Una questione di karma

Era il 13 maggio del 43. Anche su Cagliari e dintorni fioccavano le bombe. Una flotta di 197 caccia-bombardieri riversarono sul capoluogo sardo quasi 500 tonnellate di esplosivo. Fu una delle città italiane più devastate dalla guerra. Macerie, morti e un esodo di 70.000 persone. Inizialmente la gente correva a rintanarsi nei rifugi, nelle grotte di Santa Restituta e della Vipera o nei cunicoli sotterranei di Sant’Efisio, appena sentiva il suono delle sirene.

Poi cominciarono ad abbandonare le loro case, per rifugiarsi nei paesi più interni, meno esposti al rischio di essere colpiti dal forze armate anglo-americane.

Anche la mia bisnonna Carolina, con tutta la sua numerosa prole, erano sfollati in un piccolo paese (poco più di un villaggio rurale), che chiamerò Anassu.

Mia nonna Maria, che aveva allora appena nove anni, con le sorelle e i fratelli, erano alloggiati nella casa di un ricco proprietario terriero locale, che chiamerò Gocu, anche se non aveva i poteri magici di Goku, il personaggio giapponese di Dragon Ball che, crescendo, diventa il guerriero più forte della Terra e affronta avversari sempre più potenti che minacciano la pace del pianeta.

L’uomo di Anassu aveva una fattoria e campi molto estesi da coltivare. Mia nonna, con tutti i componenti della sua famiglia, erano stati utili per svolgere i lavori che andavano fatti in campagna, nel periodo in cui gli uomini venivano chiamati a combattere.

Il più grande dei fratelli aveva tredici anni, il più piccolo, Toreddu, ne aveva sei, e veniva utilizzato per irrigare l’orto, con l’acqua del pozzo. Faceva scorrere il rivolo nei solchi che bisognava poi chiudere, per deviare il flusso dell’acqua in un altro solco. Il bambino, con la marra in mano più grande di lui, doveva arginare il punto di chiusura con un piccolo cumulo di terra.

All’epoca non c’era il telefono azzurro e tanto meno i cellulari e neppure i telefoni a disco o a gettoni; soprattutto in quelle zone, ancora molto disagiate. Nessuno avrebbe sporto denuncia per lo sfruttamento del lavoro minorile. Per loro, su meri  (il padrone) Gocu era un filantropo, un benefattore, che dispensava latte, minestre e stuoie per dormire. Non potevano sapere che su meri, con i soldi che procurava risparmiando sulla manodopera, faceva prestiti con interessi un po’ eccessivi ad altri poveri disgraziati come loro.

Mia nonna aveva un buon ricordo di quel periodo, nonostante tutto, come piccola bracciante, nei campi di grano, piuttosto che nella vigna. Era felice quando poteva sottrarre qualche acino d’uva o qualche fico messo a essiccare al sole, infilzato nelle lunghe spine delle acacie. E poi c’erano i fichi spinosi selvatici, che crescevano in abbondanza sulle siepi, e le more, quelle del gelso e quelle dei rovi. Una delizia per il palato e una festa per la pancia, non avendo nient’altro di così dolce, per nutrirsi. Per mia nonna, ancora molto ingenua, quello era il paese del bengodi.

La notte, però, le capitava spesso di svegliarsi all’improvviso, per lo spavento dei rumori assordanti provocati dai bombardamenti. In realtà, in quel villaggio rurale di poche anime, non arrivava nessun frastuono, neppure da lontano. Si sentiva soltanto il raglio degli asini e il belato delle pecore e degli agnelli, che per Pasqua e per Natale diventava straziante. Nessuna macchina, solo carri trainati dai cavalli che, all’occorrenza, fungevano da taxi. Oppure, in alternativa, il “cavallo di san Francesco”, cioè dovevano andare a piedi, anche per spostarsi da un paese all’altro.

I boati erano soltanto nella testa di mia nonna, che aveva sentito davvero quelle esplosioni, prima di sfollare ad Anassu.

Quando è nata mia madre la guerra era finita da quindici anni. Lei e mio padre si incontrarono la prima volta, per puro caso o per un disegno ben preciso del loro destino, forse già tracciato nei messaggi cifrati del loro codice genetico, durante una vacanza di mia madre insieme con un’amica. Il loro incontro era avvenuto in un villaggio a sud della Francia (non ricordo il nome), dove mio padre era andato per lavoro. Quando si ritrovarono nella nostra isola e cominciarono a frequentarsi, mia madre scoprì che – guarda caso – mio padre era originario di Anassu. Il matrimonio fu celebrato dopo un anno, nello stesso paese in cui l’intera famiglia di mia nonna si era rifugiata nel 43. A celebrare il matrimonio civile – forse non ci crederete – Un pronipote di Gocu, giovane sindaco di quel Comune.

