4 – Prospettive

Serie: Il tempo che serve alle promesse


NELLA PUNTATA PRECEDENTE: Come possono non essersi incrociati per quelle viuzze, non essersi ritrovati in piazza Mazzini, dove alla mattina c’è il mercato, per giocare ai giochi a cui giocavano loro? Come è possibile, mi chiedo io, se la fotografia in bianco e nero che ho trovato mi racconta esattamente il contrario?

Durante i giorni che sono seguiti alla morte di mia nonna, giorni che abbiamo impiegato a sgomberare definitivamente l’appartamento in cui aveva vissuto prima di trasferirsi in pianta stabile dai miei genitori, di rimanenze del passato e di fotografie ne ho viste tante.

Ma quando quella lì in particolare mi è arrivata tra le mani, una volta che è stato il suo turno di essere passata in rassegna come le figurine dei calciatori, qualcosa mi ha indotto a fermarmici sopra un po’ di più.

I bordi si presentavano mangiucchiati dal tempo, frastagliati come la costa scandinava disegnata su una cartina appesa al muro di un’aula scolastica.

Istintivamente, la prima cosa che ho fatto è stata girarne il verso, per controllare se sul retro fosse apposta qualche data scritta a mano, magari in una grafia svolazzante e sottile, prossima a dissolversi completamente; ma non ci ho trovato niente, nemmeno uno sbuffo d’inchiostro caduto lì per sbaglio.

Nonostante su quella carta leggermente patinata venisse rappresentato un mondo fatto in scala di grigi, era chiaro che la fotografia fosse stata scattata in una limpida giornata estiva.

La linea di demarcazione fra la luce del sole e l’ombra proiettata dalle fronde di alberi gonfi di foglie, piantati in fila e a distanza regolare ai lati di un parchetto giochi per ragazzi, era nettissima. Una donna inquadrata dalla media distanza, il cui corpo si perdeva in parte oltre il bordo sinistro della fotografia, faceva solecchio per schermirsi da un riverbero abbacinante, guardando dritto verso l’obiettivo della fotocamera quand’anche questa non fosse puntata intenzionalmente su di lei. Bambine e bimbi portavano vestiti corti, pantaloncini, magliette dalle maniche che si interrompevano poco oltre le spalle.

Una bambina sui quattro anni con una maglia a sbuffo ed una gonnellina dai toni chiari era ripresa al centro della fotografia, di profilo. Nonostante la posizione non era difficile intuire che avesse appena smesso di piangere, i tratti del viso pervasi da quell’irrimediabile tristezza che solo i più piccoli sono in grado di manifestare, un ditino vicino alle labbra nel quale cercare un briciolo di consolazione. Al suo fianco un uomo accovacciato, dalle gambe visibilmente lunghe a dispetto della postura rannicchiata, la guardava tendendo una mano verso di lei, come ad accarezzarle una spalla. Portava un cappello con la tesa rivolta leggermente verso l’alto, una camicia bianca con le maniche arrotolate all’avambraccio ed un paio di calzoni scuri tenuti su da una bretella sottile.

Tutto l’ambiente aveva un ché di familiare, come un luogo davanti al quale si passa tutti i giorni ma che si osserva solo di sfuggita, tanto da riconoscerne le decorazioni di un palazzo vicino o di un’inferriata ma senza riuscire ad inquadrarne l’esatta collocazione.

Mi sono lasciato andare sul divano appoggiandomi allo schienale alto e morbido, coperto da un telo pesante e liso in diversi punti. Ho passato ancora una volta il dito sulla superficie dell’immagine e poi mi sono rivolto a mia madre.

«Ma’, sei tu questa bambina qui?»

«Fa vedere…»

Mia madre ha lasciato perdere per un attimo lo scatolone con le stoviglie e si è avvicinata, sporgendo il busto in avanti da dietro il divano verso dove ero seduto io per guardare meglio. Dalla camera da letto sentivo mio padre sacramentare contro qualcosa di inanimato che non voleva saperne di prendere vita e collaborare all’obiettivo comune.

«Sì, sono io, e quello lì è il nonno.»

«Belin com’era giovane qua. Quanti anni aveva?»

«Eh, io ero piccolina lì… sarà stato sui trentadue, trentatré anni.»

«Che forte. E pensare che io me lo ricordo vecchissimo.»

«No, non era vecchio». Lo ha detto con una punta di rammarico. Anche qualcosa di più di una punta.

«E qua perché piangevi? Lo sai?»

