Sala d’attesa
Ci sono posti che mai avresti immaginato di dover frequentare e conversazioni che non credevi di dover ascoltare un giorno. Speravo che fosse meno affollato, ma non tanto perché mi trovo ad alzarmi per lasciare la sedia a chi ha più bisogno, ma perché dietro gli sguardi e i silenzi di coloro che non conversano, so che si celano le storie più disparate, per certi aspetti sicuramente simili alla nostra, ma anche diverse, non tanto classificabili per patologia, ma perché tremendamente influenzate dal modo di ciascuno di subire certe situazioni. Quelli chiamati per nome vengono qui da tempo, è difficile inquadrare i primi appuntamenti, poi ci sono i figli, smarriti come me, in piedi, seduti, che scorrono col dito il cellulare, che si guardano intorno, che sospirano. Ogni tanto si apre una porta, si intravedono braccia e fili, poltrone e flebo. C’è caldo: perché siamo tante persone? Perché è freddo fuori? Perché non so quanto dobbiamo aspettare e per sentirsi dire cosa? L’infermiera chiama per fare una fotocopia “È la prima volta che venite qui…?” Annuisco e penso e prego affinché sia anche l’ultima: tutto dipende da quel benedetto responso, già il professore ha detto che non è andata male, di fatto anche l’intervento, benché più lungo del previsto, alla fine è filato liscio. Sospiro, ho ancora caldo, guardo mio padre e non so cosa pensare, non riesco a capire se veramente si sia reso conto di quel che ha passato e di quel che rischia di dover passare. È silenzioso, la sua sordità gli impedisce di cogliere le conversazioni, le stesse che a me invece stanno facendo salire l’ansia: “Qui si sa quando si arriva, ma mai quando si esce”, “Noi è dalle sette di stamani, ma senza il risultato delle analisi non so se le faranno o meno la terapia”. Una signora mi guarda, un po’ tutti si scambiano sorrisi di solidarietà, lo faccio anch’io anche se non conosco ancora questo mondo e, anzi, spero con tutto il cuore di non doverci entrare, soprattutto per lui, ma anche per me. Da sola, da sola a gestire un problema così grande, con lui che a volte sembra un bambino capriccioso, come tutto gli anziani. Mi manca mia madre, mi manca anche se so che se ci fosse stata ancora, probabilmente, sarebbe stata poco di aiuto, probabilmente ancora afflitta dall’altra malattia, che se l’è portata via dieci anni fa. “Lei è figlia unica?” rispondo di sì, figurarsi se ho voglia di spiegare in questo contesto che avevo un fratello, anche lui andato… Per far cosa, farmi compatire da chi forse di compassione ne ha più bisogno di me? La morte e la malattia per ora mi hanno circondato, ma fortunatamente senza sfiorarmi, intendo nel fisico, perché l’anima, invece, sì che me l’hanno colpita e a più riprese. “Il male del secolo” ora mi rimbalza in testa questa definizione, questa cavolo di sala d’attesa senza finestre è piena, piena di persone di tutte le età, ad alcune delle quali l’età non si sa dare, perché rassegnate, spaventate, sfinite. Glielo si legge negli occhi, nei corpi, ad alcune nelle parrucche. Alla ricerca di un pensiero positivo la mente mi cade subito sui sorrisi dei miei bambini : quanto tempo ho sottratto loro ultimamente, i viaggi da casa all’ospedale durante il ricovero, le visite, tutte le sere un passaggio da casa sua per monitorare la situazione, nonostante gli aiuti a pagamento. “Lo sai, nonno non è stato bene e lo devo aiutare”, ma il cuore a otto e cinque anni chiede che mamma ci sia sempre e, per quanto i cervelli siano vispi e attenti a quanto accade, si accetta male che io non corra ad ogni “Mammaaa”. “Venga signora, il dottore si è liberato”. Avevano detto che ci sarebbe stato da aspettare, ma sono state le tre ore più lunghe della mia vita e ancora mi manca l’aria, anche se ogni tanto sono uscita nel corridoio per farne una boccata piena, per poi rituffarmi in quell’oceano di attesa. L’oncologo si è mostrato fin da subito essere una persona cordiale e per bene, non so se per natura o per i necessari corsi sull’empatia, che sicuramente avrà dovuto frequentare. Legge la fotocopia fatta prima dall’infermiera “Direi che sarà sufficiente fare una tac di controllo tra circa tre mesi, niente chemio”. Mi sento salire le lacrime agli occhi, mio padre impassibile, forse non ha sentito bene, forse continua a stare in quel mondo tutto suo, fatto della superficialità e del fatalismo con cui ha affrontato il tutto. Ringraziamo e salutiamo: adesso mi sento tremendamente in colpa nell’attraversare questa sala. “Noi siamo fortunati, nella sfortuna fortunati…” Questo è quello che ora mi echeggia in testa. “Arrivederci!”, l’infermiera non sa che non dovremo tornare. “Arrivederci” mento.