Durante i primi anni della sua infanzia, anche mia madre, che non aveva conosciuto la guerra, non l’aveva ancora studiata a scuola e, fino all’età di sei anni, non l’aveva vista neppure il TV (il televisore in casa loro mancava ancora); eppure si svegliava spesso, durante la notte, in balìa degli incubi, dovuti al terrore dei bombardamenti.

Da mia nonna non aveva ereditato nessun patrimonio e neppure gli occhi celesti; aveva ereditato soltanto il trauma della seconda guerra mondiale, che non aveva mai conosciuto.

Tredici anni fa, alcuni paesi dell’hinterland di Cagliari, furono colpiti da una pesante alluvione. Era il 13 (numero ricorrente) di novembre del 99: una notte indimenticabile, per il nubifragio incessante e il fragore del temporale, con tuoni che non sembravano solo bombe d’acqua.

Molti abitanti furono costretti a lasciare le loro case invase dalle piogge. Io e i miei genitori ci ritrovammo “sfollati” ad Anassu, in casa dei genitori di mio padre.

***

Pochi giorni fa abbiamo ricevuto una richiesta di accoglienza per due bambini ucraini, nipoti della signora che assiste la mia nonna paterna, ancora residente ad Anassu. Nadiya – il suo vero nome è Irina, ma sembrerebbe troppo scontato e poco credibile – è vedova e ha una figlia che ha deciso di restare a combattere per il suo Paese, accanto al marito. Nadiya non può tenere i bambini con sé perché deve occuparsi di mia nonna che sta male.

Noi abbiamo una casa abbastanza spaziosa, con tre camere da letto. Abbiamo pensato che i bambini potessero dormire insieme nella stessa stanza. Non vedevo l’ora di conoscerli. Forse così, tra l’altro, il debito karmico per l’accoglienza ad Anassu, da mia bisnonna in poi, verrà estinto – avevo detto, quasi  per scherzo, a mia madre.

E poi, che bello, organizzare, preparare e ospitare due bambini che sembrano due raggi di sole, mandati da Dio a scaldarci il cuore.

La sorpresa più grande è stata quando ci hanno salutato, mischiando l’italiano con qualche parola in campidanese.

Siamo andati a prenderli all’aeroporto di Cagliari-Elmas: Nicolas ha abbracciato Nadiya, saltandole al collo ed esclamando nonna, in italiano. Yulia (la più grande), timidamente, ha allungato la mano verso di me, dicendo bu-buongiorno, balbettando un po’.

Subito dopo Nicolas, con un’espressione simpatica e un tono allegro, ha esclamato: “Ajò a pappai” (andiamo a mangiare).

Come potevano conoscere tutte quelle parole? Avevano fatto un corso accelerato via Skype, con la nonna, prima di partire da Kiev?

Nell’ultimo periodo nella loro città mancava la corrente elettrica, figuriamoci la connessione internet.

Nadiya ci ha spiegato il motivo di quella strana capacità dei bambini di parlare in Italiano, misto sardo- campidanese. Taniya, la madre dei suoi nipotini, dopo l’incidente alla centrale di Cernobyl, era stata, ogni anno, per uno o due mesi, qui da noi, per cambiare aria, sempre dalla stessa famiglia. Ad Anassu? Noo! Proprio qui, a Semìni, nello stesso comune dove abito io. Taniya, perciò ha imparato il nostro bilinguismo. Ai suoi bambini aveva insegnato le stesse filastrocche, canzoncine, poesie e favole, che avevano insegnato a lei. I suoi figli sono cresciuti usando quattro lingue diverse: l’ucraino, il russo, l’italiano e il sardo. Sono sani, sono vivaci e sono bellissimi. E sono rimasta sbalordita, ancora una volta, dalla  forza straordinaria dimostrata dal popolo ucraino, bambini compresi. Nonostante tutto ciò che hanno passato, dimostrano una capacità  di reagire, di guardare avanti e di affrontare i cambiamenti, mentre il loro mondo gli sta cadendo addosso.

Provo un senso di vergogna per tutte le volte che mi sono sentita persa, senza la mia Panda, per andare a comprare le cingomme , come le chiamava mia nonna, al bar-tabacchi, a trecento metri da casa mia. E mi rendo conto di quanto sciocco possa essere il mio sconforto, per aver perso l’occasione di sostituire lo smartphone con l’ultimo modello XYZ… in offerta, dopo una lunga attesa, appresso a un’interminabile fila di persone. Quando è arrivato il mio turno, l’avevano già esaurito.

