Sanguigno

Tutto ebbe inizio da una penna di falco che lui aveva trovato per terra, mentre che saccheggiava la torre di un incantatore matto e solitario rinchiuso lì sopra da duecento anni.

Se l’era intascata prima che il vento afoso -chiamato a grandissima voce dagl’incendi- gliela rubasse al volo, senza che nessuno lo vedesse, ed era tornato dalla sua banda di deficienti in schiamazzo attorno al Falò.

Avevano pigliato, quella volta, un forziere pieno di chincaglierie in mercurio e stagno, quasi nulla da mangiare, e gli appunti stregati che la vittima della loro scorribanda si era preso in anni di studi e ricerche.

Ma Pùgalo -così si chiamava- che come tutti i goblin era abituato a morire di fame e stenti, non era avvezzo alla lamentela. Al contrario di tutti, lui era cresciuto schiavo sotto la guida di un mastro vasaio, che lisciava la creta nelle mescolanze segrete del suo mestiere, il quale gli aveva insegnato a leggere e scrivere dalle più belle pergamene che il suo padrone riusciva a procurarsi dai vagabondi che avevano la pretesa di farsi chiamare poeti e trovatori.

Quando poi quel disgraziato morì per lo scoppio del forno, Pùgalo se ne andò in cerca dei suoi pari, perché sentiva d’aver le mani troppo delicate – ma piene di prurito alla rissa, alle ruberie e a tutte quelle cose che fanno storta la schiena dei goblin.

Questi li aveva trovati che facevano spola attorno a un reame desolato, per vizio e per necessità come fanno sempre, nella speranza di arricchirsi o almeno fare a botte con qualcuno più grosso da menare o servire.

Lo sgamarono quella sera stessa, al chiaro di luna e candela, che leggeva i cartigli rubati e ne saggiava la meraviglia nelle parole più belle ed eleganti, mentre che a penna e calamaio se le ricalcava sui fogli suoi per comporre canzoni in diesis fra parolacce e ritornelli ottusi.

Lo videro e lo beffeggiarono nella stessa umiliazione che somministrano gl’ignoranti a quelli che li fanno sfigurare nella logica e nel parlare:

“Non ci serve a niente un paroliere -gli dissero-. Sei la vergogna fra tutti i nostri affari. Vattene a fare versi da qualche gambelunghe, damerino! E facci la cortesia di togliere quel muso verde lontano da noi!”

Tale fu il loro commiato.

Si allontanò fra le sassate dei suoi, e nessuno di loro lo vide mai più.

Quella penna di falco che aveva trovato, così bella e preziosa, fu strumento primo della sua grande solitudine: lo accompagnò bagnandosi d’inchiostro prima e sangue poi, quando il primo era finito, e i suoi sonetti rossi toglievano il respiro dalla grande bellezza che si era cavato a forza dal cuore.

Trovò riparo oltre le mura di una città cosmopolita, dentro cui s’azzuffavano le vite di tutti per sopravvivere, e tornò servo di un solingo mastro vetraio che lo aveva sconfitto a scacchi fuori dalla sua bottega.

Imparò le miscele dei colori, l’arte sacra delle rifrazioni e delle figure sante, lo spessore e la fragilità dei suoi lavori; e da quel suo nuovo sapere sgocciolò una poesia più bella dell’altra negli astratti pensieri del tempo che passa anonimo.

Il suo padrone lo scoprì: di nascosto lesse il frutto delle sue fatiche e pianse per l’animo gentile di quel mostriciattolo che zompettava nel suo laboratorio affaccendandosi qua e là.

Cominciarono ad apparire allora le sue virgole e punti, appese ai pali e ai muri della città cosicché tutti potessero leggere e piangere.

Da ogni parte si prese a parlare di questo poeta sconosciuto, che tutti chiamarono “Sanguigno” per via del rosso che tingeva su carta e il re, ch’era uomo indomito e scaltro, lo mandò a cercare: sua figlia se n’era innamorata perdutamente, perché ne aveva fatto un libriccino pieno zeppo e se lo stringeva al cuore tutte le sere nella speranza di conoscere quella finissima penna senza volto.

Quel poeta così curioso e capace era un esserino brutto, gobbo, col naso lungo e storto, dalle lunghissime orecchie a punta, incoerente perché scostumato, verde come un’oliva verde.

E poiché s’era indetta una caccia all’uomo per trovarlo, lui fuggì dalla città e non tornò più.

Trovò riparo fra le impervie scogliere che stanno di là delle terre desolate, dove avrebbe finalmente potuto scrivere la sua opera migliore, l’ultima, prima di morire di fame e stenti.

Parlarono ancora e sempre di Sanguigno; per ogni dove venne conosciuto come la penna più straordinaria fra tutte: si ricopiarono i suoi lavori e qualcuno se ne pigliò il merito sposando poi la figlia del re.

Nessuno, ad oggi, scoprì che quei dolori in parole e sangue, le aveva scritte un maledetto goblin.

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Discussioni

  1. Amando il genere fantasy, ho trovato questo racconto davvero originale e molto profondo. Anche il linguaggio utilizzato e il tono, a tratti un po’ rozzo, si sposano perfettamente con il protagonista della storia.
    La fine è stata molto triste. Povero goblin…
    Le persone non sanno apprezzare un’opera senza sentire il bisogno di conoscere anche l’artista, che poi, magari, finiscono per giudicare, influenzando il loro giudizio su tutte le sue opere.
    Infatti, molti artisti del passato hanno scelto di mantenere l’anonimato. Sarà per questo motivo?
    Secondo me, sì.
    Grazie per questo racconto!

  2. Mi è piaciuta l’idea di ribaltare, per una volta, i ruoli, dando onore, per così dire, ad una creatura, il goblin, che, solitamente, non appare tra i buoni delle storie fantasy.
    La storia è molto interessante e si fa leggere agilmente.
    Bravo.