Riflessioni di un terapeuta
Serie: Rimozione
- Episodio 1: Riflessioni di un terapeuta
- Episodio 2: Un bravo fratello maggiore
- Episodio 3: Una situazione anomala
- Episodio 4: Nebbie e incontri
- Episodio 5: La resa dei conti
STAGIONE 1
Avevo questa donna, in terapia, da un paio di mesi. I conflitti con la figlia adolescente stavano raggiungendo quello che lei definiva un punto di non ritorno.
“Letteralmente, dottore. Lo sa che a volte neanche so dove sia?”
Avevo l’abitudine di preparare una tazza di té, o un caffè solubile ai pazienti. Si era rivelata un’idea eccellente, perché talvolta l’espressione di sollievo che si dipingeva sui volti tesi, nervosi, quando mi avvicinavo allo sportello dove tenevo le bustine e il bollitore, era in grado, da sola, di rivelarmi l’entità del peso che erano venuti a scaricare sul divano del mio studio.
Aida, però, era diversa da tutti gli altri. Entrava, sorrideva, e andava subito al punto. Per offrirle quella tazza di té salvavita, per farle accettare quel piccolo rito, avevo dovuto spacciarla per una mia esigenza. Aveva subito accettato, con uno scatto premuroso che, lo confesso, più che commuovermi mi aveva leggermente infastidito.
“Capisco bene che abbia bisogno di una pausa, ogni tanto…”
Mi prese una frenesia di rimbeccarla: che non si trattava di me, ma dei pazienti.
“Non penserà che ci sia qualcosa qui dentro che davvero mi rappresenta! È tutto uno spettacolo per voi, il pubblico pagante…”
Non avrei mai detto niente del genere, ovvio. Con Aida, si era costretti in un perenne stato di leggera ansia: come avrebbe reagito alla parola sbagliata?
In tutta franchezza, non ero affatto sorpreso da quelle ostinate e prolungate fughe da casa, che caratterizzavano la scelta oppositiva messa in atto dalla figlia.
“Negli ultimi due giorni, non l’ho vista per niente…”
Andò a schiantarsi sul divano di fronte a me, con la tazza fumante fra le mani. La stringeva come se volesse assorbirne tutto il calore.
Non aveva torto: per chi arrivava da fuori, in quel principio di autunno nebbioso e cittadino, il mio studio appariva come una specie di oasi, teporoso e morbido quanto un piumino da divano.
Non ho figli. Non riesco ad immaginare di restare sveglio per ore e ore, a masticare lo stesso orrendo pensiero, alla mercé dell’insensatezza di un altro, che cerca di dirmi qualcosa senza dirmelo…
Per carità. Per cose simili, ho i miei pazienti. Ma i figli ti creano dentro un buco nero grande così, che non si sazia mai, qualunque cosa tu faccia.
Lelù, poi, sembrava proprio una professionista del disagio giovanile. Dai racconti di Aida, emergeva quasi un tratto di sadismo, in lei. Non l’avevo mai incontrata, e non sapevo se la terapia avrebbe preso quella piega.
Per adesso, Aida sembrava perfettamente soddisfatta di alleggerire il carico della sua disperazione materna sul divano del mio studio.
Certi pomeriggi, anzi, parlava pochissimo. Si guardava intorno, sorbiva il té, ogni tanto faceva un commento, di solito sui libri allineati nei miei scaffali.
Talora, lo sguardo con cui indagava i titoli a distanza, scorrendoli con gli occhi, e il desiderio che vi leggevo, mi spingeva a proporgliene io stesso qualcuno in particolare.
Quando lo aveva tra le mani, il suo volto entrava in uno stato di tranquilla concentrazione. Sembrava dimenticare ogni cosa, a parte il tempo felice che l’aspettava.
Apparteneva, con ogni evidenza, ad un piccolo e affascinante gruppo di lettori, che ho sempre rispettato a distanza, senza mai trovare il coraggio di chiedere asilo nel loro mondo privilegiato.