E confesso che non riuscirei ad adattarmi facilmente senza internet. Senza Facebook, senza WhatsApp e senza Google, cadrei sicuramente in depressione. Mi domando come reagirei se qualche brutto ceffo mi togliesse il cellulare dalle mani e lo schiacciasse con i piedi.

Gli oggetti per cui nutro un forte attaccamento sono tanti. Comincio a chiedermi se riuscirò ad adattarmi, dovendo dividere gli spazi della nostra casa con due bambini che vogliono entrare continuamente nella mia camera, curiosare, frugare e toccare tutto.

Ripenso a mia nonna e ai suoi fratelli sfollati ad Anassu. Come facevano a stare tutti insieme, appiccicati l’uno all’altro, sulle stuoie, in un’unica stanza (quella della paglia), tra pulci e pidocchi?

Ho un principio di eritema: temo che, con i geni del DNA, io abbia potuto ereditare una lieve intolleranza psico-fisica, alla mancanza di privacy.

Avete messo Mi Piace3 apprezzamentiPubblicato in Narrativa

Discussioni

  1. Mi hai ricordato quanto ascoltavo nonna raccontare della Guerra. Sono veneta, la campagna in un certo senso è stata risparmiata e non si è sofferto delle conseguenze dei bombardamenti. Le sue storie hanno accompagnato la mia infanzia, anche grazie alle foto in bianco e nero incorniciate e esposte sul comò: quelle della famiglia (18 fratelli) da esibire per il riconoscimento del premio famiglia numerosa (siamo ancora lì, anche se il Duce è sepolto da quasi un secolo), i fratelli in uniforme, chi è morto anzitempo. Anche se i tempi erano difficili ne portava un buon ricordo, grazie la solidarietà della gente (anche se qualcuno, come il Gocu, se ne approfittava) , e ai baratti che non le hanno mai fatto soffrire la fame (il bisnonno era sarto, si occupava dei rammendi in cambio di una gallina o cibo). Ogni tempo porta le sue pene, ora sono i bimbi ucraini a fare le spese di una guerra inutile. Non fa male ricordare come le cose semplici, in fondo, siano anche quelle più importanti

    1. Ho avuto la pelle d’oca leggendo il tuo commento. Le situazioni e le figure che hai citato hanno risvegliato altri ricordi della mia infanzia. L’autenticità delle tue parole e la condivisione, non solo di una piccola storia, ma soprattutto di alcuni aspetti importanti della nostra vita reale, ha accentuato l’emozione. Grazie Micol

  2. “Provo un senso di vergogna per tutte le volte che mi sono sentita persa, senza la mia Panda, per andare a comprare le cingomme , come le chiamava mia nonna, al bar-tabacchi, a trecento metri da casa mia”
    Questo passaggio mi è piaciuto

  3. Un bellissima narrazione che attraversa le generazioni, insegna e ci fa riflettere. Scritta a mio avviso benissimo. Ci sono parti che sono come uno spartiacque delle nostre abitudini indotte e spesso insulse, mettendone a fuoco altre che restituiscono un senso all’ordine delle cose.

    1. Grazie Bettina. Le tue parole mi lusingano e mi danno entusiasmo per continuare. E´ bello poter condividere con te e con tanti altri, in questo spazio virtuale, la passione per la lettura e per la scrittura che accorcia le distanze e ci fa sentire, in qualche modo, piu´ vicini.

    1. Grazie Alessandro, in attesa dei tuoi nuovi racconti, devo ancora leggerne alcuni che, vedendo il titolo e conoscendo un po’ meglio l’autore, mi hanno incuriosito e credo che mi sorprenderanno ancora.

  4. Davvero un bel racconto, mi è piaciuta molto la digressione storica, ricca come tuo solito di belle descrizioni. Arrivando ai giorni nostri, condivido quel senso di vergogna per cose che ormai sembrano futili. Prossima frase per Nicolas: Ajo a su Poettu! 😂

  5. Tutto quello che abbiamo lo diamo per scontato. Forse lo davano anche gli Ucraini. Poi, in una notte del 24 febbraio ogni certezza si è disciolta. Io ho ancora memoria quando nel 1963, all’età di 4 anni,sono stato con i miei nel campo profughi che oggi è la Risiera di San Sabba di Trieste che da grande ho scoperto fosse l’ex campo di concentramento nazista. Mi piace come sdrammatizzi l’orrore con l’eufemismo di un “fioccano le bombe”.

    1. Gia´, Fabius. Trovo giuste le tue osservazioni. Certe volte sono combattuta se affondare il coltello nella piaga o metterci un cerotto, anche se capisco bene che non basta, quando la piaga e´ troppo profonda.