TRENTA

Il ramo è basso. La treccia di canapa pesa sul gomito; odora di legno di magazzino e pelle asciutta. L’aria passa tra gli ulivi e torna indietro come chi ha dimenticato qualcosa. Io no. Ho ricordato troppo presto. Le dita fanno il loro mestiere: misurano, contano, imparano la memoria dei NODI. Le ho sempre avute così, didascaliche. Il pollice scrive colonne invisibili sulla borsa di pelle; la cucitura cede di un filo, poi si riprende. Dentro non c’è più niente, eppure pesa. Restano sulle dita limatura fine, liscio d’olio, pelle che tira.

«È tardi,» dico piano. La voce vibra come una corda tra due chiodi.

Non è la morte a spaventarmi. È la matematica — i conti che non tornano quando finalmente vorresti che tornassero. Ho messo ordine dove l’ordine non era il padrone di casa. «Se non l’avessi fatto io, qualcuno l’avrebbe fatto peggio.» Lo penso e già si sbriciola. Dita. Pollice. Nocche. La mano fa ordine. La bocca bara. Poi tace. Le giustificazioni hanno le gambe sottili.

Mi siedo. La terra rilascia umido e stringe freddo alle caviglie. Il ginocchio fa male dove ho sbagliato sasso settimane fa. «Quasi finita,» gli dico. Mi viene da ridere: finita — verbo da doganieri.

Mi hanno scelto per la cassa e per i messaggi, per la pazienza. L’odore della fiducia è come quello dell’olio buono: lucida, matura, poi un giorno ammette un rancido che non perdona. Lui spostava i segni come un bambino sposta le pietre del fiume, per ascoltare acqua nuova. «Questo non è il tempo,» pensavo. E poi mi guardava, e il sì entrava da solo.

«Una volta, almeno una, decido io.» L’ho detto al momento in cui la sera si addensa, subito dopo il pane e un boccale tiepido. Ho contato i respiri tra le sue parole; misuravo la distanza dall’ultima linea. Quando ho lasciato la stanza, i gradini hanno contato con me: uno, due, tre. Giù, nel vicolo, un uomo aveva le dita macchiate d’alloro e di ferro. «Allora?» 

«Niente rumori in più. Il SEGNO, e basta.» 

Ha sorriso come sorridono quelli che capiscono senza ascoltare.

Ora il NODO viene bene: le dita sanno. Ho imparato dai sacchi di grano. Nessun presagio, allora. I gesti non hanno colpa delle loro applicazioni. Metto il cappio dietro la nuca per prova; lo tolgo. Il vento cambia idea; educazione dell’aria. Un cane mette in fila due latrati come una domanda. Nel campo, un pezzo di metallo incastrato in una vena d’argilla accenna al sole che non è ancora arrivato.

«Ti hanno visto,» dico al mio corpo. «Da prima che decidessi.» Ho tenuto gli altri a distanza con la contabilità: ti parlo dei numeri, tu non mi chiedi dei cuori. Ma la pelle è un libro che non accetta falsi.

Il pentimento non scende diritto. Fa una curva, torna su.

«Domani riscrivo tutto,» prometto al buio.

Il domani annuisce, educato, come fanno le cose che non verranno.

Scendo verso il giardino. L’erba ha bevuto tutta la notte, brilla. Lui è un po’ più avanti, nel buio che sa di olio e foglie. I miei dormono come bambini stanchi. «Ti piace la precisione con cui ti tradisci,» dice la voce bassa che abita sotto la lingua.

Mi avvicino. Lo chiamo con un nome di tutti i giorni. Si volta.

«Amico,» dico.

«Amico,» risponde. Il peso della parola si posa e non cade. L’abbraccio è breve. Le labbra sfiorano una guancia. Un SEGNO concordato o un saluto? L’erba recita da tappeto. Da dietro i rami scattano i ferri con la contentezza triste di chi ha indovinato un turno difficile. Qualcuno tenta una lama; la lama fa il suo mestiere, breve e stupido. Le sue spalle restano due colline.

Lo portano via. Io resto all’ulivo giovane. Apro la borsa. Rovescio i tondi sul palmo, li conto senza guardarli. Fanno il suono della pioggia quando non piove. Uno scappa — sempre uno scappa — mi sfugge tra le dita, entra in una crepa e luccica poco. «Non vi voglio,» dico. Rimetto gli altri nella borsa.

Vado al portico dei conti, là dove gli uomini hanno il talento di chiudere le giornate con un timbro.

