5 – Ridere

Serie: Il tempo che serve alle promesse


NELLA PUNTATA PRECEDENTE: «È questo qua il bambino che mi ha aiutata». «Ah ecco. Se avessi dovuto scommettere avrei detto invece che fosse stato lui a buttarti per terra. Guarda qua che stempiatura che aveva già da piccolino, chissà come si sarà sentito frustrato. È un attimo che poi ti metti a picchiare la gente in giro».

A quel punto mia mamma si è messa a ridere. Ho sempre fatto ridere mia madre, non si capisce bene il perché. Forse per quel cucchiaino di non-sense che metto sempre nelle mie battute quando tento di imitare lo stile Cochi e Renato, che quando le ascolti ti viene il dubbio di essere proprio tu a non avere capito un’uscita geniale, scambiandola erroneamente per un’idiozia, e allora per sicurezza ridi che non si sa mai.

Ho riso pure io e ho ripreso in mano l’immagine. Ed è lì che me ne sono accorto, soccorso dalla banale casualità di aver visto pochi giorni prima una delle rarissime fotografie di mio padre da ragazzino, spuntata fuori per ragioni inspiegabili dal luogo buio in cui era sempre stata. Aveva la stessa lieve stempiatura, la stessa fronte ampia e pronunciata.

«Mamma, mi avete sempre preso per il culo. A me, il vostro unico figlio. Mi avete sempre detto che da piccoli non vi siete mai conosciuti… ma questo è papà.»

«Ma figurati…»

«Ma che figurati. Guarda bene. Guarda l’espressione, guarda gli occhi, guarda come tiene le gambe leggermente curve come fosse appena caduto da cavallo. Questo è papà, non ci sono cazzi.»

Mia madre si è ripresa un’altra volta in mano la fotografia, questa volta dimenticandosi la delicatezza di prima, e per un minuto buono è stata colta da un attacco di singhiozzo.

Non i singhiozzi del pianto, proprio il vero singhiozzo. U crescentin, come diciamo noi in dialetto. Quello che nei cartoni animati te lo fanno incomprensibilmente passare come la conseguenza di una sbornia; quello che a me viene quando rido di pancia, forte, troppo, che per farmelo passare devo adottare tutti dei metodi che non mi metterò ad elencare qui tanto non mi crede mai nessuno. Eppure funzionano, dovrei brevettarli.

Guardava la fotografia ed era dilaniata dal singhiozzo.

«Mino…!» ha chiamato mia madre quando l’attacco è cessato da solo, così come era iniziato.

«Un attimo! Non vedi che sto…»

«Oh Pa’! Ma cosa vuoi che vediamo che siamo in sala?!»

«Mino! Vieni qua un secondo, presto!»

Mio padre ha sacramentato ancora un po’, perché lui si è dato la regola di vita di fare in modo che non ci sia mai un’occasione non sfruttata per sacramentare. Dice che lo aiuta a mantenersi sereno. Poi, una volta che il tributo al dio del mugugno è stato pagato, anche lui ha mollato quello che stava facendo ed è venuto lì da noi. Quello era il giorno in cui tutti sembravano dover mollare qualcosa.

«Cosa?» ha chiesto con il garbo che lo contraddistingue, passando dalla camera da letto in cui era all’ambiente unico di sala e cucina in cui ci trovavamo noi.

«Mino, guarda qui. Riconosci nessuno qui?» gli ha chiesto mia madre allungando il braccio verso di lui.

Mio padre ha preso la fotografia ed ha inforcato gli occhiali, poi ha aggiustato la distanza dal viso per metterla a fuoco al meglio.

«Questo qui è tuo padre» ha risposto, continuando a guardare la fotografia, «e la bambina piccola sei tu».

A quel punto ha fatto per restituire la foto, non avendo trovato motivazioni concrete che gli permettessero di sacramentare ancora, ma mia madre l’aveva rifiutata.

«Nessun altro? Non riconosci nessun’altro lì?»

Mio padre è tornato a guardare la fotografia e poi ha rivolto uno sguardo interrogativo a mia madre che stava a significare: Ma io che cosa ti dovrei dire?

«Guarda dietro» lo ha aiutato mia madre. Al ché mio padre ha girato l’immagine, mia madre gli ha detto che intendeva di guardare dietro di lei nella foto, non dietro alla foto. Mio padre si è indispettito, ha trovato una buona ragione per sacramentare e finalmente si è tranquillizzato un po’. «Guarda i bambini» ha continuato paziente mia mamma, «guarda quello col pallone. Lo riconosci?»

Mio padre ha un modo tutto suo di gestire le emozioni, e pur se con modalità diverse anche io sono come lui.

Ha osservato con attenzione il ragazzino col pallone sotto il braccio, senza dire niente. Lo ha fatto così a lungo che per un attimo ho avuto paura che qualcuno gli avesse schiacciato il pulsante pausa dietro la schiena, poi è tornato fra noi.

E ha iniziato a ridere, di gusto, ridere. Ogni tanto batteva le mani in un gesto di entusiasmo, sempre con la fotografia tra le dita, stando attento a non sgualcirla. Credo di non averlo mai visto ridere a quel modo, in maniera così libera e solare. Forse solo alla festa dei suoi ottant’anni, quando gli abbiamo fatto una sorpresa e lo abbiamo portato in una trattoria sulle alture dove erano già lì presenti ad aspettarlo parenti ed amici.

«Unde l’ei pigiaa sta chi? Dove l’avete presa questa?» ha domandato dopo aver ritrovato la calma mentre ancora gli potevo vedere gli occhi lucidi, che non ho avuto il coraggio di chiedergli se fosse l’effetto della risata o di altro. Tanto non mi avrebbe mai risposto.

«Era tra le foto della Lina» ha risposto mia mamma.

«Pa’, tu non l’avevi mai vista questa?»

«No, mai.»

«E te la ricordi questa scena? Ti ricordi di quella giornata? La nonna raccontava alla mamma che l’avevi difesa da un bambino; l’aveva spinta per terra.»

«Eh belin, mi fai una domanda che…». È tornato a guardare la fotografia e sul volto gli si è disegnata quell’espressione che ha sempre lui quando c’è qualcosa che gli suscita tenerezza. La bocca leggermente aperta in una manifestazione di stupore, e se uno non lo conosce non lo può sapere che lì c’è nascosto anche un sorriso che non si vuole concedere di fare uscire. La stessa bocca leggermente aperta del bambino nella foto.

Serie: Il tempo che serve alle promesse


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Discussioni

  1. Insomma, se non ho capito male, questi due genitori si erano già incontrati senza accorgersene, e a farglielo scoprire è stato il loro unico figlio…un meraviglioso cerchio che si chiude. Bellissimo!