Un riparo all’ombra

«Ho detto che al sole non ci voglio andare, fa troppo caldo», la mia protesta era tanto lagnosa quanto inutile, e io lo sapevo.

«Invece ci vai e ci viene pure tuo fratello, ve l’ho già detto il perché. E’ sempre la stessa storia. Adesso finiscila!», rispondeva mia madre con un tono autoritario che non le apparteneva.

«Non lo puoi mettere al sole, è troppo piccolo e rischia di scottarsi», sapevo essere il mio ultimo tentativo.

Guardai mio fratello, rotondetto e bellissimo. La pelle molto chiara e delicata, a differenza della mia. Occhi grandi e azzurri come quelli della mamma. In momenti come quello gli volevo un bene infinito e provavo per lui una stretta allo stomaco.

Mia madre ci prese per il braccio e ci spinse oltre l’ombra che ci proteggeva dal sole pomeridiano. La sabbia era rovente e bruciava sotto i piedi. Fui pervasa da una la sensazione di disagio. Indossavamo un cappello ed eravamo completamente spalmati di crema. Tuttavia, il rossore sulle spalle si diffuse velocemente anche al retro del collo e alla schiena. Mia madre ci aveva comprato le biglie, quelle di plastica trasparente con i ciclisti in maglia rosa, così che potessimo giocare e non pensare al sole che bruciava. A me veniva sempre l’eritema e portavo un fazzoletto, di quelli grandi e di cotone, legato al collo con doppio nodo e largo abbastanza per coprire il petto. Con cappello, fazzoletto e occhiali, assomigliavo a una cowgirl del mare nostro.

Succedeva sempre così, ogni anno, come una cantilena che si ripete all’infinito e che ricomincia quando arrivi alla fine. Odiavo il fine settimana e la mia collera cresceva e sfociava in esplosioni tanto terribili quanto silenziose, che avvenivano esclusivamente nella mia testa. Pensavo tutte le parolacce che conoscevo, tantissime e le peggiori e poi mi facevo il film di come lo avrei raccontato al Don durante la confessione. Quel peccato me lo porto dietro da sempre perché non ho mai trovato il coraggio di confessarlo, forse per vergogna o perché nel mio intimo ero convinta che non ce ne fosse bisogno. Me la sarei vista io da sola con Lui, che forse un pochino mi capiva, ma erano le speranze di una bambina.

La mia famiglia trascorreva buona parte dell’estate al mare, nello stesso posto, nello stesso albergo, per il solito periodo. Sapevo di essere fortunata rispetto a molti miei amici e compagni di classe che le vacanze non le facevano e forse il mare non l’avevano mai visto. Io invece sì e ci festeggiavo pure il compleanno, anche quello secondo le stesso schema, sempre. Il giorno esatto, tutti i bambini dell’albergo si riunivano attorno al tavolo lungo nello spazio comune, puntuali, dopo che le mamme e i più piccoli avevano riposato. Molti di loro nemmeno li conoscevo. Con altri, invece, ci si incontrava da tempo: loro erano gli “amici del mare”, non in base ai gusti miei o di mio fratello, ma rispetto alle amicizie dei miei genitori. Con quelli ci si vedeva anche durante l’anno e te li dovevi per forza far piacere.

Le giornate trascorrevano serene e si facevano molti giochi sulla spiaggia. Quella era delimitata sulla sinistra rispetto al mare da un cordone che ci era vietato oltrepassare. Al di là del confine c’era la colonia, dove molti bambini giocavano a ore stabilite e si facevano il bagno in un fazzoletto di mare anch’esso delimitato. Noi li guardavamo passare con curiosità e forte desiderio di socializzare, ma non ci era permesso dalle signorine che li accompagnavano e controllavano a vista come cani da guardia. Giocavamo a chi aveva il coraggio di oltrepassare quella corda sulla quale a volte ci si arrampicava a testa in giù. Mio fratello non ci riusciva perché era troppo piccolo e allora lo aiutavo a rimanere appeso tenendogli la schiena da sotto. Volevo che anche lui provasse quella sensazione di ebrezza mista a nausea che provavo io dopo troppi secondi passati in quella posizione sotto il sole cocente. Quando si lamentava, lo spronavo a resistere. Volevo che tutti vedessero quanto era forte.