Sul banco c’è una tavoletta cerata, scurita ai bordi.

Li rovescio sul legno: rotolano, si appuntano, tacciono.

«Prendeteveli,» dico. «Ho sbagliato bilancio.» 

L’uomo dietro il banco ha dita da vasaio al contrario: rompere, non aggiustare. «Non raccogliamo scrupoli,» fa. «Compreremo un campo per i forestieri.» La risata che segue è corta, labbra macchiate di vino fermo.

Esco. Il sole inizia a fare promesse inutili.

Il ramo mi aspetta dove l’ho lasciato. Riprendo la treccia. Il NODO chiede un secondo giro. La gola tace. Guardo quella terra: cocci, resti, domande. Un ragazzo lancia un sasso in una pozzanghera: corone nell’acqua che si allargano fino a perdersi.

«Se è vero,» dico al ramo, «resisterà anche senza le mie colonne.» Sento rosmarino schiacciato e acqua tiepida che leva la polvere. «Perdonami,» dico. A chi? Al ramo? A lui? E non ricevo ricevute.

Sfilo il collo dal cerchio. Lo rimetto. Sorrido del contabile che non sa fare la somma finale. La borsa scivola, sventra la cucitura: esce solo polvere di cuoio. Un corvo guarda.

Alzo la testa. Il cappio non stringe. La città mette in moto ferri e voci. Io sto tra il gomito e l’aria, tra la colpa che fa conti e il perdono che li rompe. «Amico,» ripeto, più piano.

Il nome segreto mi sale in bocca. Non lo dico.

Resta questo: una borsa vuota come promessa esausta, la treccia che carezza la corteccia e non decide, e un SEGNO sotto gli ulivi che continua a scegliere me.

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Discussioni

  1. Personalmente, quando la scrittura è buona, io me la gusto semplicemente per il piacere di farlo. La differenza tra scrittura (fatta bene) e narrazione è questione di gusti, di quello che il lettore cerca in un autore. La narrazione prevede un punto di arrivo, si viaggia verso una meta. La scrittura, come spesso accade nei tuoi racconti, è invece un godersi il paesaggio, viaggiare per il senso di farlo. Ogni lettore sceglie ciò che fa per lui.
    Detto questo, non credo Giuseppe abbia tutti i torti. Anzi, ti ha lanciato una bella sfida.
    Sai scrivere, Lino. Sai farlo bene. Se superi questo scoglio del formato non ti ferma più nessuno.
    Un consiglio? ricomincia daccapo. Se quello che hai nel cassetto non si adatta al formato delle mille parole, tienilo in serbo, ma non cercare di tagliarlo o modificarlo. Guardati intorno, ascolta, aspetta storie nuove. Tabula rasa. Parti da zero. Prima qualche racconto e poi passerai alle serie. Le mille sono una sfida, io per prima ho fatto, e faccio, una faticaccia. Ma se ti eserciti, se ci lavori, col tempo ti verrà naturale.
    Io comunque continuerò a leggerti, amo le storie, ma ancora di più la buona scrittura.

  2. Mi piace, apprezzo, ma… Smetti di fare cronaca e inventa. Hai la scrittura che esce fluida dalle dita, bella, incisiva, spesso visionaria. Bene! Smettila di compiacerti con te stesso e crea qualcosa di notevole. Amplia la visione, riduci le frasi corte ad effetto, dilata la storia, esagera con i dialoghi e le descrizioni, cerca l’audacia per andare oltre le mille parole. Hai penna e mente che te lo permettono, se non lo fai smetterò di leggerti perché, così sono solo assaggi e io ti considero in grado di confezionare un pasto completo. Dai Lino, so che ce l’hai una storia nel cassetto, tirala fuori! Un abbraccio.

    1. Hai centrato il punto: grazie della frustata buona.
      Qui spesso pubblico versioni compresse di testi più lunghi (per dire, “Nato da un forse” nasce da circa 8.000 parole). Il formato seriale mi fa perdere il filo — e temo lo faccia perdere anche a chi legge. Hai ragione: devo spingere su invenzione, respiro, scene e dialoghi. Provo con mini-archi in 2–3 puntate: breve riassunto iniziale e ogni episodio come scena compiuta, non solo una scintilla. Tienimi il fiato sul collo: mi serve. E no, un lettore come te non me lo lascio scappare. Un abbraccio. PS: ho un racconto di circa 300.000 battute terminato (“Quel selfie quasi perfetto”) e “Diario” iniziato proprio su questa piattaforma quasi terminato (circa 160.000 battute).

