Si scrive malattia si legge libertà

Lucia si era svegliata con la gola in fiamme e le ossa doloranti, come se avesse corso tutta la notte in un sogno che non ricordava. Il primo pensiero, immancabile, fu il lavoro. Non i colleghi, non un progetto, non la possibilità di fare qualcosa di utile o stimolante: solo la noiosa incombenza di dover chiamare e dire la frase più bella di sempre. “Oggi non ci sono.”

Compose il numero con svogliatezza e ansia insieme: non voleva parlare con il superiore, ma andava fatto. La voce le uscì roca, spezzata. Dall’altro capo, un silenzio breve e poi un “va bene, rimettiti” pronunciato senza alcun reale interesse. Nessuna domanda su come stesse davvero, nessuna preoccupazione sincera, perché pensò tanto tutti siamo sostituibili vero? La linea cadde e si sentì subito più leggera. All’improvviso la giornata le apparteneva. Non doveva a nessuno la sua presenza, non doveva fingere energia. Era una giornata strappata, quasi rubata, a quell’ingranaggio che la teneva incastrata ogni santo giorno. Lucia era caduta nella spirale distruttiva dei pensieri sul lavoro come metafora di schiavitù e cominciava a pensare che forse quell’indebolimento del corpo era un segnale del corpo che le comunicava di ribellarsi.

Si accorse che era mattina. Una vera mattina, con il sole che filtrava dalla finestra e disegnava quadrati luminosi sul pavimento. Quella luce, che di solito vedeva solo nei giorni liberi — e a volte nemmeno allora — sembrava chiamarla. Di solito, a quell’ora, era già rinchiusa sotto lampade artificiali, in spazi dove il tempo non aveva colore. Non ricordava da quanto non si fermava semplicemente a osservare il cielo e i suoi confusi cimbri.

Andò in cucina. La moka, con il suo borbottio familiare, riempì la stanza di un profumo confortante. L’aroma del caffè si diffuse piano, senza quella fretta di solito necessaria per berlo in piedi, infilarsi le scarpe e correre fuori. Si concesse il lusso di sedersi, di avvolgere le mani attorno alla tazza bollente, di guardare il vapore dissolversi. Ogni sorso era lento, meditato. Era come se assaporasse per la prima volta qualcosa che da tempo beveva meccanicamente.

Dopo aver bevuto il caffè più gustoso degli ultimi cent’anni, ascoltò il silenzio della casa che la spinse verso il libro lasciato incompiuto sul comodino. La rilassatezza e la calma nei suoi passi verso il libro le provocarono un sorriso di soddisfazione. Lo aprì con un senso di sacralità, come se fosse un testo antico e abbandonato alla polvere, e in un certo modo lo era. Lesse due pagine, poi la vista le si annebbiò per la febbre e dovette chiuderlo, ma si accorse di essere felice. Non le importava di ricordare i dettagli, ma di aver ritrovato il gesto. Un contatto con sé stessa che la routine quotidiana aveva cancellato.

Si guardò le mani ferme sul tavolo. Mani callose in certi punti, screpolate in altri, mani che stringevano attrezzi sempre per conto di qualcun altro. Oggi, invece, non erano al servizio di nessuno. Restavano immobili, finalmente libere.

La febbre le dava tregua a momenti. Così decise di aprire la finestra. L’aria fresca la colpì in volto: pungente, un po’ crudele sul corpo indebolito, ma viva. Si appoggiò al davanzale e restò a osservare. Una donna portava a spasso il cane, trascinandolo quando si fermava a fiutare ogni albero. Un vecchio trascinava lentamente il carrello della spesa, con il passo misurato di chi ha imparato a non avere fretta. Due bambini correvano verso la scuola, con le cartelle che rimbalzavano più grandi di loro.

Era un pezzo di mondo che non vedeva mai. Un teatro quotidiano che, nei suoi giorni di lavoro, le restava invisibile. E provò una punta di invidia. Non per le vite degli altri, che sapeva piene di difficoltà, ma per la libertà semplice di camminare al sole del mattino. Lei, invece, passava le sue ore chiusa dentro, barattando il tempo più prezioso in cambio di uno stipendio che non bastava mai: né a viaggiare, né a imparare, né a concedersi davvero qualcosa.

Un colpo di tosse la costrinse a rientrare. Prese un pentolino e con ciò che aveva in dispensa preparò un brodo caldo. Tagliò lentamente una carota, spezzò il sedano, lasciò scivolare i pezzi nell’acqua fumante. Ogni gesto aveva una lentezza nuova, quasi rituale. Non c’era orologio che la spingesse a fare in fretta. Quando si sedette a mangiare, ascoltò il cucchiaio che batteva piano sul piatto, e si accorse che quel piccolo rumore la calmava più di mille parole.