La sera uscivamo per una passeggiata, come pecorelle, tutti alla stessa ora in cui gli alberghi finivano di servire la cena. La mamma era molto bella, metteva le scarpe alte e vestitini colorati. Di giorno portava i capelli acconciati per non sudare, ma la sera li scioglieva e si faceva la riga agli occhi, del loro stesso colore. La sua pelle rimaneva sempre color avorio, perché lei al sole non ci andava. Ne era dispensata, e non faceva mai il bagno in mare. Se ne stava per ore sotto l’ombrellone con un libro oppure facendo la Settimana Enigmistica. Io la guardavo con ammirazione. Sapevo di essere diversa e simile invece a mio padre, perché tutti me lo ripetevano da sempre come fosse un mantra. Ci ero cresciuta.

Andava comunque tutto bene, fino a quando si avvicinava il sabato. Quello era il giorno in cui mio padre, impegnato a casa con il suo lavoro, ci raggiungeva. A volte con la nonna.

Mio padre arrivava come una specie di castigatore, per fare l’inventario della settimana e controllare che i soldi fossero ben spesi: dovevamo essere scattanti, in buona salute e soprattutto abbronzati. L’abbronzatura era il metro con cui venivamo misurati. Se non raggiungevamo un certo grado di tonalità, allora arrivava la ramanzina che durava anche tutto il fine settimana. Io e mio fratello ce la potevamo cavare in pochi minuti, ma nei confronti della mamma, lui esercitava una pressione senza fine. Non lo tolleravo, ma non avevo ancora la forza di aggiustare le cose.

Sopportavamo il suo “broncio” e la sua insoddisfazione in silenzio, sapendo di non essere bambini grati. La mamma si rabbuiava, ma non reagiva mai. La nonna si univa spesso al coro del figlio, a volte rincarando la dose. Mi tirava da parte dicendomi cose noiose sul conto della mamma. Mi dava molto fastidio, ma la lasciavo fare perché il fatto di averla con noi in realtà mi riempiva di gioia. Lei il bagno lo faceva volentieri e la ricordo in riva al mare con il suo costume intero giallo che faceva risaltare l’abbronzatura. Attaccava bottone con tutta la spiaggia in pochi minuti e io la seguivo, da un ombrellone all’altro. La ascoltavo parlare con scioltezza, nel suo italiano misto al nostro dialetto, con le altre signore che avevo finalmente la fortuna di conoscere grazie a lei. Spesso parlavano dei mariti defunti, in effetti erano per la maggior parte vedove, oppure di quanto i loro figli fossero splendidi e amorevoli. Riuscivano perfino a litigare fra di loro.

La domenica verso il tardo pomeriggio si consumava il rituale del saluto: in piedi come soldatini sapendo che il papà ci guardava dallo specchietto dell’automobile in partenza. Tiravamo finalmente un sospiro di sollievo e la vacanza poteva ricominciare, anche se la nonna mi mancava sempre.

Mi capita a volte di guardare le vecchie fotografie e mi rivedo con il fazzoletto al collo, magari in riva al mare, in posa con mio fratello accanto a Topo Gigio. Mio padre, in quelle fotografie, ride sempre. Eppure io non ne ho ricordo. Lo vedo sdraiato sul canotto arancio e nero che sorride soddisfatto, oppure mentre gioca a racchettoni con alcuni bambini che non riconosco. Allora penso che forse anche lui si divertiva al mare, penso che magari quello era il suo modo di essere felice in compagnia degli altri. Ho per molto tempo creduto dipendesse da noi, dal nostro essere sbagliati o diversi. Figli di nostra mamma, “mammoni” come spesso lui si divertiva a prenderci in giro. Soprattutto mio fratello che le assomigliava tanto.