  3. Ciao Lino, a volte la scrittura è fatta di silenzi e cose non dette. In questo brano affidi la tensione drammatica non ai fatti, ma alle pause, alle sensazioni tattili, ai gesti che valgono più di un discorso. Hai reso reale l’interiorità: la colpa è un peso nella borsa, il tradimento è un nodo da annodare. Una lezione di come mostrare, senza mai dire. Complimenti!

    1. Mi fa piacere che tu abbia colto proprio quel respiro fatto di pause e di materia: i gesti, gli odori, i silenzi sono l’unico modo che ho trovato per far parlare la colpa senza spiegazioni. Mostrare senza dire, come scrivi tu, è forse la parte più difficile e più vera di ogni confessione. Le tue parole mi fanno sentire che, almeno per un momento, quel silenzio è arrivato dove doveva.

  4. Uno stile così ben cesellato da sembrare un flusso di pensieri che scorrono di getto, senza intoppi. Una narrazione fluida che mi colpisce, come sempre, e mi provoca un leggero turbamento, ma anche un pizzico di invidia per il talento narrativo. Al contempo, un contenuto così amaro, mi spinge a pensare: il giorno che Lino scriverà un racconto, non dico dolce e stucchevole e perció inverosimile, ma con un retrogusto piacevole, come un buon vino rosso corposo e fruttato, quel giorno, per festeggiare, non potrei dire brindo, che per me – almeno una volta al giorno – sarebbe normale; potrei dire, peró, divento astemia.😉

    1. Grazie davvero per le tue parole. Forse non riesco a scrivere qualcosa di più dolce perché, dentro, non lo sono. Sono come i miei personaggi: marcio, contraddittorio, stanco — a volte cattivo, spesso un coglione. Scrivo proprio per questo: per non affogare del tutto in quello che sono.
      Se nei miei racconti esce amaro, è perché sto ancora cercando un sapore che non trovo.
      Non sono uno scrittore: sono uno che ha bisogno di arrabbiarsi o di piangere leggendo ciò che ha scritto, e che ha bisogno anche di un commento, bello come il tuo, per sentirsi, ogni tanto, ancora vivo. Quindi sì: sono anche patetico.

      1. Io direi che si percepisce un’ anima nobile con una spiccata sensibilità e, in quanto tale, una persona delusa, addolorata o “sanguinante”, per le ferite che ci vengono inflitte in questa giungla umana, piena di sabbie mobili, ma anche di liane a cui possiamo appenderci per andare avanti e piú in alto.

  5. In ogni tempo e in ogni luogo c’è sempre qualcuno a tradire, ma perché io? Allora vorresti comprare il tempo con quei “Trenta”, ma non bastano. Ad ogni minuto che passa, gli interessi aumentano e non c’è più prezzo per cancellare il “Segno”. Bravo, Lino, la tua capacità di rappresentare una scena attraverso i sensi è notevole.

    1. Grazie mille per le tue parole. Hai colto perfettamente il punto: non bastano i Trenta per “comprare il tempo”, e il vero debito resta nel Segno. Mi fa molto piacere che tu abbia sentito anche la dimensione sensoriale. È lì che volevo far vivere la colpa, nella materia, non nella predica.

  6. Ciao Lino. Ho trovato il tuo racconto denso e poetico, costruito su immagini forti e simboliche. Gesti concreti come il nodo, la borsa o il cappio si caricano di senso, trasformando il quotidiano in rituale. Il lessico è curato, evocativo ma mai forzato, e l’atmosfera mantiene una tensione costante tra colpa, scelta e sospensione.
    Il finale è potente e non c’è un gesto risolutivo, ma una scelta non del tutto compiuta, che lascia spazio al dubbio, alla coscienza e alla continuità.
    Inoltre è aperto e personalmente amo molto questo espediente letterario che dà profondità al testo e responsabilità al lettore.

    1. Ciao Cristiana, ti ringrazio di cuore per la tua lettura.
      Mi fa piacere che tu abbia percepito la sospensione del finale, perché non volevo lasciare in dubbio ciò che accade, ma ciò che pensiamo di lui. Quel “non gesto” finale non è incertezza: è uno spiraglio, la possibilità di guardare Giuda da un’altra angolazione, senza la condanna immediata che la sua storia porta addosso. In fondo, sappiamo come finirà, ma forse non nel modo in cui abbiamo sempre creduto. È lì che, per me, comincia la vera storia.