
Trottole invisibili
Serie: La coltre densa dell'indifferenza
- Episodio 1: Trottole invisibili
- Episodio 2: Riuscii ad essere indifferente
STAGIONE 1
Avevamo buttato a casaccio dei cuscini lungo il balcone, le fronde dei pini ondeggiavano sullo sfondo delle montagne alte, i gatti randagi andavano e venivano, il nostro invece l’avevano rubato i vicini, ogni tanto di notte lo sentivamo miagolare e sapevamo che era lui, da oltre la siepe i vicini ci buttavano addosso la loro indifferenza senza la minima vergogna.
Qualcuno, negli chalet accanto, aveva appeso dei gerani, c’era uno stralcio di rosso puro, non un solo petalo stonava in quella gradazione passionale, intorno era sole alto e vento freddo, mio padre ci aveva abbandonato ed io ero ancora troppo piccola per capire quello che poi, di quella assenza, avrei davvero provato.
Mia madre mi guardava con gli occhi felini e intrecciava le gambe magre come fili sottili in una treccia, la guardavo per capire come stava ma era impossibile esserle d’aiuto, riuscivo solo a gettarle addosso il mio malessere, giorni interi in un letto come fossi già morta, altri di pazzia moribonda in cui le tiravo i capelli e la picchiavo, rotolavo di rabbia fuori dal cancello minacciando di andarmene e sapevo che da lei non mi sarei mai voluta staccare, qualcosa dentro di me si era rotto e non sapevo come, quando.
Potevo solo sentirmi a casa in quell’instante, con lei che sui quei cuscini mi abbracciava e preparava l’insalata con quelle poche cose che avevamo, e quei pini e quelle montagne in cui la voglia era quella di ammazzarsi, io sapevo che li avrei avuti dentro per lungo tempo.
Ciò che mi scuoteva era la pace, nonostante tutto, di quei momenti, la semplicità di quelle verdure in una ciotola bianca e la sicurezza di casa nostra, nonostante ci avessero lasciate sole tutti, raramente nella vita avrei mai riprovato quella serenità di quel niente che avevamo e che era già abbastanza, quasi tutto.
Quando scendeva la sera accendevamo qualche candela, la luce prolungata di chi, senza più corrente, sfrutta il cielo come miglior lampadina.
Le ore passavano con l’urgenza della vita e la tangenza della morte, capire come sopravvivere quando rimani vivo ma ti tolgono la possibilità di esserlo.
“Dovremmo dirlo a Giancarlo che la sua verdura è buonissima”
Mia madre mi guardò senza parlare, la ciotola verso la mia parte, bocconi leggeri i suoi che per lo stento della fame non riusciva più a mandare giù, la nausea di uno stomaco vuoto è come un’invasione di plastica bruciata e soffocante.
Io intanto il cibo che mi lasciava lo mangiavo con una voracità immensa, la consapevolezza che ogni pasto poteva essere l’ultimo scavava nel mio stomaco una buca senza fondo, e la paura di finirci dentro a pieno.
“Lo zio non ti ha detto più nulla?”
“No, finiti questi, non so come faremo.”
Mio zio ci mandava una volta a settimana, quando se ne ricordava, 40 euro scarsi.
Io e mia madre vivevamo con quelli, con le spese fatte spaccando i centesimi, le docce fredde e senza la corrente, cellulari caricati nella macchina in garage, spinta per le strade di montagna con la benzina scarsa e le abbondanti preghiere, e la casa che fortunatamente era nostra.
Che noi fossimo vive o morte era indifferente a chiunque, il mondo girava tranquillo e noi in mezzo come trottole invisibili.
Non c’erano amici, parenti, famiglia, non c’era un marito, un padre, una sorella, una figlia maggiore, una qualunque persona che volesse capire e comprendere come nel mondo si potesse inciampare e quanto potesse fare male, eravamo due figure femminili che avevano solo cercato di amare fino alla fine e in quella fine non era rimasto più amore, se non il nostro, il mio e il suo, così unico da aver rappresentato sempre la nostra salvezza.
Le sere su quel balcone noi ci parlavamo del dolore con accanto una solitudine così lampante da diventate presenza, quella era diventata la nostra vita e c’era un attaccamento profondo nel pensare che, nel farcela, sarebbe stato bello rimanere io e lei, con il portafoglio pieno, a farci comunque bastare un balcone e un’insalata per sentire la vita appartenerci.
C’erano giorni in cui non si mangiava proprio nulla, e spesso quel nulla se diventava qualcosa di più, mia madre lo destinava a me. Andava con il coltello rosso della nonna a tagliare la cicoria in giardino e poi la lavava nel lavandino, mani piene di tagli, rosse e gonfie, calli sulle giunture, la forza di muoverle che doveva essere assente e che a lei, non so come, non mancava mai.