Al contrario dei comuni mortali – che, di norma, proprio per questo ricercano il semplice piacere della lettura – costoro non si smarriscono dentro la storia.
Si ritrovano.
Ma non era quello il giorno per le letture.
Spostava gli occhi in qua e in là, senza fermarli su nulla in particolare. Mi parve che tendesse l’orecchio, in alcuni momenti, come se avesse il sospetto che non fossimo soli, che qualcuno ci ascoltasse – magari nascosto dietro la porta chiusa del bagno, o addirittura fuori, sulle scale del pianerottolo.
Fui costretto a chiedere espressamente se ci fosse qualcosa che non andava. Aida subito scattò.
“Qualcosa?! Le pare normale, lo dica lei, che una madre non dorma da due giorni perché quella… quella… carogna si ostina a non tornare a casa?!”
Mio malgrado, sussultai. Non dovrei, lo so. Dovrei sempre mantenere il distacco necessario a consentire ai miei pazienti di sentirsi completamente liberi di esprimere il loro disagio.
Se si accorgono che si comincia a giudicarli, la terapia smette di essere il cerchio magico, all’interno del quale possono essere se stessi.
Ma era davvero particolare, una reazione verbale così aggressiva. Trattandosi di Aida, naturalmente. Avevo sentito ben di peggio, nel corso degli anni.
Le persone dividono il loro mondo interiore tra i buoni e i cattivi, un po’ come un vecchio western. Certe esperienze, come l’amore materno, ad esempio, fanno parte delle cose buone. Difficilmente ammetteranno che possano venire contaminati da sentimenti negativi, come l’insofferenza, o la rabbia.
Tuttavia, chi di noi non ha mai sperimentato, al centro esatto della più perfetta delle giornate felici, quella sensazione di disagio che rischia di comprometterne lo splendore?
La triste realtà è che rabbia, insofferenza, frustrazione e disagio non procedono su binari sistematicamente paralleli alle altre esperienze della vita.
Al contrario: sono, per loro stessa natura, trasversali.
Raramente, se non mai, rispettano i confini di ciò che abbiamo stabilito essere sacro.
Ma Aida era quel tipo di madre che accetta di essere tale solo a scapito dell’intensità di tali emozioni. In altre parole: se vuoi bene a qualcuno, non ci può essere in te alcuna ombra.
Non avrebbe mai ammesso di odiare sua figlia, almeno in misura pari a quanto l’amava.
Capivo benissimo, naturalmente; dal momento che in questo consiste il mio lavoro, capire.
Ma, se posso essere del tutto onesto, questo rendeva le cose assai più complicate.
Inoltre, se lo percepivo io, chissà cosa arrivava a quel piccolo mostro di Lelù.
“Per quale motivo le ha dato questo nome?” chiesi.
In parte si trattava di una semplice strategia mnemonica. Volevo che ricordasse, attraverso la scelta del nome di sua figlia, le incertezze legate al periodo della gravidanza, l’intensità di quello splendore, che dicono sia un’epoca così speciale nella vita delle donne…
Cercavo di ricordarle quanto fosse stata felice nell’attesa di quella figlia, che il nome collegava all’adolescente ribelle di quel periodo.
Ma ero anche sinceramente curioso. Non era un nome comune. Suggeriva un sogno preciso, un’aspettativa concreta sul desino di quella figlia.
Poteva esserci quel sogno, forse mancato, forse semplicemente dimenticato lungo la strada, all’origine della difficoltà di riconoscerla per ciò che era realmente.
Mi muovevo a tentoni, non conoscendo, della mia paziente, null’altro se non ciò che lei mi raccontava, di se stessa e della sua vita.
In altre parole, ero deontologicamente costretto ad attenermi al sogno che lei aveva di sé; e di quel sogno faceva parte anche la figlia, com’è ovvio.
“È il personaggio di un film di qualche anno fa” rispose Aida. Per qualche motivo, abbassò lo sguardo sul tappeto.
Non era fiera di averle dato quel nome.
Beccata! Ho fatto centro!
