Vivere di bisogni
Serie: La Compagnia dell’autobus
- Episodio 1: Vivere di bisogni
STAGIONE 1
La sveglia suonava, come ogni mattina dal lunedì al venerdì, troppo presto. Era dura svegliarsi, ma non c’era tempo. Dovevo fare in fretta: l’autobus passava alle sei meno dieci e non potevo perderlo. Ogni coincidenza era calcolata al minuto, altrimenti sarei arrivato tardi al lavoro. In rapida sequenza mettevo su il caffè, poi il dopobarba, anche quando non mi rasavo. Era il mio modo di risvegliarmi, come i pugili che respirano i sali per tornare lucidi e pronti sul ring. Ripreso il controllo, facevo colazione. Il primo caffè aveva il suo rito: stessa tazzina, quella spessa come al bar, forte, pressato, che faceva fatica a uscire dalla moka. Due brioche confezionate e un tè caldo bastavano a spegnere la fame del risveglio. Mi vestivo alla bell’e meglio: un paio di jeans e, a seconda della stagione, qualcosa da infilare in fretta. In vent’anni, l’unica giacca elegante che avessi mai indossato era quella della prima comunione, che rovinai lo stesso giorno della cerimonia. Un altro caffè prima di uscire e, alle sei meno un quarto, ero già giù alla pensilina, con la prima sigaretta accesa, teso, mentre guardavo Milano svegliarsi.
In autunno, il clima regalava un effetto particolare. I profili netti dei palazzoni di periferia assumevano un tono caldo, sfumato, quasi intimo. Il primo freddo restituiva la fotografia di un paesaggio urbano gradevole, in netto contrasto con la realtà . L’odore di umidità , fumo e gas di scarico mi irritava la gola, peggio della sigaretta stretta tra le dita. Il rumore dell’autobus non passava inosservato. Lo sentivo arrivare da lontano, nel silenzio ovattato del primo mattino. Le luci accese ricordavano una giostra, e il fumo che fuoriusciva evocava il respiro caldo di un camino. Sembrava un carrozzone teatrale in marcia, pronto a portare lo spettacolo in città . Si fermava giusto davanti a me, come se io e l’autista conoscessimo già il nostro posto in scena. Il rumore classico delle porte mi accoglieva, insieme al suo gesto d’intesa: dai, che si parte.
Le fermate passavano una dopo l’altra, senza che salisse nessuno. Solo all’edicola, all’incrocio appena fuori dalle abitazioni, saliva Marta, una bella donna risoluta che gestiva il suo negozio di merceria, aperto subito dopo la guerra insieme al marito. Raccontava spesso dei sacrifici fatti per estinguere il mutuo: «Mai un giorno di ferie, mai una distrazione», diceva. Fino all’11 marzo del 1972, quando uno sparo, durante una manifestazione antifascista, le portò via il marito, lasciandola sola. Ogni mattina mi salutava con affetto, un piccolo gesto di complicità . Le piacevano i giovani, diceva. Tra noi era nata un’intesa indefinita, fatta di battute e sguardi complici, entrambi bisognosi di un gesto consolatorio. Non so quali fossero le sue reali intenzioni, ma io restavo al gioco, forse più coinvolto di quanto volessi ammettere. Così il tragitto finiva sempre troppo presto: mi sarei trattenuto volentieri ancora qualche minuto, ma alla mia fermata dovevo scendere per cambiare mezzo. Lei proseguiva, salutandomi e invitandomi ad andarla a trovare.
Attraversato l’incrocio, già gremito di traffico e clacson impazziti, mi dirigevo verso la fermata del nuovo carrozzone. Lo scenario era cambiato: l’autobus proveniente dalla stazione era strapieno di pendolari, con voci penetranti che riempivano ogni spazio. Stretto in un angolo, cercavo almeno di respirare, sperando che quel quarto d’ora passasse in fretta. Arrivato davanti alla fermata della metro, venivo espulso dalla calca umana. Tutti correvano senza motivo, come se il treno fosse in partenza, ma in realtà non sarebbe passato prima di cinque minuti. Io invece andavo nel senso opposto, dove in teoria ci sarebbe stato l’ultimo autobus di quell’interminabile migrazione quotidiana. Mentre la stragrande maggioranza si dirigeva verso il centro, pochissimi altri come me prendevano la direzione opposta, verso il capolinea, solo una fermata più avanti.
Ogni mattina, prima che il treno arrivasse, prendevo posto nello stesso angolo della stazione. Era il mio punto, scelto strategicamente. Di fronte, gli altri pendolari. Ognuno al suo posto, come figuranti in posa. Talmente radicata era quell’abitudine che, alzando lo sguardo, incrociavo sempre la stessa ragazza, non sapevo chi fosse. Un sorriso, appena accennato, bastava a confermare la nostra presenza. Anche oggi, puntuali. Eppure, tanto bastava. Bastava a trascinarmi in un mantra filosofico e sociale che si ripeteva ogni volta. Perché era toccato a noi? La risposta era semplice, diretta, scontata: questione di soldi. Perché non bastavano mai. Rispetto a chi poteva permettersi altro, quelli come me non avevano scelta. Bisognava portare i soldi a casa. Punto. Tra riflessioni su libertà , capitalismo e Marx, mi convincevo che non eravamo noi a scegliere ma il sistema. Lavorare era una scelta obbligata, e vivere di bisogni non significa vivere liberi.
Serie: La Compagnia dell’autobus
- Episodio 1: Vivere di bisogni
Ciao Maurizio, trovo la storia molto interessante, racconti un po’ lo stress quotidiano che attanaglia la nostra società , gli autobus, la calca di persone e quelle riflessioni che nascono spontanee. Complimenti!!
Molto realistico, mi è piaciuto. Spesso viviamo in modalità meccanica: sveglia colazione tram lavoro casa ecc
Ogni tanto affiora la domanda: ma chi me lo fa fare?
Ed è qualcosa di filosofico e surreale, e la risposta sembra semplice eppure…
Bello questo librick, mi è piaciuto!
Sembra di essere lì, nella mattina milanese, tra il caffè, il freddo e l’autobus che arriva. Si sente la stanchezza ma anche un certo calore umano. Forse un po’ claustrofobico nel ritmo e nel respiro delle frasi, ma molto vero e ben scritto.