Con il passare del tempo, la cosa ha perso d’importanza, almeno per me. Ho capito che mio padre è due persone diverse in base alla direzione in cui varca la soglia di casa. L’ho accettato e mi ha fatto bene. Anche lui ha diritto alla sua felicità e ha diritto di scegliere come averne un po’.

Negli anni abbiamo anche smesso di andare al mare perché il lavoro non andava bene e non ce lo potevamo più permettere. In realtà, abbiamo smesso di farlo perché siamo cresciuti abbastanza da muoverci con le nostre gambe, più o meno a fatica. Mia madre, invece, è rimasta là, sotto l’ombrellone che ancora oggi la ripara. Le donne scelgono sempre anche se non sembra. Lei lo fa ogni giorno, in maniera silenziosa e cercando di non disturbare. Io continuo a trovarla bellissima.

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Discussioni

  1. Mi piace. Ha i tratti del racconto autobiografico. Il tema del “sentirsi inadeguati agli occhi del padre” è molto interessante e quasi tutti riescono ad immedesimarsi con il personaggio.

  2. Si legge che è una meraviglia, sciolto e vivace, sai tratteggiare il racconto come se avessi in mano non solo la penna ( o i tasti del pc) ma anche i colori… scrivi a colori

    1. Grazie Paola, considero il tuo un complimento bellissimo. A volte scelgo temi leggeri, a volte mi addentro in terreni così personali e delicati da diventare scivolosi. Quello che cerco di fare in ogni caso, è dipingere un’immagine che sia visibile agli occhi di chi legge, regalare un quadro o anche una fotografia. E per farlo mi servono proprio i colori che si adattano di volta in volta alla narrazione. Se ti verrà voglia di leggere a tempo perso anche quello che ho pubblicato nei mesi scorsi, vedrai che è proprio così. Ti ringrazio molto per aver colto questo aspetto.

  3. Un racconto sul passato che per me è una fotografia sul presente. La grande mi somiglia molto, mentre il piccolo è tutto sua mamma. Caratterialmente invece è tutto l’opposto 😀 Tante volte anch’io sto imbronciato sotto l’ombrellone… chissà cosa pensano di me 🙂

    1. Sta pur certo che, finché sono giovani, i figli pensano di noi malissimo ( la classica ruota che gira). Confidiamo nel fatto che, crescendo, riescano a trovare il modo di amarci per quello che siamo, cioè niente più o meno che persone, come loro del resto. Io mi sto ancora sforzando di imparare a farlo. Credo sia l’unica via d’uscita. Grazie Francesco che torni sempre a leggermi💜

  4. Lasci trasparire e comunichi tanti sentimenti con questo bel racconto, cara Cristiana. Descrivi molto bene questo rapporto conflittuale con i genitori in una fase di oresa di coscienza, e la relazione con la nonna è davvero molto particolare nel suo dualismo. Forte l’immagine della mamma, sempre bellissima ed ancora al riparo di quell’ombrellone sotto il quale i figli non sono ammessi. Complimenti.

    1. Non è mai facilissimo aprire il cuore sapendo che altri lo possono leggere. Quando ci riesco, diventa quasi un dono che faccio a me stessa. Se poi riesco a raggiungere anche altri cuori, allora diventa bellissimo 💜

  5. Ciao Cristiana, mi è piaciuto questo racconto intriso di ricordi. Mentre leggevo immaginavo di guardare un filmino degli anni ’70-’80, di quelli dove il colore giallo è prevalente e sembra immergere ogni cosa. Mi sono piaciute le descrizioni dei genitori e della nonna, la consapevolezza della donna che una volta cresciuta ripensa al passato e accetta i genitori per le persone che sono state e sono. Mi ha specialmente intrigato la figura della madre, un misto di antica nobildonna e di vip anni ’50. Ho fortemente rivisto mia nonna nelle foto e video di famiglia. Finisco con l’inizio, mi ha fatto particolarmente sorridere perchè durante la mia infanzia ho avuto il “problema” opposto, ovvero venivo rincorso da mia madre per mettere la crema e stare all’ombra almeno nelle ore più calde. Inutile dire che dopo 5 minuti ero già a giocare a pallone o in acqua con la tavola. A presto!

