Una seconda possibilità
Carlo arrivò a casa che era quasi sera. Chiudendosi la porta alle spalle percepì subito l’odore di chiuso, di vecchio e polvere. Si avviò verso la cucina e quasi inciampò nella ciotola piena di crocchette: il gatto era morto da un anno. Sul tavolo vide la busta dell’ospedale, ancora sigillata. Da quanto tempo era lì? Si passò una mano sul volto stanco e avvizzito, chiedendosi vagamente quand’era l’ultima volta che si era lavato i capelli.
Il telefono irruppe nei suoi pensieri. Carlo lo estrasse dalla tasca e indugiò sul display: numero sconosciuto, prefisso cittadino. Di solito non rispondeva, lasciava suonare finché smetteva. Il suono lo irritava, e decise di fermarlo: il pollice puntò verso il tasto rosso, ma per uno strano riflesso sfiorò quello verde.
«Marco…» Una voce di donna, rauca, lontana. «Se mi vuoi salutare devi venire… adesso.»
In sottofondo, il bip ritmico di un monitor. Il rotolare secco di un carrello. Una voce che chiamava: «Infermiera, alla stanza trentasei, per favore.»
Carlo avvertì un capogiro. Quei suoni. Gli si strinse lo stomaco. Decise in un attimo.
«Arrivo» disse piano. Forse, solo dentro di sé, aggiunse: «Mamma.»
Sull’autobus non riuscì a sedersi. In tasca aveva quella lettera finalmente aperta. L’afa gli impediva di respirare bene; si allentò la cravatta, slacciò il colletto. Un brivido freddo gli scivolò lungo la schiena.
Entrato in ospedale, l’odore pungente di disinfettante lo investì insieme al bianco dei muri e dei camici. Sapeva dove andare: primo piano, geriatria.
Un attimo dopo era nella stanza 36. Lei era lì, piccola, indifesa, un’età indefinibile. Le cannule nel naso per respirare, un groviglio di aghi e tubicini che salivano alle bottigliette sul trespolo. Di lato un monitor: un pallino che si muoveva a ritmo di bip, numeri che cambiavano lentamente. Gli occhi della donna erano chiusi. Senza quel pallino, sembrava già oltre.
Carlo si avvicinò. Le mise una mano sulla spalla.
«Marco… sei venuto.»
«Sì» rispose, quasi sospirando. «Sono qui.»
«Sono contenta. Lei… so che non verrà. Neanche questo la farà tornare.»
«Ci sono io» disse Carlo, senza sapere chi fosse “lei”, né cosa avessero condiviso.
La donna gli prese la mano. Sembrò aprire gli occhi per un attimo, ma le pupille restarono fisse.
«Spero che… riuscirai a perdonarmi. E dille… quanto vi ho voluto bene.»
«Certo che ti perdono» mormorò, accarezzandole la fronte. «E sono sicuro che anche lei lo farà.»
Lei richiuse gli occhi. Sul volto, l’ombra di un sorriso. La mano strinse quella di Carlo con più vigore. Il petto salì per un ultimo sforzo; dalle labbra uscì un soffio impercettibile. Il bip si spezzò nel suo ritmo e divenne un’unica nota continua.
La gola di Carlo si chiuse. Le gambe cedettero quasi. Le lacrime gli invasero gli occhi. Per chi piangeva? Per quella donna? O per chi, tempo prima, non aveva salutato?
Con delicatezza le sistemò il braccio accanto al corpo. Le sfiorò la fronte con un bacio. «Ciao… mamma.» O forse fu solo un pensiero.
Si asciugò gli occhi e uscì dalla stanza inciampando quasi sull’infermiera che accorreva, richiamata dall’allarme del monitor.
Tre giorni dopo Carlo era di nuovo a casa. Le pulizie erano state fatte, l’ambiente era meno ostile. Niente più ciotole di crocchette. Niente buste non aperte.
Il telefono suonò di nuovo. Un déjà-vu. Ancora un numero sconosciuto. Stavolta premette volontariamente il tasto verde.
«Buonasera, sono Marco.»
Il cuore di Carlo ebbe un sobbalzo. Capì subito.
«La volevo ringraziare per aver fatto ciò che io non ho avuto il coraggio di fare.»
Carlo non trovò parole. Quella frase era la sua ferita.
«Se n’è andata serenamente» disse. «E ha chiesto di essere perdonata. Le ho detto di sì. Che l’avremmo perdonata.»
«Vorrei vederla. Ringraziarla di persona. Abbracciarla. Anche da parte di mia sorella.»
Carlo rispose che ci avrebbe pensato. Chiuse la comunicazione. Rimase immobile per qualche secondo, il telefono ancora in mano, poi andò in cucina a prepararsi la cena.
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Sì, anch’io voglio una seconda possibilità <3