Riflesso

Serie: Hýlē


NELLA PUNTATA PRECEDENTE: Un'idea cosmica, affidata a Isen , viene assorbita da Rea tramite uno spartito. Dopo che il suo messaggio innesca il movimento Kairon e il suo amico Dorian viene posseduto , Rea viene catturata. In prigione, Isen le appare chiamandola "madre".

Lo specchio si incrinò. Silenzioso, preciso.

Dalle fessure cominciò a colare un liquido denso, scuro.

Rea lo fissava. Non sapeva da quanto.

Il buio nella stanza non era più solo assenza. Era attesa.

Su quella superficie, luce e ombra si rincorrevano. La realtà sembrava cercare un modo nuovo di mostrarsi. Ogni riflesso, una domanda che non tornava indietro.

Poi, qualcosa si inclinò.

Un suono. Un battito che non apparteneva al tempo.

Il corpo di Rea si mosse da solo.

Un passo, il piede non toccò nulla. Eppure, oltre quel punto, la stanza era solo un ricordo.

Semplicemente, fu altrove.

L’odore era ferroso, sporco. Sangue lasciato a seccare sul cemento arido.

Un singhiozzo. Poi un altro. Il silenzio li inghiottì entrambi.

Una bambina. A terra. Piccola, rannicchiata. Le mani graffiate, le ginocchia sporche di polvere.

Tremava.

Pochi metri più in là, due corpi.

Il padre — o ciò che ne restava — smembrato. Il busto separato dalle gambe. Le dita della mano destra ancora chiuse. Aveva stretto qualcosa di prezioso fino all’ultimo spasmo.

La madre, distesa a terra, la mano tesa verso la bambina. Un gesto a metà, mai concluso.

Una mosca si posò sul polso del cadavere. Rimase lì.

Quella bambina non urlava. Piangeva senza suono. Il rumore, lì dentro, era già stato punito.

Davanti a lei, un soldato. Divisa sintetica. Simboli governativi sul petto. Maschera opaca sul volto. Un’arma puntata dritta alla fronte.

Un respiro.

Poi, due colpi.

Il primo attraversò l’aria come un sibilo spezzato.

Il secondo rimbalzò contro il muro alle spalle, lasciando una scia di polvere fine.

Il soldato barcollò. La maschera si incrinò al centro, poi si inclinò in avanti. Il corpo cadde con un tonfo sordo.

La bambina fu colpita alla spalla. Un suono secco, carnale. Il sangue esplose in un arco silenzioso. Gli occhi si spalancarono, ma non urlò. Si piegò su sé stessa, tremando.

Un’altra figura, in alto. Un’ombra. Un rumore di metallo.

Non vide altro.

Il cielo non esisteva. Solo polvere e luce tagliata.

«Ti sei mai chiesta che peso ha una lacrima?»

Isen era lì. Immobile. Una lama piantata nell’eterno.

Rea lo osservava, vacua.

«Che rilievo può avere nell’ordine eterno delle cose?»

Lei chiuse gli occhi. Quel ricordo non aveva mai smesso di pulsare. Non era mai finito davvero.

Una scheggia che continua a muoversi sotto pelle, fino a toccare il punto più profondo.

E lì, c’era l’altro.

Quello che nessuno aveva visto.

Letti metallici. Stanze bianche. Odore di disinfettante e vuoto.

Aveva quattordici anni. Gli occhi grandi, già vuoti. Le mani strette contro il ventre.

Sapeva.

Aveva portato quella vita per sei mesi.

Generato da uno stupro, quel bambino era l’ultima possibilità di dare senso ad un mondo marcio e corrotto.

Poi, l’aggressione.

Tre figure. Un vicolo. Nessuna via d’uscita. Uno stivale contro il fianco. Una risata.

Poi, il sangue.

L’ospedale non fece domande. Solo firme e anestesia.

Quando si svegliò, non pianse.

Un corvo passò dietro la finestra, non lasciò ombra.

Lei restò immobile per tre giorni. Cercò di porre fine alla sua esistenza.

Non una volta. Quattro.

Pillole. Lame. Immersione. E infine il salto.

Ma ogni volta, qualcosa cedeva. Un’infermiera che rientrava troppo presto. Un nodo che non teneva. Un rumore che svegliava qualcuno. Ogni volta, qualcosa la tratteneva.

Ora tutto cominciò a sembrare più nitido.

Non era fortuna. Né destino. Era un programma già scritto. Deciso in luoghi di cui lei non avrebbe mai potuto avere coscienza. Un margine lasciato aperto.

«Sei stato tu.»

Isen non si mosse. Non negò, non confermò. Ma lei sapeva.

Fece un passo verso di lui.

Il petto fermo. Le spalle rigide. Il cuore gonfio come un nodo.

Poi, crollò.

Le ginocchia cedettero. Le mani si portarono al volto. Non per proteggersi. Cercava di trattenere ciò che non poteva più restare dentro.

Un singhiozzo le spezzò il respiro. Poi un altro.

Ma invece di piangere, rise. Un suono storto, graffiato, più simile a un rantolo.

Le mani tremarono. Si strinse il volto tra le dita. Il corpo iniziò a scuotersi. Non era più pianto.

«Perché…»

La voce uscì rotta, seguita da un conato secco. Un filo di sangue dal labbro spaccato.

«Perché tutto questo male?»

Il silenzio la inghiottì. Denso. Immobile. Sempre più in fondo. Acqua nella roccia.

Resto lì, curva, respirando a vuoto.

«Tu vedi la scacchiera. Il nero e il bianco. Il bene e il male. Pensi che si combattano, che uno debba vincere sull’altro.»

Una pausa. Nessuna emozione.

«Ma non è così. Noi vediamo il disegno. Ogni casella serve… anche quella in cui si soffre.»

Un rumore lontano. Un tonfo sordo, forse immaginato.

Rea sollevò lo sguardo. Gli occhi rossi, gonfi.

«Soffri perché sei tagliata fuori dal tutto. Viva, forse, ma sola.»

Un silenzio denso cadde tra loro.

«Ma non lo sei. Nulla è davvero separato. Quando capirai che sei ancora Uno, anche ciò che ti ha spezzata avrà un senso.»

Non disse altro.

Svanì, come se non fosse mai stato lì.

Lei rimase. Immobile. Nel pensiero del silenzio.

“Che voleva dire?” “Cos’era quella voce?”

Le domande si rincorrevano come ombre senza pareti. Non le sapeva formulare, ma le sentiva. Le abitava.

Il tempo aveva smesso di scorrere.

Buio. Eternità silente.

Poi, una luce. Sottile.

Un unico raggio, senza fonte. Scese su di lei.

Non scaldava. Non accecava.

Rivelava.

Serie: Hýlē


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