aria e spalancare la bocca in un sonoro ronfo.
Scampata quindi al pericolo di rimanere ridicolmente strozzata e considerati i danni, l’anziana signora aveva subito pensato che Riccardo non si sarebbe di certo sottratto al ripararli, qualora gliene avesse chiesto la cortesia. In effetti, benché non lavorasse alle sue dipendenze, il giovane le si era dimostrato sempre disponibile.
Di un suo effettivo impiego, nessuno sapeva nulla; lo si vedeva salire e scendere per la via principale almeno una decina di volte nell’arco di una stessa giornata. Di solito, il suo saliscendi principiava di buon’ora: nelle case, le finestre a pian terreno ne incorniciavano la figura seduta a cassetta alla guida del vecchio calesse. La sua immagine veniva anticipata da quella delle lunghe orecchie dell’asina bigia, una bestiola piuttosto malmessa, dalla testa aureolata da un nugolo di mosche. Nonostante il misero aspetto, l’animale rivelava una tempra energica e sembrava che per nulla al mondo avrebbe ceduto la sua bardatura.
Aveva accompagnato il padrone anche quel pomeriggio; mentre erano avanzati verso casa della donna, la testa di Riccardo aveva fatto capolino sopra quella dell’asina, ora sì, ora no, a seconda che questa avesse divaricato le orecchie o meno. Bestia e calesse se ne stavano ora posteggiati su una piccola striscia di terra accosto all’abitazione. L’animale guardava alla volta del giovane come a prestare ascolto ai suoi racconti.
– Poco fa, alla fonte, ho sentito fare il nome di Giosuè, il vecchio dei Conciopìo. È da un pezzo che si diceva del suo cuore, ma non credevo che fosse messo così male da farlo zompare dall’altra parte tanto a fretta.
A differenza dell’asina, la contessa non pareva prestasse attenzione a quello scarno resoconto; certo l’udito le si era fatto di anno in anno più debole, eppure, più che non riuscire a distinguere quelle parole, sembrava non ne fosse affatto interessata. Nondimeno, soppesava il ragazzo con lo sguardo, continuando ad annuire.
Rispetto ai fratelli non era molto alto; di corporatura, né grasso, né magro. Sul volto aveva perennemente impressa un’espressione truffaldina, segnata da un velo di lentiggini. Eppure, se da un lato non lo si definiva uno «stinco di santo», dall’altro non gli si riconosceva neppure un’indole furfantesca. D’altronde, non aveva mai fatto sfoggio di una scaltrezza tale da raggirare il prossimo. Non solo: era sempre corsa voce che fosse perfino un po’ tocco. Insomma, un perdigiorno bislacco, ma fuor di dubbio innocuo. Vero è che, nonostante le sue stravaganze, aveva più volte dato prova di un’apprezzabile manualità, ragione per cui si trovava adesso a trafficare sul tetto.
Alla distinta signora lo legava una sincera riconoscenza per aver ripetutamente goduto dei suoi inspiegabili slanci di generosità. Difatti, benché al prestigio del suo titolo non corrispondesse ormai un patrimonio parimenti importante, la contessa aveva voluto viziare la figlioletta di Riccardo sin dalla nascita. A tutti gli effetti, aveva avuto per la bambina le stesse premure che in passato aveva riservato a nipoti e pronipoti. Aveva preso l’abitudine di passarla a trovare settimanalmente e ad ogni visita le portava in dono dolci e giocattoli. Quei regali erano tanto numerosi che il giovane padre si era ritenuto preventivamente ripagato per la riparazione per cui era stato chiamato. Terminato il lavoro, stava dunque accennando ad andarsene con un semplice saluto, quando la donna lo trattenne per allungargli un compenso.
– Ti ringrazio. Ecco a te.
– No, no, contessa – fece Riccardo, agitando le mani aperte davanti a sé e scuotendo la testa – Se qualcuno qui è in debito, quello semmai sono io!
– Non hai nessun debito. Da che mondo è mondo il lavoro deve essere retribuito. Non ammetto rifiuti.
Erano così intenti a patteggiare, quando si accorsero di una sagomina ingobbita che arrancava per la strada. Si muoveva a passi tentennanti, puntellandosi ad un bastone dall’impugnatura tanto ricurva quanto lo era la sua schiena. Man mano che si faceva appresso, un dettaglio della sua persona diventava più riconoscibile. Quando gli giunse a portata di orecchio, Riccardo, identificatolo con esattezza, non trattenne una spontanea esclamazione.
Il monosillabo valeva a didascalia del gesto secco della mano libera con cui aveva puntato al ragazzo uno scaramantico paio di corna. A giudicare dalla fermezza di quella mossa, il cuore di Giosuè non si sarebbe detto tanto stanco da voler lasciare il putiferio dei vivi, a cui pareva invece tenersi ben saldo.
Dimentico della donna che pure gli stava ancora innanzi, il giovane non smise di fissare la figura che si allontanava sulle gambe malcerte. A quel passaggio, la questione gli si sollevava di nuovo in mente: chi era ad aver tirato le cuoia? Riccardo montò sul calesse e prese la strada per la collina.
Serie: Per chi suonan le campane?
- Episodio 1: Riccardo e la contessa
- Episodio 2: Emilio
“chi era ad aver tirato le cuoia?”
Già, chi era? Veramente bello il tuo racconto e soprattutto mi piace come è scritto. C’è un abisso fra il mondo della contessa fatto di parole ricercate e così altisonanti da sfiorare una sana e appena accennata comicità che porta al sorriso e quel linguaggio così grezzo e veritiero del contadino tuttofare. La storia, poi, è curiosa e intrigante. Vedo come finisce 🙂
è davvero convincente il modo che hai di descrivere gli avvenimenti, ti trascina in un luogo dove il tempo assume un significato relativo.
Mi è piaciuto molto il linguaggio che hai usato, ricercato al punto giusto e non convenzionale. Una storia senza dubbio coinvolgente in cui hai saputo dipingere delle immagini molto evocative, come, ad esempio, quella del vecchio che fa il gesto delle corna al giovane.
Molto interessante!