Dopo pranzo si avvolse in una coperta e si sedette al tavolo. Non riusciva a scacciare un pensiero che da tempo le girava in testa. Il lavoro. Non tanto l’assenza di oggi, ma la possibilità di un’assenza più lunga, definitiva. Non era lì da molto in quell’azienda, eppure bastava: aveva già visto abbastanza. Non c’era futuro, non c’era dignità. Solo stipendi tirati al limite e giorni venduti al minor offerente.

Tirò fuori un foglio bianco e lo fissò a lungo. Il cuore prese a battere più forte, come se fosse sul punto di fare qualcosa di proibito. Impugnò la penna e scrisse le prime parole, secche, burocratiche: “Con la presente rassegno le mie dimissioni…”

Si fermò. Quelle poche righe sarebbero già bastate, se si fosse trattato di un documento reale da consegnare. Ma non era solo un foglio da protocollare. Era un dialogo con sé stessa. Una resa dei conti.

Continuò a scrivere. Le frasi si allungarono, si fecero personali, sincere. Scrisse della stanchezza accumulata, della sensazione di sprecare la vita, di quanto fosse ingiusto scambiare il proprio tempo, il bene più prezioso, per una paga che non permetteva nulla oltre la sopravvivenza. Non scriveva più a un capo, ma a sé stessa, per ricordarsi chi era e cosa desiderava.

Alla fine, chiuse con una frase che le uscì quasi da sola:

“Preferisco il rischio di vivere male da libera che sopravvivere prigioniera”.

Posò la penna. Il foglio tremava appena sotto le sue mani, bianche di febbre. Lo rilesse senza correggere nulla. Non sapeva se l’avrebbe mai consegnato, ma sapeva che il gesto era già accaduto. Quella lettera esisteva, e con lei esisteva la possibilità concreta di cambiare.

Restò a guardarla sul tavolo, come fosse una finestra aperta su un futuro diverso. Per la prima volta da mesi, forse da anni, non si sentiva solo stanca: si sentiva viva.

Si alzò, avvicinò la sedia alla finestra e restò a osservare il sole che scivolava verso il pomeriggio. Le pareti si tingevano di arancione, e l’aria aveva un odore di terra e foglie. La vita fuori continuava, e per un attimo si concesse di crederci: che anche la sua avrebbe potuto cambiare direzione.

La febbre tornò a crescere, costringendola infine al letto. Si sdraiò con la lettera accanto, sul comodino, come fosse un talismano. Prima di chiudere gli occhi si sorprese a sorridere, di nuovo. Non era più solo una giornata rubata al lavoro. Era stata una giornata restituita a sé stessa. E in quel sonno febbricitante, con il corpo che cedeva e la mente che resisteva, si portò dietro una promessa: non avrebbe dimenticato quella luce del mattino, né la possibilità di dire davvero addio a un lavoro e a un tipo di vita che per lei non avevano mai avuto senso.

Avete messo Mi Piace2 apprezzamentiPubblicato in Young Adult

Discussioni

  1. Ho apprezzato questo giorno di libertà, come lo hai descritto e il valore che hai saputo dargli. La scorrevolezza e la dolcezza usate mi fanno dimenticare il lato utopico del desiderio di Lucia di riappropriarsi della gestione della sua vita. Sono convinto che l’unità di misura del benessere non sia il denaro ma il tempo per se stessi. Purtroppo i lavori che propongono un compromesso accettabile tempo/denaro non sono molti e una delle migliori soluzioni è lavorare per se stessi, ma anche così non è facile. Auguri a Lucia e un complimento per la bella scrittura a te.

  2. Davvero un bel pezzo. Misurato nei toni, ma carico di emozione, ci sono descrizioni efficaci che non sconfinano mai nel prosaico. Poni un accento su ciò che per molti è “pura normalità”, l’oppressione di un’azione ripetitiva senza alcuna passione, fatta solo per sopravvivere. E poi, d’un tratto, esce qualcosa: una mera potenzialità; forse solo un’illusione… che però è in grado di restituire un sorriso. Ciò che arriva chiaro è che ogni ferita è importante e necessita di una cura. Ho letto proprio con piacere, grazie.

  3. Un bellissima riflesione. ​La malattia di Lucia diventa la scintilla che le regala una giornata di libertà, durante la quale riscopre i piaceri lenti che il lavoro le aveva sottratto. L’introduzione mette subito in luce il conflitto interiore, mentre il corpo centrale è una meditazione sulla dignità perduta. Mi è piaciuta. Una lettura molto scorrevole