Io mi attaccavo alla stufa di cotto e facevo sciogliere delle vecchie croste di parmigiano, le mettevo in bocca piano e quella sensazione di plastica bruciata in quel momento invadeva anche a me, mi chiesi, se fossi vissuta, come avrei potuto mangiarle ancora, ci sono sapori che bucano il cervello, uno schedario di disgusto che rimane appresso e con la forza della memoria ci nega la possibilità di riscatto, verso qualcosa che ci ha infastidito così tanto.
Quei giorni in cui non si mangiava niente si passavano tra maglioni e coperte, mobili spezzati per essere bruciati e calmare il freddo nelle ossa che nemmeno in estate lasciava la montagna, soprattutto in chi non hai più energie dentro, c’erano quattro libri e si leggevano sempre quelli sperando di poter cambiare il loro finale come il nostro, ogni tanto si giocava a carte e si guardavano vecchie fotografie, quei volti famigliari per cui noi eravamo indifferenti, il problema vicino che nessuno può avere e di cui non si può dar vanto in società come segno di una carità benevola, che deve essere fatta e proferita verso qualcuno che non ci appartiene e non vuol gettare vergogna sul proprio buon nome.
Mi ricordavo un Natale, poco prima che la situazione degenerasse in quel modo, con i nostri bei vestiti e i nostri buoni profumi, invidiati e discriminati perché considerati lussuosi, in cui i miei zii, dopo anni che per le feste non ci avevano invitato a casa loro, sul finire di quella notte Santa, mi misero in braccio un cesto preconfezionato con un fiocco rosso, un pacco di pasta, un panettone e un prosecco, e la sensazione di essere in fila in quei centri sociali dove si fa la carità alla prima persona che passa di lì, e gli si getta in mano qualcosa di poco importante con lo sguardo distante, come se ci potesse lavare la coscienza con le bollicine oro del vino. Un brindisi, un cesto regalato, qualcosa per sentirsi grati di essere nati dalla parte giusta del destino.
Quel Natale avevano parlato del bambino africano appena adottato, degli scatoloni di cibo per la Caritas, dei miei cugini che eccellevano nella matematica, del conformismo contro le firme e i piedi ben saldi nelle Nike, di stereotipi che andavano abbattutati e che nonostante quelle parole vivevano tra noi, nelle candele rosse e le tovaglia di carta con i ghirigori oro, del torto sempre lontano da loro, delle Domeniche in Chiesa, com’era giusto fare, e di una parte di famiglia lontana, da dimenticare, come stavamo diventando io e mia madre, nell’ipocrisia che sarebbe durata ogni Natale, ogni distanza, ogni abbraccio finto oppure negato in quella che io potevo chiamare la mia famiglia allargata.
Quel Natale mio padre c’era ancora e allora stringevo quel cesto fra le mani, in lacrime invisibili che nel sedile posteriore della macchina io non avrei fatto scendere, lungo una festa in cui mi si era fatta sentire sbagliata per tutto il tempo e che ora, con la mia famiglia in viaggio verso casa nostra, mi faceva solo sentire migliore di loro.
Serie: La coltre densa dell'indifferenza
- Episodio 1: Trottole invisibili
- Episodio 2: Riuscii ad essere indifferente
Cosa dire? Bello, descrizioni deliziose! Hai toccato qualcosa che conosco bene, per un attimo ho rivissuto la mia difficile adolescenza. Complimenti!
@marthacanu questo secondo me è il fulcro più alto della scrittura, partire da una cosa propria e riuscire ad essere degli altri, soprattutto delle loro vite, ti ringrazio per avermi letta, sapendo il valore che dai a questa lettura, per me è importantissimo il tuo commento!
Lo trovo stupendo.
Mi piace soprattutto la fluidità del testo.
@leonardo_ceccarini wow, ti ringrazio davvero tanto, sono molto lusingata di questo tuo commento 😀
Ciao Marta 🙂 di questo racconto ho apprezzato particolarmente alcune immagini
…le gambe magre come fili sottili in una treccia..la nausea di uno stomaco vuoto è come un’invasione di plastica bruciata e soffocante… sono sapori che bucano il cervello, uno schedario di disgusto che rimane… oltre chiaramente all’immagine delle trottole che dà il titolo al racconto e che è davvero molto evocativa, complimenti. Il rapporto madre figlia è sempre un po’ esclusivo, a mio parere. In ogni sfumatura di bellezza o di difficoltà. E tu lo hai saputo rendere benissimo.
Cara @isabella che bello ritrovarti e ritrovare i tuoi commenti!
Ti ringrazio per le tue parole, anche se devo fare una premessa, non è un racconto singolo ma un miniserie divisa in due, avevo pubblicato e inizialmente non si vedeva che era una serie, quindi il senso della storia che tu hai letto era all’inizio incompiuto.
Le immagini che mi citi volevano essere un’impostazione forte, come un pugno narrativo, per far arrivare la carica di gravità dentro cui le protagoniste vivono.
Hai ragione, spesso mamma e figlia è un rapporto molto esclusivo e difficile da cogliere a pieno dall’esterno, si può solo che viverlo.
Al di là della storia, per me la visione è ancora da figlia a mamma, spero che un giorno, chissà, anche io potrò viverlo da mamma a figlia 😀