Tornare a casa
1.
Solo altri cinque minuti.
Lo aveva detto ad alta voce? Forse. Doveva essere la stanchezza. Lo schermo del computer luccicava, c’erano piccole macchie di colore agli angoli del documento su cui stava lavorando. Si strofinò gli occhiali con un lembo della camicia e tornò ad indossarli. Niente, luccicava ancora.
Ancora quattro minuti.
Si illuminò la notifica delle e-mail. Fece clic con il mouse. Altro lavoro, altre incombenze, ma era troppo stanca. Avrebbero dovuto aspettare, era quasi ora di andare a casa.
2.
La scritta luminosa alla fermata dell’autobus annunciava cinque minuti di ritardo e si scusava per il disagio.
Non erano molti cinque minuti, nemmeno abbastanza per dover chiedere scusa. Non era poi così difficile da sopportare. Presto, tanto, sarebbe tornata a casa.
Fece quello che fanno tutti quando aspettano e tirò fuori il cellulare dalla tasca. Vibrava e lo schermo era prepotentemente illuminato. Le scappò un sorriso. Finalmente!.
Fece scorrere il pollice sullo schermo e avvicinò il telefono all’orecchio, aspettando di sentire quella voce che non mancava mai di farla sentire al caldo quando piovigginava come quel giorno.
Il ronzio le riempì le orecchie e le fece dolere il timpano. Allontanò il telefono. Non importa, pensò. Presto sarò a casa.
3.
L’autobus sobbalzò. Il conducente stava imprecando contro un ciclista che si allontanava il più in fretta possibile gesticolando con la mano.
La pioggia stava aumentando. Le ruote sembravano scivolare sull’asfalto mentre il ragazzo in bici aumentava il passo.
Un altro sobbalzo. Lesse sul tabellone le fermate che mancavano a casa. ‘Cordusio – Cairoli – Cadorna – Pagano – Inganni – Bisceglie – Cairoli – Cordusio – Bisceglie – Inganni – Pagano – Cordusio – Inganni – Bisceglie – Cairoli – Cordusio’.
Ancora sei fermate, ancora cinque, ancora quattro, ancora sei, ancora sette, ancora otto.
Era ora, si disse. Mancava ancora un po’, ma presto sarebbe arrivata a casa.
4.
L’autobus continuava a sobbalzare. Stavano attraversando una strada di ciottoli del centro, o forse stavano passando sopra i binari del tram. Lo zaino sulle spalle pesava e cercò con lo sguardo un posto libero. Lo trovò. Soppesò per qualche secondo l’idea di sedersi e far riposare le gambe, ma avrebbe rischiato di assopirsi e perdere la fermata, così si rassegnò a stare in piedi. Tanto, pensò, ormai non manca molto a casa.
Allungò la mano verso il pulsante rosso per prenotare la fermata. Le girava la testa, doveva essere la stanchezza, il peso dello zaino, i continui sobbalzi, il caldo che emanava da tutte quelle persone ammucchiate insieme che tornavano a casa.
Le dita scivolarono sul palo dell’autobus a cui stava aggrappata la gente. Ritrovò la presa e premette forte sul pulsante. Questa volta funzionò, aveva premuto, ma qualcosa non era andato bene. La plastica rossa si scioglieva attorno al suo dito, le copriva l’unghia come uno smalto applicato male, sgocciolava sul pavimento. Bruciava.
Appoggiò la fronte al palo dell’autobus sperando che il freddo metallo le avrebbe dato sollievo. Funzionò. Bene, pensò. Al dito ferito penserò dopo, quando sarò a casa. In fondo non fa nemmeno male.
5.
