
Un incontro piccante
La rossa, la bionda e la brunetta, erano tornate al paese del jazz, poco prima dell’alba, rimorchiate dal trio che, dopo averle soccorse, non le aveva più mollate.
La fase alcolica più acuta del dopocena era durata alcune ore, trascorse in rigurgiti, chiacchiere sconclusionate, e sonno ronfante. Quando avevano deciso di ripartire da Olbia con la Jeep di Mary Spencer, prima che la legittima proprietaria finisse per richiedere l’intervento delle forze dell’ordine, erano quasi le quattro del mattino. Dopo molti giri di chiave, il motore non dava alcun segno di vita.
In quel momento, sulla strada semideserta, era passato un furgone variopinto, un po’ naif, con il trio di amici a zonzo.
La diagnosi del più esperto, elettromeccanico di mestiere, era stata poco incoraggiante: batteria esausta. Con la vista offuscata dai fumi dell’alcool, avevano dimenticato, per troppe ore, i fari accesi. Per farla ripartire avrebbero potuto spingerla; forse, per un po’, avrebbe tenuto. Nel caso avessero spento la macchina durante il viaggio, per qualsiasi motivo, difficilmente sarebbero riuscite ad avviarla da sole. I tre baldi nottambuli si erano presentati come un dono della provvidenza, con i loro sorrisi a bocca larga: Fulvio – l’esperto – Bruno (un po’ tapino), e Celestino, detto Tino. Si erano offerti di trainare la Jeep e di far salire loro tre, sul retro del furgone.
Mentre pronunciavano i loro nomi, gli occhi erano tutti puntati verso Betta, la gnocca forestiera, alta e soda, dall’aspetto nordico. Fulvio, il più intraprendente, sembrava quello con più chance. Gli altri due, poco convinti del loro fascino, avevano fatto un passo indietro. Bruno, il tipo basso, tarchiato, con la testa rasata e la nuca che faceva pendant con il cuoio tirato a lucido dei suoi mocassini, avrebbe ripiegato volentieri sulla gnocchetta sarda DOC. Per le sue esigenze, un bocconcino niente male, con la folta chioma scura, che lo riportava indietro nel tempo.
Per Tino, in fin dei conti, l’una o l’altra non avrebbe fatto molta differenza. “Purché respiri”, usava dire, spesso, con gli amici del bar, dopo il secondo bicchiere di prosecco. Diceva di non avere grosse pretese, senza ammettere che, quando incrociava il suo volto nello specchio, non riconosceva quel tipo d’uomo che le ragazze definivano un gran bel figo. Oltretutto, negli ultimi tempi, per le sue prestazioni occasionali, un aiutino di mezza pastiglietta blu, l’avrebbe favorito. Per uno come lui – pensava – l’importante era di poter cambiare, ogni tanto, “l’acqua alle olive”.
Quando erano arrivati al paese avevano sganciato la Jeep dal furgone. Subito dopo, il maschio alfa del trio aveva proposto di andare in qualche bar, per fare colazione insieme.
L’insegna del Jolly Cafè non era distante: l’avevano raggiunto a piedi, in pochi minuti.
Fulvio aveva affiancato Betta, posandole una mano sulla spalla. Bruno, invece, parlava con Gina, cercando di apparire simpatico, con una barzelletta dopo l’altra. E Gi’ rideva sempre, anche quando non le capiva.
«La sai quella del 2070?»
«No, dai, spara.»
«Mi dispiace, non la so neppure io. Manca parecchio tempo, non l’hanno ancora inventata. Qualcosa mi dice che sarà qualche brutta storia priva di umanità.»
«Spietata?»
«No, verosimile: sulla scomparsa del genere umano.»
«Qualche meteorite?»
«No, la “cretinite”.»
Tino, intanto, di qualche passo più avanti, aveva esaurito il repertorio dei complimenti che era solito fare al primo incontro: che bel sorriso, che occhi, che sguardo, che voce… che si adattavano, più o meno a tutte, vero o falso che fosse. Era passato, quindi, alla lista delle domande: lavori, che fai di bello, hobby, social…
La serranda del bar era ancora parzialmente abbassata. Il cavalletto giallo indicava pavimento bagnato. Bisognava aspettare.
Fulvio e Betta erano rimasti soli, mentre gli altri quattro si erano allontanati ed erano scomparsi dietro l’angolo del bar, in un batter d’occhio.
L’aria frizzante e umida del mattino aveva fatto rabbrividire Elisabetta, ancora vestita con gli stessi indumenti leggeri che lasciavano scoperte braccia e gambe.
Fulvio le aveva proposto di tornare indietro, per stare al riparo, nella cabina del furgone.
Lei aveva esitato, poi aveva aperto lo zainetto e aveva rovistato nella tasca interna, dove teneva le chiavi, le salviette, un astuccio piccolo come una penna da borsetta e il cellulare. Aveva dato un’occhiata veloce: niente messaggi. Poi – tenendo d’occhio lo zaino aperto, posizionato sul petto – aveva detto okay, andiamo.
Poco dopo l’uomo aveva aperto il cruscotto per cercare un CD. Una raccolta di colonne sonore di vecchi film. Quando le note di You Can Leave Your Hat On e la voce roca di Joe Cocker si erano diffuse nello spazio angusto della cabina, lui, ormai prossimo al mezzo secolo, aveva ripensato allo striptease di kim Basinger, nella scena del film Nove settimane e mezza, degli anni ottanta. Mentre Betta, perplessa, chiedeva: «Che roba è questa?»
Poi la musica era cambiata, con il ritmo più lento di Hungry Eyes, dal film Dirty Dancing.
