…USQUE DUM VIVAM ET ULTRA…

Serie: …USQUE DUM VIVAM ET ULTRA…


La grande guerra.

1 dicembre 1915

Carissimo professore, come va che non ricevo vostre notizie? Avete ricevuto le mie cartoline? Bramo vostre nuove. Io sto tra i piemontesi e sono contento. La vita è quella del fronte. Spero rivedervi. Vi manderò una fotografia fatta da un tenente d’artiglieria sulla quota 379, sotto Zagora, di qua dell’Isonzo. Salutissimi. Vostro devoto, Domenico.

Il freddo non punge: si mette addosso e serra. Parte dalle caviglie, s’aggancia alle ginocchia, trova casa nelle anche. Il fango trattiene come dita ostinate. Sa di ferro e brodo d’ossa. A sinistra sopravvive una neve vecchia con impronte che coincidono solo all’inizio; a destra il camminamento geme sotto gli zaini. Nel guanto destro entra acqua. Non lo tolgo: la mano deve restare, come il resto.

Il capitano dà un comando: lo raccoglie il vento, lo spezza in sillabe, lo restituisce a metà. È così: una parola, un equivoco, un ritorno dimezzato.

Più su, tra larici magri, la linea non è una linea: è una cucitura storta sulla pelle della montagna. Dicono Austria. Io vedo bianco e pietra. Penso alla patria e mi viene in mente mia madre che spazza il cortile, il cane che la segue, la porta che non chiude bene. Tutto il resto è fango e dovere: le uniche cose che non mancano.

28 gennaio 1916

Carissimo professore, sto benissimo ed a riposo in un paesello ridente e soleggiato. Dormo come a casa, anzi meglio. La vita trascorre. Vorrei scrivervi tante cose, ma questa giornata di paradiso che ride a questi monti mi fa uscire la voglia di tutto. Vorrei correre e farmi male; non lo so. Salutissimi. 

Sono sottotenente: un grado sottile, cucito su panno grosso; una voce che devo tenere ferma anche quando il fiato scappa. Ho ventun anni: a volte tutti, a volte nessuno. Non si ha ancora un nome intero, solo un pronome. “Io” può voler dire chiunque.

Tiro fuori la cartolina. La tengo con due dita, al riparo del respiro che fa fumo. Sul retro traccio l’indirizzo: don Vincenzo Pica, il mio professore. La scrittura mi esce stretta, tirata come cinghia. Gratto con una matita corta, rifatta col coltellino. Le nocche prudono.

Scrivo piano: all’alba ci tocca marciare. Le montagne sono chiese rovesciate. Raddrizzo la cartolina, scrivo ancora.

«L’animo è in preda a terribili pensieri. Dio, quanto è terribile questa vita! Abbracci e baci senza fine.»

La mina slitta, resta una riga più scura sul margine. Giro la cartolina come se potesse rispondere. Il resto delle parole rimane nel guanto bagnato.

Dietro di me Neri si stringe il bavero: il mento gli trema in un modo che lui non sa. Poco più grande di me, negli occhi un inverno che comincia.

«Che ci scrivi?» chiede per abitudine.

«Niente. Una cosa breve.»

Sorride senza denti. «Breve è meglio. La carta finisce prima di noi.»

Sotto quella riga misera sento ciò che non entra: la gola che si serra quando il mulo passa con le casse; il cucchiaio nella gavetta, tic ostinato; un buio che non è nero ma grigio, un grigio che macchia. La patria detta piano, senza fanfare.

Tolgo il guanto, asciugo una goccia che ha sporcato la data. 28 marzo 1916. La ripasso: deve restare lì.

Rimetto la cartolina nella tasca sinistra, contro il petto. Sa di tabacco e grasso: diventa teca. Domani la consegnerò al portaordini. Se non domani, un altro. Qui i giorni sono viti: alcune prendono, altre girano a vuoto.

