
Stanza 2411
Serie: La comunità dei sogni lucidi
- Episodio 1: Stanza 2411
STAGIONE 1
Sono le 7.15 nel penitenziario di Bradbury.
Sono le 7.15 in ogni parte del mondo, salvo differenze dipendenti dal fuso orario.
Qualcuno dorme, qualcuno si accinge a farlo.
Qualcuno mangia, qualcuno prega, qualcuno scopa. Qualcuno muore.
Owen è vivo e apre gli occhi all’interno della cella 2411, una singola con vista parcheggio e i muri affrescati con la muffa di quasi settantasei anni di lenta e inesorabile fioritura, mal coperta da una superflua imbiancatura con della vernice bianca troppo diluita.
Li apre lentamente, come da otto anni a questa parte.
Li apre piano nella speranza di scoprire che si tratta solo di un altro gran bel sogno di merda. Piano come quegli invasati con i gratta e vinci che grattano un numero alla volta, adagio, quasi la fortuna abbia bisogno d’essere corteggiata a lungo prima di riuscire a ottenere da lei un dolce, dolcissimo bacio.
Spera che la realtà che a poco a poco si scopre tra le sue ciglia lo riporti ai suoi sedici anni, al suo letto con le coperte del Signore degli Anelli e a quei suoi pochi, stupidi e ordinari problemi.
«Merda.»
Il sole sta pazientemente iniziando la sua risalita verso l’alto e della finestra della cella, molto simile a una feritoia per dimensioni, filtra una calda luce gialla che minuto dopo minuto riempie lo spazio come acqua dentro a una vasca.
Il livello si alza, si alza e si alza, Owen si lascia sommergere mentre i suoi occhi scappano fuori, fin sui rami di una quercia poco al di là della sua gabbia.
È giugno, l’albero è appesantito dai migliaia di germogli che tra non molto saranno ghiande.
Li guarda, ne invidia la libertà di poter crescere seguendo la loro natura, sfiorati dal vento e senza nessuno che ne limiti ciò per cui sono nati.
Manca un quarto d’ora al giro della colazione, come ogni giorno si ricorda che forse sarebbe il caso di fare del movimento, perché da quando è entrato lì dentro ha accumulato tanto di quel grasso che a volte la notte si sveglia in cerca di aria, quasi strangolato dal suo stesso collo.
Ma non lo fa, non fa nulla.
Da sdraiato prende in giro se stesso iniziando una serie troppo corta di addominali, al quinto si ferma e pensa, continuerò.
Ma gli occhi tornano alla finestra, la mente ai germogli e il cuore al buio che lo abita da non sa più quanti giorni.
E allora la forza di volontà diventa un fiammifero acceso sotto una pioggia battente. Pff.
Si alza dal letto per trascinarsi fino al cesso.
Non serve fare molti passi, la cella è un buco di culo che non supera i nove metri quadrati.
Un letto appoggiato alle sbarre dalla parte della testata, una scrivania in ferro saldamente ancorata al pavimento, un gabinetto e un piccolo lavandino, in cui persino l’uomo con le palle più piccole del mondo farebbe fatica a farsi un bidet.
Si siede dopo aver lasciato cadere distrattamente i pantaloni, poi lo sguardo diventa assente ma fisso davanti a sé.
«Ehi Walker, stronzo, che cazzo hai da guardare?»
La voce lo colpisce come una sberla sull’orecchio, gli rimbomba in testa da parte a parte.
Davanti ai suoi occhi, ciechi fino a pochi secondi prima, vede la faccia di Calwin, uno dei detenuti più anziani. Anche Calwin ha le chiappe appoggiate sul cesso, e a giudicare dal rossore del suo viso sembra avere problemi di stitichezza. La sua cella è dalla parte opposta del corridoio, stessa altezza di quella in cui sta Owen. Non è la prima volta in cui i due si ritrovano faccia a faccia, come se stessero portando avanti una complicata partita a scacchi.
«Scusi signor Calwin, mi ero incantato.»
Questo è forse ciò che Owen soffre di più da quando è dentro. La mancanza di privacy, la continua esposizione agli sguardi degli altri detenuti.
Attraversare il giardino del liceo non gli sembra più una delle cose più difficili al mondo, adesso.
«Beh vedi di svegliarti, ragazzino, o aprirò quel tuo culo in due esattamente come il mattone che sto cagando adesso sta facendo con il mio!»
«Scusi signor Calwin, scusi, non succederà più!»
«Sarà meglio per te e per il tuo culo, maledetto guardone.»
Owen è seduto da qualche minuto e da lontano sente il rumore di vecchie ruote che cigolano, sta arrivando Emanuel ‘Manny’ Jones con il carrello della colazione.
Manny è uno con la faccia da bravo ragazzo, uno che lo guardi e dici, amico, che cazzo ci fai qui dentro?
Poi scopri che l’amico deve farsi altri ventitre anni perché ha ucciso il padre con diciannove coltellate; la prima quasi per sbaglio, le altre diciotto con grande, grandissimo piacere.
Però se sei uno a cui piace chiacchierare e hai cinque minuti da dedicare al piccolo Manny – tocca il metro e sessanta quando sta su bello dritto – scopri anche che il padre era un pezzo di merda che si divertiva a picchiare la moglie un giorno si e uno no, e i giorni in cui faceva riposare le mani, teneva occupato l’uccello, scopandosi qualsiasi cosa gli capitasse a tiro, purché non si trattasse della madre di Manny.