Subito dopo l’uomo aveva allungato un braccio, per toccarle i capelli, e il collo, e il seno. Lei, con un sorriso forzato, gli aveva abbassato il braccio, allontanandogli la mano. Lui l’aveva guardata con uno sguardo da seduttore convinto, e un attimo dopo era tornato alla carica, bisbigliando parole suadenti. La mano destra, senza troppi preamboli, diretta, come una freccetta sul bersaglio, all’interno coscia di Betta. Lei, senza alcun sorriso, e senza fretta, gli aveva sibilato:«To-gli-mi-le-ma-ni-di-dos-so». Ma l’uomo non aveva alcuna intenzione di arrendersi.
«Dai, non fare la preziosa; tanto lo so che piacciono anche a te, gli incontri fugaci, caldi e piccanti.»
Poi le aveva afferrato un polso, per attirarla a sé con forza, facendole male.
Betta aveva perso la sua ingenuità sin da piccola. Il compagno di sua madre era un tipo focoso, a cui piaceva soprattutto la carne tenera. E la sua era rimasta lacerata, dalla pelle al cuore. Era scappata di casa il giorno del suo diciottesimo compleanno. La vita era stata dura, soprattutto i primi tempi, al “Rivieni”, uno squallido Day Use, l’unico posto di lavoro che fosse riuscita a trovare. Il proprietario tentava di ricattarla, esigendo riconoscenza con interessi eccessivi. Betta, però, aveva imparato a cavarsela, attrezzandosi. Aveva frequentato, per molti anni, una palestra di arti marziali; poi aveva cambiato genere. Era diventata allenatrice di pugilato femminile. I suoi muscoli, ben torniti, erano il frutto dei lunghi allenamenti di boxe. E soprattutto, ovunque andasse, teneva stretto il suo zainetto. Non aveva mai spaccato il naso a nessuno: aveva sempre evitato di sporcarsi le mani. Se avesse potuto avrebbe evitato di schiacciare anche le blatte che infestavano la palestra.
L’uomo che le aveva rimorchiate le sembrava un misto tra il patrigno, il proprietario del motel “Rivieni”, e la blatta.
Con un movimento rapido, aveva infilato la mano destra nella sacca e prima che lui riuscisse a capire, aveva neutralizzato quell’approccio insistente e arrogante, con la finta penna da borsetta che conteneva una soluzione molto, molto, piccante.
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Dietro un tono brillante ed umoristico, un tema assai più “scottante” che “piccante”.
Ho notato spesso nei tuoi racconti come ti piaccia toccare, con apparente leggerezza, argomenti tutt’altro che leggeri. E ci riesci benissimo.
Grazie.
Grazie a te, Giancarlo; doppio grazie, per essere andato a ripescare alcuni episodi di questo viaggio immaginario che trae spunto, come hai osservato anche tu, da luoghi e situazioni o temi di vario genere. Argomenti che, per motivi vari, sento la necessita` di comunicare con toni leggeri, cercando di non appesantire la narrazione.
Incontro piccante, certo, ma a senso unico, mi pare. Brava Maria Luisa perché hai saputo accennare alla violenza stemperando con un pizzico di ironia. In ogni caso il problema del diritto al consenso, resta. La tua splendida protagonista sa reagire, non è quasi mai così, purtroppo. Molto bello anche questo episodio, ricco in descrizioni, come in un film. Voglio però sapere che fine hanno fatto gli altri quattro, là, nel retrobottega 😁
Ciao Cristiana, un uccellino mi ha riferito di aver visto un cartello con su scritto “Non disturbare”, dietro l’ angolo del bar, dove gli altri quattro, tutti adulti, consenzienti e gaudenti, si erano appartati.
Per il maschio alfa troppo dominante, solo il fuoco ardente del peperoncino piccante.
Grazie Cristiana, a presto, con i nostri prossimi racconti, di amori e disamori.
Forte! Certi passi mi hanno fatto ridere, altri riflettere
Suscitare sorrisi e qualche riflessione e` esattamente cio` che speravo. Se questi due obiettivi, almeno in parte, sono riuscita a raggiungerli, mi fa davvero piacere, quindi ti ringrazio.
Ciao Kenji, a presto.
Dal titolo pensavo che quel sogno di Mary diventasse realtà, invece tutt’altra storia! Questo episodio è ben poco confortante, con personaggi che necessitano di “cambiare l’acqua alle olive” ma il finale almeno è piacevole, di quelli che ti fanno dire “aaaah se l’è meritato”. Mi aspettavo anche un bel pugno da cambiargli i connotati! Al prossimo episodio!
Ciao Carlo, di solito, in questi piccoli racconti, cerco di prendere spunto anche dalla realta`. Non posso ignorare le cronache, spesso amare, di questa nostra attualita` che, direttamente o indirettamente, riguarda tutti. Non solo la scuola o le famiglie dei ragazzi, che sono coinvolte in un impegno costante di vigilanza, educazione e buon esempio. In un modo o nell’ altro, anche chi ha la possibilita` di mettere in circolo i suoi pensieri, magari sull’web, puo`essere partecipe e sentirsi spinto ad esprimersi con parole che potrebbero indurre ulteriori riflessioni.
Senza pretendere di cambiare il mondo, (la parte storta che ferisce, uccide o distrugge), anche questo, su Open, e` uno spazio privilegiato, una possibilita` in piu`per chi vorrebbe mantenere viva l’ attenzione su certe questioni che andrebbero affrontate con maggiore impegno da parte della politica e delle istituzioni in genere.
Grazie Carlo, un abbraccio.