La strada era vuota. Erano tornati tutti a casa. Guardò verso l’alto. Le finestre erano illuminate e le ombre dietro le tende si muovevano intorno a tavole apparecchiate. Le finestre illuminate si muovevano intorno a persone apparecchiate, si muovevano intorno a tende dietro le persone intorno alle ombre, intorno alle tavole, dietro le tende. Si muovevano verso il basso. Si piegavano verso il basso insieme ai muri che le sostenevano. Scendevano, crollavano, scivolavano giù. Da una parte e dall’altra della via i muri si ripiegavano su se stessi. Scivolavano in avanti, scivolavano verso di lei. L’avrebbero imprigionata, l’avrebbero rinchiusa sotto una cupola di appartamenti illuminati, di gente che sedeva a cena, di gente che litigava per il telecomando, di bambini che non volevano andare a dormire.
Scivolavano e scendevano e l’avrebbero rinchiusa li sotto, e lei sarebbe rimasta li, a guardare le ombre che dietro le tende si muovevano e giravano e gesticolavano e si avvicinavano le une alle altre e si abbracciavano e si buttavano addosso una coperta che le copriva tutte insieme.
A meno che non fosse tornata a casa. Era ora di tornare a casa. Mosse qualche passo, c’era ancora tempo. I muri non smettevano di inclinarsi ma non erano così veloci. Prese a camminare più rapidamente, prese a correre. Mancava molto poco a casa, solo altri due incroci, poi il supermercato sulla destra, la rastrelliera delle biciclette, un altro angolo e poi finalmente altri due incroci, il supermercato sulla destra, un altro angolo e poi il supermercato sulla destra. Mancava pochissimo, perché il supermercato sulla destra era sicuramente molto vicino a casa.
6.
Si strofinò gli occhiali e tornò ad indossarli. Non c’erano più e-mail non lette nella sua casella di posta. Una volta tanto, niente in sospeso. Aveva praticamente terminato il lavoro e non era venuto poi così male. Mancava ancora qualche dettaglio ma avrebbe potuto pensarci l’indomani. Adesso era quasi ora di andare a casa e lei era troppo stanca. C’erano macchie di colore agli angoli del documento su cui stava lavorando. Fece clic su “salva ed esci”.
Lo schermo lampeggiò. C’erano degli aggiornamenti da fare e tanto valeva farli subito o sarebbe stato un bel problema la mattina dopo. Non fa niente, pensò. Questione di cinque minuti, poi potrò tornare a casa.
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Sogno lucido o meno, a me è piaciuta la costruzione del passaggio in cui la protagonista si trova sulla strada: le ripetizioni enfatizzano il senso d’angoscia e di soffocamento facendole provare anche al lettore. Anche il finale lascia spazio a diverse interpretazioni.
Grazie Micol! L’intenzione era quella. Sono contenta ti sia piaciuto.
Molto angosciante questo racconto che mi ha ingabbiata fino a una fine che è solo sognata e desiderata, ma che non arriva. Bella la scrittura veloce e azzeccato l’uso delle ripetizioni che sembrano quasi parole messe in circolo dove, ancora una volta la fine è l’inizio e viceversa. Molto brava!
Grazie mille Cristiana!
“Le finestre erano illuminate e le ombre dietro le tende si muovevano intorno a tavole apparecchiate. Le finestre illuminate si muovevano intorno a persone apparecchiate, si muovevano intorno a tende dietro le persone intorno alle ombre, intorno alle tavole, dietro le tende”
Personalmente ho trovato questo passaggio un po’ intricato. Magari c’è un modo per scioglierlo un pochino? Spero accetterai questa critica costruttiva 🙂
Grazie Linda! Effettivamente si, rileggendolo anche a me pare è un po’ intricato, proverò a lavorarci sopra ancora un po’.
Ciao Federica! Devo dire che questo tuo racconto alla fine mi ha spiazzato. Speravo che la protagonista arrivasse a casa e invece si è tornati all’inizio. E’ un’interessante tecnica per sviluppare un racconto, perché tiene il lettore attaccato allo svolgersi degli eventi in attesa che ciò che viene ripetutamente promesso (i 5 minuti e poi il rientro a casa) si avveri.
Complimenti!
Molto interessante questo librick!
Grazie per aver letto. E’ il mio primo ed ero molto nervosa all’idea di pubblicarlo quì.