Una firma libera

Serie: Ho Scelto me


Ho visto Milano per quello che mi appare: lucente, affamata, pronta a divorare chi la serve. Ho dato tutto, e ora era giunto il momento di riprendermi la mia libertà, senza chiedere approvazione

Presa di coscienza, atto individuale di rescissione.

Era giunto il momento di dire basta. Non ci sto più al vostro gioco. Guardando i nuovi assunti, ingenui, servire a testa bassa, pensavo al lavaggio del cervello che gli era stato imposto: un servilismo assoluto, una schiavitù inconsapevole. Fin da ragazzo avevo fatto mia l’idea che il sistema premia solo chi obbedisce, e io, figlio della strada, sono sempre stato un disobbediente. Per questo ho vissuto ai margini. Per questo non ho mai chiesto nulla di più di quanto mi spettasse. Ora, dopo tutto quello che avevo dato gratuitamente in quegli anni — per lealtà, fiducia e senso del dovere — era arrivato il momento di prendermi la mia rivincita, in un modo o nell’altro.

Ieri mi sono svegliato presto, pronto a chiudere i conti. L’appuntamento era fissato, gli avvocati nominati, le cifre stabilite. Tutto già scritto. Mancavo solo io — lucido, freddo, pronto a guardare in faccia chi pensava di avermi piegato. Arrivai all’Ispettorato Territoriale del Lavoro come si entra in un’arena: nessuna paura, solo la certezza di aver scelto la via migliore. Entrai, e in pochi minuti misi la firma che li liberava da me. La mano mi tremava per l’adrenalina, consapevole che da quel momento tutto sarebbe cambiato. Sapevo benissimo cosa stavo facendo. Ho firmato guardandoli negli occhi, uno per uno, e nessuno ha avuto il coraggio di sostenermi lo sguardo.

Dopo la firma e le strette di mano di circostanza, io e la responsabile dell’ufficio uscimmo insieme. Mi chiese di accompagnarla fino alla metro. In quel breve tragitto andò in scena uno degli spettacoli più falsi che si possano immaginare. Io avevo già scritto il copione: le assenze, le cure, i problemi di salute. Tutto calcolato, ogni mossa al momento giusto. Mi parlò di scelte giuste, di salute, di porte sempre aperte. Io la lasciai parlare, poi recitai la mia parte con la stessa ipocrisia. Solo in un punto fui sincero — quando dissi che una società dovrebbe prendersi cura di chi è in difficoltà, non liberarsene. Dieci minuti di teatro, poi un sorriso di commiato. E la consapevolezza che entrambi sapevamo di aver mentito.

Uscito dalla metro, mi fermai un istante a respirare: dovevo scaricare tutta la tensione accumulata. Milano, eri fredda, tagliente, eppure per la prima volta in vita mia sapevi di libertà. Ogni passo tra le vetrine del centro, addobbate di circostanza in vista del Natale, mi allontanava da un mondo che mi aveva logorato dentro e fuori, prosciugandomi l’anima. Guardavo quelle vetrine come quando da bambino restavo incantato davanti ai giocattoli e ai dolci esposti come in una galleria d’arte.

Ero consapevole di aver messo fine a un ciclo. Avevo pagato un prezzo troppo alto. Anche tra le mura che avevo costruito per proteggermi si era consumato il reato più grave che si possa subire. A chi avevo donato il mio sacrificio? Trentacinque anni di vita passati ad alzarmi all’alba, percorrendo Milano e l’hinterland a piedi, in autobus, in auto. Misurando una città che ogni giorno si alzava un po’ di più, oscurando il cielo, respirando un’aria sempre più acida e rarefatta, con le lacrime agli occhi. Tornando a casa la sera — a volte la notte — distrutto dalla fatica, prima quando lavoravo in fabbrica e poi, negli ultimi anni, svuotato di energie mentali, dietro una scrivania. Credevo di trovare nella famiglia lo scopo di tutto ciò, e invece venivo accoltellato alle spalle, tradito.

Così, mentre il rumore mai domo, i colori degli addobbi e quell’atmosfera che solo Milano sa restituire — fredda, satura di gas di scarico e di luci artificiali — si confondevano con i miei pensieri, capii che il mio non era un atto di fuga: stavo semplicemente scegliendo di non morire. Quel giorno, senza fiori né preghiere, si è celebrato il mio funerale. Sono morto dopo trentacinque anni dedicati al lavoro e alla famiglia, ma deciso a rinascere. Milano, non ti offrirò più i miei servigi. D’ora in avanti camminerò tra gli edifici abbandonati della mia vecchia vita, con passo nuovo, respirando un’aria diversa, pronto a reclamare ogni briciolo di libertà che mi spetta.

Ho ancora sette lunghi anni prima della pensione, sette anni per dimostrare a me stesso che posso muovermi tra le sbarre secondo le mie regole. Milano, oggi ti guardo dalla finestra: l’ansia è sparita, i rumori lontani, il caffè ha un buon profumo se sorseggiato lentamente, e il cielo mostra un altro colore se hai il tempo di alzare lo sguardo.

Come un animale in gabbia, ferito, so che non posso fuggire per ora, ma non posso rinunciare a provarci, assaporando per un momento almeno la sensazione di una libertà ritrovata. Ogni attimo che riuscirò a rubare, per quanto piccolo, sarà una vittoria. La mia lotta non è finita. Sono figlio della strada, ricordi? Tutt’altro: è appena cominciata.

Serie: Ho Scelto me


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