    1. In effetti se ripenso alle estati della mia infanzia, mi viene in mente una pellicola super 8 senza audio di cui hai indovinato sia i toni di colore che gli anni! E le donne in spiaggia erano veramente cotonate e ingioiellate. Figurati che mia mamma andava dal parrucchiere pure al mare. Mi piace molto la considerazione che fai a riguardo della consapevolezza del fatto che i genitori sono le persone che sono. Idealizzarli è un gioco da bambini, ma poi la vita è un’altra cosa. Capirlo fa bene a loro e fa bene a noi. Grazie Carlo che mi leggi sempre 💜

  6. Bellissima descrizione.
    Il processo del riconoscere i propri genitori come persone mortali e non essere divini, figli delle proprie scelte e battaglie.
    Un “Inno alla Donna” le ultime frasi.

    1. Quello che dici è vero nel profondo: i genitori non sono esseri divini e nemmeno perfetti. Lo vorremmo tanto, ma altro non sono che persone, incomplete e fragili. E quando lo si comprende, diventa tutto più semplice, per loro e per i figli. Il finale ho proprio voluto dedicarlo a mia madre anche se so che non sarà mai pronta per leggere le mie parole. Grazie Fanni

  7. Ciao Cristiana. Quanti ricordi, dolci e malinconici. I ricordi sono contagiosi. Evocano spesso altri ricordi, soprattutto in questo caso, leggendo di un tempo ormai lontano, dell’ infanzia, trascorso al mare con la propria madre e un fratello (nel mio caso era una sorella piu` piccola). Descrizioni che aiutano a ritrovare la figura un po’ sfocata, di una donna che per noi, sue figlie, faceva spesso il sacrificio di portarci al mare, viaggiando col treno, per 17 chilometri e poi col tram. Un filobus con le “bretelle”, come dicevamo noi, che ogni tanto si staccavano dai cavi della corrente elettrica, lungo la linea del percorso che arrivava fino alla spiaggia del Poetto di Cagliari. Il conducente scendeva, riallacciava le “bretelle” e ripartiva. I tanti momenti spensierati e piacevoli di quel periodo forse sono uno dei motivi per cui, ovunque andiamo, cerchiamo la presenza, se non del mare, almeno di qualche altra distesa o corso d’acqua.
    Grazie Cristiana per questa immersione nei ricordi delle nostre belle estati al mare.

    1. Grazie a te, Maria Luisa che, come ti dico molte volte, mi fai sempre ulteriormente riflettere. Mentre leggevo le tue parole pensavo alle madri e a quello che hanno saputo fare per noi. Magari non lo si apprezza da subito, ci vuole il tempo degli anni, ma arriva. E poi è vero, i ricordi sono contagiosi. Sono speciali, personali e nostri, ma se li rivolti un po’, diventano universali. Grazie 💜

  8. Leggevo e ripensavo alle giornate in spiaggia, quando anche io ero bambina. Probabilmente tutti i bambini, ad un certo punto, hanno sfidato qualcuno ad andare dall’altra parte di un cordone, lo ricordo anch’io! Anche una spiaggia che la mia famiglia frequentava aveva un cordone che non si poteva oltrepassare (ovviamente, io e mia cugina lo facevamo lo stesso😅). Bellissimo questo racconto, mi ha fatto tornare in mente tante cose!

    1. Sono sicura che ognuno di noi, fin da piccolo, ha dovuto trovare forza e coraggio di oltrepassare i limiti che la vita ci pone, a volte spingendoci fino a dove ci è proibito. E forse il bello del crescere sta proprio lì. Grazie Arianna per aver letto!