Dovevo assolutamente capire di cosa si trattasse; ma fui costretto a girarci intorno. Una domanda troppo diretta avrebbe scatenato un riflesso paranoico inconscio di autodifesa.
Se avessi chiesto il titolo o il regista del film, ad esempio, avrebbe pensato che avevo intenzione di vederlo. Sarebbe stato come entrare nel suo soggiorno con gli stivali sporchi di fango.
“Le piace il cinema, Aida?”
I suoi occhi mi frugarono per un istante, cercando le tracce del tradimento che avevo in serbo per lei. Mescolai lo zucchero nel tea, ad occhi fermi. Il mio interesse era tutto per il cinema. Almeno, era questo, che lei doveva credere.
“Sì, dottore” rispose, con voce sognante. Era caduta nella trappola. “Amo il cinema quasi quanto la lettura.”
“Le piace più il cinema d’epoca o quello recente?”
“Non ho preferenze particolari. Una bella storia è una bella storia…”
Accidenti. Non ci sarei arrivato attraverso l’anno d’uscita.
Ok, niente panico. Trappola alternativa.
“Io sono un appassionato di commedie musicali e vecchi film in costume” confessai, con il migliore dei miei sorrisi timidi.
Sgranò gli occhi. Non se l’aspettava. Sorrise, persino. Aveva dimenticato di essere una madre travagliata.
In quel preciso momento, avevamo quindici anni e ce ne stavamo seduti sul tappeto della sua camera, con una canna che girava e grandi discorsi sul mondo com’è, e come invece dovrebbe essere…
“Io quella roba non la reggo!” rise, divertita. “A me piace l’horror…”
Una lieve esitazione, e per un attimo dai suoi occhi fece capolino l’adulto diffidente.
Assecondai il gioco di ruolo. Ero un adolescente, simpatico e un po’ timido, che si era appena lasciato andare ad una confidenza rischiosa, e non ero completamente sicuro che domani non l’avrebbe saputo tutta la scuola.
“Non è che lo racconti proprio a tutti, sa…”
Sorrisi di nuovo. Goffo, buono. Un gigantesco labrador sonnolento, sdraiato sul tappeto.
L’Aida adulta sprofondò rapida nell’oblio. La mia compagna di giochi mi guardava ora con l’assoluta libertà di prospettiva di chi non ha mai superato i quindici anni.
“Ha visto ‘Imago Mortis’, di Stefano Bessoni?”
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Bello questo librick
“Al contrario dei comuni mortali – che, di norma, proprio per questo ricercano il semplice piacere della lettura – costoro non si smarriscono dentro la storia.Si ritrovano.”
Io!
Amo i racconti riflessivi in prima persona, e qui si nota davvero la qualità della scrittura. Bella la prosa tanto quanto il contenuto: incuriosisce e ti tiene incollato al testo. Complimenti soprattutto per le riflessioni su rabbia e frustrazione, presentate come emozioni in grado di “intersecarsi” con gli altri aspetti della vita. Sono sicuro che molti riconosceranno la veridicità di questa considerazione nella loro stessa esperienza di vita, così com’è accaduto a me.
sì, la prima persona permette l’immedesimazione già in fase di scrittura… se non funziona con te stesso, non funzionerà nemmeno con chi legge. condizione necessaria, anche se non sempre sufficiente 🙂
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deve fare paura, no? è lì che abitano tutte le cose vive…
Ehi qui il livello dei racconti si tiene sempre alto!
Grazie per la tua condivisione: una prosa lineare e scorrevole per descrivere un intreccio di coscienze contorto ed intrigante. La pellicola di humor che consente al terapeuta di scivolare attraverso la propria professione non inganna: il soggetto è serio.
grazie giancarlo. al rientro dalle vacanze do il meglio di me XD
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per me è un po’ come la ricerca del santo graal.. non si finisce mai di scoprire cose, personaggi e paesaggi interni… felice che ti piaccia.
Curiosissima di leggere il seguito!
arriva, non temere… speriamo che ti tenga fino alla fine!