La baracca respira: assi che scricchiolano, fiati che si cercano. Qualcuno tossisce, qualcuno prega come se rubasse. Ripasso i nomi come grani: mamma, Rosa, don Vincenzo. Li metto in fila come su una targhetta di ottone. Posto per tutti, se stringo.

Quando la stufa muore, il freddo viene dal pavimento. La branda ha un chiodo che punge un’anca: è il mio campanello. Il sonno si spezza su rumori lontani, si sbriciola al richiamo più piccolo. A volte sogno una strada asciutta, un cane al sole, una porta docile al polso. Mi sveglio con la bocca aperta, come per dire arrivo. Nessuno mi chiama. In guerra la voce è un lusso. Mi tocca alzarmi prima. A bassa voce conto i volti: pelle tirata, labbra screpolate, pallori. Devo contare senza farmi vedere, devo chiamare per nome chi vorrebbe restare numero. Quando dico «Presente» per tutti, lo dico anche per me.

All’alba l’aria taglia. Il ghiaccio non cede, scricchiola sotto gli scarponi. L’ordine arriva secco: marcia. Zaino. Coperta. Fucile. Le baionette infilate sono spine allineate. Davanti c’è il Seluggio: un muro.

Le ginocchia suonano come legno gonfio d’acqua. Dietro, qualcuno canticchia un filo di melodia: non una canzone, un modo per far passare aria. Io conto fino a cento e ricomincio. A cinquanta penso a casa. A novanta penso di non pensarci.

A metà salita un mulo scivola, la cassa sbatte, nell’aria resta uno strappo. Neri ride due volte, un suono piccolo. «Quando scendo» dice «mi rado i baffi e divento un santo.» Si ride piano, qui: come in chiesa.

Sopra, il cielo cambia senza cambiare. Un colpo arriva da dove non guardo. Ci abbassiamo quasi insieme. Schegge di ghiaccio vecchio e terriccio ci piovono addosso: un fruscio secco.

Ci stringiamo in un avvallamento. L’aria, quando entra, graffia. Sento la cartolina sotto il panno: la carta pesa quando non può fare niente. Neri mi tocca il gomito: «Senti.» Da valle metallo contro un secchio, due colpi. Per un attimo sembra casa. Poi torna il ferro.

La morte non la nominiamo. Le passiamo accanto come a un pozzo in cortile: una deviazione, un fischio, eppure tutti sanno dov’è. Le cambio nome per reggerla: sonno buono, riposo, coperta scura. Finché nessuno la chiama davvero, sta al suo posto.

Continua…

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Avete messo Mi Piace3 apprezzamentiPubblicato in Narrativa

Discussioni

  1. Bentornato Lino! Ho ritrovato il tuo stile che tanto apprezzo, unito ad un tema importante, sul quale c’è sempre molto da dire e da scoprire. Direi che ci sono tutti gli ingredienti per un’ottima storia. Il freddo dell’incipit, la matita che si spezza e riga la cartolina, il chiodo della branda…sono tutte immagini ben costruite che rendono il racconto un qualcosa da toccare, quasi. Mi è piaciuto molto il finale, è proprio vero: camminiamo accanto alla morte ogni giorno, in guerra ancora di più, eppure non le diamo mai il nome, come a dire che, se non la nominiamo, non esiste. Sono davvero curiosa di poter seguire questa nuova serie dall’inizio. A presto!

    1. @Dea Grazie di cuore! Ti confido che questo racconto nasce da alcune cartoline dal fronte capitate per caso tra le mie mani. Ho provato a restituire il peso di quelle carte e a rendere onore al militare che le ha scritte. Sapere che ti sono arrivati il freddo, la matita spezzata, il chiodo della branda mi dà coraggio. Sono indeciso: farne una serie o chiuderlo col prossimo capitolo? Mi farebbe piacere il tuo parere.
      Un abbraccio, Lino.

  2. ​Lettere tra un professore e il suo allievo. Forse il ragazzo mente oppure non ha ancora la piena consapevolezza di quella che fu una scellerata carneficina di una generazione: i ragazzi del ’99. Grazie per lettura, Lino.