«Io non me lo ricordo, ma mia mamma una volta mi aveva detto che era perché un bambino mi aveva spinto e mi aveva fatto cadere. E che poi in quei giardini non c’ero più voluta tornare.»

«Perché ti aveva spinta?»

«Eh, chi se lo ricorda?»

«Sto’ stronzo…»

«Ma va. Eravamo bambini!»

«Sempre un bambino stronzo era però. Sarà stato uno di questi qua dietro. Guardali, ce l’hanno tutti la faccia da stronzo.»

Sullo sfondo della fotografia, dietro mia mamma e mio nonno, un gruppetto nutrito di bambini di qualche anno più grandi si attorniava intorno ad un loro coetaneo fermo in piedi con un pallone tenuto sotto il braccio, lo sguardo rivolto a mia mamma e la bocca leggermente aperta, mentre i movimenti e i gesti del gruppetto venivano catturati in una posa che indicava chiaramente come tutti stessero reclamando il ritorno del bambino solitario e del suo pallone, così da poter riprendere il gioco.

«Se proprio dobbiamo dirla tutta» ha proseguito mia mamma tornando a rovistare nei cassetti di una vecchia credenza, che era stata nostra quando stavamo nel primo appartamento in cui ho abitato, «la nonna raccontava che fra quei bambini uno bravo c’era. Era venuto a difendermi quando quell’altro mi aveva spinto per terra». Mia mamma ha mollato di nuovo quello che stava facendo, come del resto le mamme sempre fanno quando i figli hanno bisogno di loro, e si è venuta a sedere a fianco a me, togliendomi delicatamente la fotografia dalle mani.

«Vedi, la nonna diceva che è questo qua il bambino che mi ha aiutata» mi ha detto lei, indicandomi con la punta di un’unghia il bambino con il pallone sotto il braccio.

«Ah ecco. Se avessi dovuto scommettere avrei detto invece che fosse stato lui a buttarti per terra. Guarda qua che stempiatura che aveva già da piccolino, chissà come si sarà sentito frustrato. È un attimo che poi ti metti a picchiare la gente in giro».

Serie: Il tempo che serve alle promesse


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Discussioni

  1. “«Che forte. E pensare che io me lo ricordo vecchissimo.»”
    questa frase mi ha fatto davvero sorridere, è proprio vero! Ricordo le persone che mi stavano accanto da bambina, le definivo tutte “vecchissime” ma in realtà alcune non avevano neppure gli anni che ho io ora… 🙂

  2. Ciao Roberto. Sei tra gli autori di Edizioni Open che leggo più volentieri e anche con questi episodi confermi la tua meravigliosa capacità di descrizione dei personaggi e degli ambienti in cui si muovono, rendendo i tuoi racconti stupendamente reali. Lo trovo un talento raro. Talento che invidio. Vorrei segnalarti solo una cosa: il protagonista che fa da voce narrante nella storia mi sembra ancora nell’ombra. Perché ci parla della sua famiglia? Cosa sta cercando? In che modo è coinvolto con questa ricerca delle sue radici? Dov’è il suo cuore? Forse queste domande troveranno risposta negli ultimi episodi ma credo che fornirne qualche tratto in più già dall’inizio renderebbe ancora più significativa la sua riflessione sulla storia della sua famiglia, trasportando maggiormente l’emotività di chi legge lungo quella via che unisce San Giovanni e Rupinaro.

    1. Ciao Guglielmo, ti dico in sincerità che le tue parole mi hanno emozionato, e per questo ti ringrazio. Hai ragione nell’analisi che hai fatto, e ho fatto tesoro delle tue riflessioni.
      In questo caso però c’è un motivo dietro quello che hai notato. Non so se riuscirò nell’intento, vedremo. Bisogna arrivare al sesto episodio per scoprirlo, e mi farà molto piacere avere una tua opinione se vorrai leggere fino in fondo. Grazie ancora e buona domenica!

  3. Mi piace particolarmente come passi da un tono quasi poetico mentre descrivi il paesaggio e i volti raffigurati in quella fotografia, a un tono colloquiale quando ti rivolgi a tua madre. Il dialogo è molto spontaneo e sembra quasi di vedervi lì insieme, seduti a scambiarvi ricordi. Mi sono chiesta se magari il bambino che le viene in aiuto sia il futuro marito, ma forse sono un po’ impicciona.
    Sono contenta che tu abbia deciso di proseguire con questa narrazione che risulta davvero piacevole alla lettura e, seppur nella sua unicità, assomiglia tanto a molte storie famigliari.