Stazione termini

Serie: Stazione Termini


NELLA PUNTATA PRECEDENTE: Francesco un ragazzo irrequieto e profondo che ha scelto una ribellione resiliente, incontra a Roma, Serena e la sua amica Cinzia, l’una il contrario dell’altra, la prima profonda e a modino, la seconda artistica e anticonformista, entrambe però non sfuggono alla tristezza e al mal di vivere

Roma, Stazione Termini, un giorno di giugno caldo e rovente, sporcizia, cartacce a terra e scritte sui muri, auto che sfrecciano, moto che zigzagano, monopattini elettrici che arrivano all’improvviso – chi razzo ha potuto inventare un simile aggeggio. – Così dice a sé stesso, Francesco, appena sceso dal treno.

Lui ha 19 anni, capelli ricci e scuri, non molto alto, piacevole d’aspetto, né perbene, né modaiolo, né scafato, ma normale, ordinario, regolare, proprio per questo lo si nota, per il suo aspetto tranquillo, mentre tutti corrono, lui lento, quasi indolente porta a spasso i suoi occhi neri, profondi, insondabili e sfuggenti, come palle che bombardano scintille di verità e di sofferenza.

Oggi va di moda apparire un po’ strano, un po’ diverso, con gli anfibi anche con 40 gradi, i capelli verdi o annodati in lunghe trecce rasta, si veste in déshabillé ma deve essere rozzo e selvatico, oppure si indossano abiti da finto campagnolo con le ciabatte Birkenstock ai piedi scopiazzando gli inglesi o i nobili decaduti, poi ci sono i presunti eleganti col vestito a giacca talmente stretto e corto da sembrare quello della Cresima, con ai piedi le babbucce alla Briatore, seguono gli strani del vestiamoci più bizzarro che si può e poi ultimi ma non ultimi i tatuati, sembra che l’Italia sia il paese più tatuato del mondo, più dei Maori della Nuova Zelanda.

Francesco, indossa un paio di jeans con una polo color carta da zucchero e ai piedi ha un paio di scarpe nere in pelle leggera, le cosiddette scarpe estive di una volta, non appartiene a nessun gruppo, ha compagni, amici no, con le ragazze qualche flirt, qualche cotta, non certo l’amore, l’anima gemella.

Francesco vorrebbe innamorarsi, con l’anima, col cuore, con la mente, vorrebbe una ragazza con cui essere sé stesso, che sentisse il palpito del suo dentro, del suo cuore desideroso di lealtà, di giustizia, di fiducia, di condivisione.

«Oddio, voglio tornare, sono appena sceso e già voglio la mia Genova. Già mi manca il salire lungo le crêuze, salire ai miei monti.»

Francesco è a Roma per sostenere l’esame di ammissione al 5° anno del Liceo Scienze Umane; aveva abbandonato la scuola al 4° anno di Liceo Classico.

Aveva lasciato lo studio andando bene in tutte le materie, ma disgustato sino ad avere i conati di vomito.

Infatti a scuola si studiava Rousseau e il suo “Discorso sulle scienze e le arti”, ma non contava niente, vigeva l’ipocrisia, nessuno si mostrava come era, e la morale e la virtù erano ridicolizzate.

Le arti e le scienze servivano per differenziarsi, apparire, primeggiare, sovrastare; facevano gli ecologisti senza mai aver vissuto a contatto con la natura, senza conoscerne le leggi e le ragazze erano per moda e non per indole delle lesbiche, e molti si impasticcavano di MD, per carità non chiamatela Ecstasy, che siete proprio FOMO se lo fate, per tutto questo e per molto altro Francesco aveva lasciato il Liceo.

Ma poi si era pentito, la scuola faceva schifo, ma il programma ministeriale era molto bello e poi Orazio, Dante, Foscolo e il suo amato Ovidio mica ne avevano colpa.

Già Ovidio, De Andrè lo spiegava meglio di cento commentatori… Io t’ho amato sempre, non t’ho amato mai/Amore che vieni, amore che vai/Io t’ho amato sempre, non t’ho amato mai/Amore che vieni, amore che vai.

Francesco, dopo aver preso l’autobus, canticchiando ancora fra sé la canzone del De Andrè, arrivò a piedi all’entrata della scuola dove si sostenevano gli esami, si trovava nel Parco dell’Appia Antica, in mezzo agli orti e al bosco, da un muro fuoriusciva un ramo di un albicocco, colse due frutti e mentre se li mangiava andò a sbattere, contro due ragazze.

«OMG… ma stai un po’ attento.»

Già questa gli stava antipatica con il suo frasario.

«Oh my God, ma fottiti», rispose alla ragazza con le trecce alla Pippi Calzelunghe, proprio così, erano queste trecce, allargate ai lati come due grandi maniglie, solo che i capelli erano neri invece che rossi, ma poi volse gli occhi all’altra ragazza e restò fulminato.

Non comprese più cosa dicesse la Pippi, era perso in occhi di montagna, occhi allungati come le ali delle aquile, verdi come il fiume quando gli alberi vi si specchiano, puri, liquidi, sinceri e veri.

La Pippi si presentò: «Mi chiamo Cinzia e lei è Serena, anche tu qui per l’esame? Da dove vieni tu? Noi siamo della Garbatella, ho un’ansia, mi sento soffocare, volevo fare il Liceo Artistico, vado pazza per Kokoschka, ma non c’era nella scuola serale e così ho scelto Scienze Umane per stare assieme alla mia amica, che ansia, Dio che ansia.»

«Si vede che sei ‘artistica’», rispose Francesco, a queste sconnesse parole, oltre alle trecce-maniglie, Cinzia aveva un paio di pantaloni neri a vita molto bassa con un top bianco che lasciava scoperto tutta la pancia e lo stomaco, doveva essere proprio scema per presentarsi all’esame così, sciocca era, si dava la zappa nei piedi da sola, voleva fare la scafata e poi moriva d’ansia.

«Dicendole che è artistica, non sai quanto le hai fatto piacere», così disse Serena guardandolo con quegli occhi in cui Francesco si scioglieva sino a non capire più niente, «tu cosa porti all’esame d’Italiano, no non dirmi niente, te lo leggo negli occhi che tu sei foscoliano.»

«Sì, ho scelto Foscolo e tu?»

«Foscolo» e Francesco capì che lei era Teresa, che era innamorata di lui come lui di lei, da prima che si conoscessero, che si erano innamorati leggendo Jacopo Ortis, i Sepolcri e sentendo quello spirto guerrier ch’entro mi rugge.

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