Avete messo Mi Piace3 apprezzamentiPubblicato in Narrativa
Commuovente e realistico. Hai toccato i punti giusti per far si che il lettore si trovi davanti tutta la scena, realistica quanto dura.
Silvia,
esistono stanze bianche con pareti bianche, nascoste negli anfratti più bianchi e reconditi di ospedali bianchissimi perché troppo bianco può accecare la monotonia sensibilità della gente.
In queste stanze, sedie bianche galleggiano su una secca: un colpo di vento a destra ed è abisso, uno a sinistra ed è salvezza in un porto sicuro.
Bianchi destini che boccheggiano in un mondo macchiato di bianco.
Per colorare certe stanze con i toni della speranza serve carattere, sensibilità ed infinito tatto.
Tu, con il tuo stile caldo ed emozionale, hai reso onore a chi attende con fierezza il giusto colpo di vento.
Bravissima come sempre.
“monotona sensibilità”, ovviamente :-).
Che dire? Hanno già detto tutto le tue parole e quello che non hanno detto, lo hanno fatto intuire. Racconto grondante di emozioni, nette, delineate e dense dove ogni tua parola ha un peso ben preciso. Ho sentito tutto quello che volevi trasmettere e con te, ho tratto un sospiro di sollievo sul finale.
Brava.
Alla prossima lettura.
Grazie Raffaele, parto dal presupposto che mi riesce scrivere solo di cose che mi toccano nel profondo, sia in positivo che in negativo.
Una storia breve raccontata con realismo ed empatia. Parole in cui ognuno si può ritrovare per colpa del”male del secolo” che uccide legami, certezze ed a volte speranze. Un racconto che è specchio della nostra società, espresso con parole semplici e molto coinvolgente. Complimenti all’autrice
Grazie Faby Fabiana, mi succede spesso di vivere situazioni e al contempo “scrivermele in testa”, farle diventare storia, per esorcizzare, per imprigionarle su carta… O sullo schermo :). È il caso di questo racconto
In giornate come queste, in cui si tocca da vicino il calore delle persone care, una storia così viva e piena di speranza riesce a penetrate a fondo, dalla prima all’ultima parola, l’animo del lettore. Purtroppo questi luoghi di dolore esistono, fanno parte della realtà, non serve fare appello alla fantasia di uno scrittore per immaginare delle vite in sospeso. Grazie per aver condiviso questa storia.
Grazie mille a te Tiziano per aver dedicato del tempo al mio scritto, vuole essere un omaggio a tutti i resilienti che affrontano le difficoltà “vere” della vita e vanno avanti, nonostante tutto. Per mia natura cerco sempre di vedere il bicchiere mezzo pieno (fortunati nella sfortuna) e lo suggerisco come tecnica di sopravvivenza in tempi duri un po’ per tutti 😉