Owen cerca di rimettersi in piedi nel minor tempo possibile. Ha confidenza con il detenuto Jones, ma farsi vedere da qualcuno mentre è seduto sul cesso è una sensazione spiacevole che la vita in prigione non ha cambiato.
Nel frattempo dall’altro lato del corridoio Calwin continua a fissarlo con la sua faccia paonazza, le mani a stringere talmente forte sulle ginocchia da tingere di bianco i polpastrelli. Sembrava avesse a che fare con ben più di un mattone.
Il carrello è ormai quasi davanti alle sbarre della cella di Owen, tre brocche in acciaio contengono rispettivamente latte, caffè e succo d’arancia. Il latte è allungato con l’acqua, il caffè ottenuto riutilizzando fondi già esauriti e il succo, beh, il succo è verde. Grazie fondi pubblici, grazie amministrazione, alla vostra.
Manny spinge a fatica, una ruota delle quattro su cui poggia il suo piccolo chiosco autorizzato è rotta, lascia per terra graffi bianchi. Sembra che lungo il corridoio qualcuno sia stato trascinato via mentre cercava di aggrapparsi con le unghie al pavimento liscio.
Si ferma, causando mare grosso all’interno delle brocche, poi volge lo sguardo all’interno della cella.
«Cristo santo Owen, non riesci a cacare prima del mio giro? Sento la puzza di merda fino a qui!»
La faccia si trasforma in una smorfia di disgusto, accartocciata quasi fosse un volto di plastilina finito sotto la suola di una scarpa.
«Tirati su i pantaloni, possibilmente senza mostrarmi quel tuo biscottino, poi lavati quelle mani luride e vieni qui a prendere la colazione. Voglio allontanarmi da questa puzza il più in fretta possibile, amico.»
Owen decide che va bene così, si è pulito abbastanza. È una scommessa, non ne è affatto sicuro.
La striscia di merda sulle mutande è altamente probabile.
Si alza i pantaloni della divisa, si avvicina alle sbarre e le stringe con entrambe le mani.
Manny afferra il mestolo con cui serve a tanti piccoli Oliver Twist il rancio, carica il braccio e colpisce le dita della mano destra di Owen. Non troppo forte, sembra un fratello maggiore che le suona al fratellino più piccolo, ricordandosi che dopotutto quest’ultimo non è poi così male.
«Ma che cazzo, Manny! Cos’hai in testa? Ahi!»
«Devi lavarti le mani, sudicio, lercio, schifoso! »
Colpisce ancora, questa volta le sbarre, causando un boato metallico che finisce di svegliare quella parte di detenuti ancora addormentata nel proprio letto.
Owen saltella e scuotela mano, quasi a voler scrollare via il dolore.
«Io con questa mi ci sego, stupido coglione! Lo farai tu se mi si rompe? Per me non è un problema signor Jones, mi basterà chiudere gli occhi e tapparmi le orecchie!»
Emanuel Jones ride, lo fa con una di quelle risate praticamente afone, di chi ride di gusto.
«Lo perderei tra le dita, quel biscottino! Ammesso lo riesca a trovare, sotto quella pancia e tutto quel grasso!»
Continua a ridere, però intanto infila il mestolo nella brocca del latte.
«Oggi latte e biscotti, amico!»
«Biscotti? Non ci sono mai i biscotti! La cosa più solida che ho infilato in bocca durante le colazioni a Bradbury è stata una blatta che nuotava nel caffè.»
Manny tira fuori dal ripiano inferiore del carrello una confezione di cartone rossa. Su uno dei lati più lunghi c’è il volto di un ragazzino vestito da boyscout.
«Ringrazia questo piccolo bastardo e i suoi amichetti. Quest’anno gli scout del paese hanno battuto la fiacca o hanno scoperto il piacere dell’alcol, hanno un avanzo di un centinaio di scatole che non riusciranno a vendere prima della data di scadenza. E indovina quali porci faranno festa? Noi!»
«Dio, è da prima che entrassi qui che non mangio un biscotto.»
Visibilmente eccitato, si riavvicina alle sbarre dimenticandosi del pericolo mestolo, come un topo che corre verso il formaggio dimenticandosi della tagliola.
«Guardati, scommetto che ce l’hai duro. Cristo santo Owen, datti una calmata, non è una bella figa quella che ho tra le mani.»
Manny infila la mano dentro la scatola, la estrae chiusa a pugno, gonfia di due, tre, forse quattro biscotti.
Serie: La comunità dei sogni lucidi
- Episodio 1: Stanza 2411
E’ un brano Pulp che mi ha ricordato i racconti di prigione di Edward Bunker. Apprezzo la scelta unica ed originale di ambientare la storia in una location unica, ci vuole un world building che richiede tecnica e il racconto scorre molto, seguirò la tua Serie!
David, grazie mille!
È qualcosa di molto diverso da ciò che scrivo di solito, in effetti. Avevo questa storia in testa ormai da mesi e spero riuscirò a raccontarla nel migliore dei modi.
Ciao ❣️ idea interessante. Aspetto il seguito. 😀
Grazie mille, Lola! 😀