A cosa servono le mani

Serie: Le Disillusioni (serie di racconti)


NELLA PUNTATA PRECEDENTE: Nono racconto della serie "Le Disillusioni". I racconti possono essere letti insieme oppure separatamente.

Mia nonna sgozzava i polli da morti, che da vivi le veniva pena. Prendeva la mira usando un ago sottilissimo, infilato all’altezza delle orecchie, un gesto misericordioso e truce che la faceva somigliare all’ultimo dei tre moschettieri.

«Perché fai così?»

Appendeva i corpi senza vita ai fili del bucato, giù nel cortile, e con un taglio netto apriva loro la gola. 

«Soffrono meno.»

Dondolavano fino a sera sgorgando sangue scuro.

«Nonna.»

«Dimmi.»

Fissavo i polli appesi, morti e rimorti, senza capire.

«Perché non li ammazzi una volta sola, e basta?»

«Così è più umano.» Mi passava un panetto di sapone di Marsiglia. «Tieni.»

«Non ho fatto nulla.»

«Fa niente. Lavati lo stesso.»

Alzavo le punte per raggiungere il bordo del vecchio acquaio in pietra, fregavo le mani imitando i suoi gesti.

La sera preparava pastina e brodo caldo. Infilavo il pigiama, mi rimboccava le coperte. Nelle narici saliva ancora il profumo del sapone di Marsiglia. La stessa donna, pensavo. Le stesse mani.

Così, da qualche tempo lo guardo e mi dico: «È possibile».

Si è trasferito nel quartiere circa sei mesi fa. Di tutti sono stata la prima, e l’unica, a rivolgergli la parola. Gli altri condomini se ne sono tenuti da subito alla larga, quando lo incrociano fanno ancora il giro. 

«Lo sapete chi è quello.» È la eco che rimbalza su e giù per le scale. «Lo sapete che ha fatto.»

Passo loro accanto senza voltarmi, la mia indifferenza li sfida: «Lo so».

Il paese è piccolo, la gente mormora. Si dice così, vero? Lo so benissimo cosa ha fatto. Lo so dal primo giorno, con l’ascensore rotto e lui che si offre di aiutarmi a portare le borse della spesa. Un sorriso forzato, ma il tono gentile. Io lo so cosa ha fatto, ricordo di aver pensato, un attimo prima di accettare.

Per sdebitarmi, quel giorno, gli ho offerto un caffè. Ha accettato, ma senza entrare. Lo ha bevuto fuori, d’un sorso, amaro. Lì su due piedi per come era. Non sapeva dove posare la tazzina, dopo, e nel restituirmela mi ha sfiorato la mano. La stessa mano, ho pensato, dopo avergli sorriso.

Sono venuti giorni di pioggia, le ore buie dell’inverno. Non ci siamo più incrociati. Dalla finestra, ogni mattina, lo guardavo uscire. Coprirsi il bavero con una mano, ripararsi dal freddo per come poteva.

Verso gennaio c’è stata una perdita dal pavimento nel mio bagno, l’acqua filtrava direttamente dal soffitto della sua cucina. Una domenica mattina mi ha suonato, si è offerto di aiutarmi ripararla: è così che l’ho fatto entrare in casa mia. Gli ho offerto un altro caffè. Si è seduto, questa volta. Abbiamo iniziato a parlare.

Ha viaggiato molto, letto altrettanto. Ha sempre ottimi argomenti, è un buon ascoltatore. Gli ho raccontato dei miei studi, la passione per l’America Latina, le beghe in ufficio. Di sé parla pochissimo, le rare volte in cui lo fa si aiuta con le mani. Le muove nell’aria come si dirige un’orchestra, scandisce la vita in tempi.

L’infanzia al sud, la scuola alberghiera. Un lavoro in giro per il mondo, la passione per le navi, l’amore per il mare. Qui lo sguardo si illumina, è l’unico momento in cui sembra davvero felice. Dice: il prima.

Il trasferimento al nord, il reinserimento, questo nuovo lavoro rimediato, di cui è grato, ma che non riesce ad amare. I colleghi come estranei, la famiglia che non ne vuole più sapere. Le nebbie della pianura – ma voi, come fate? – non ci è abituato. Sospira, e dice: il poi.

Del mezzo – una lite degenerata sul lavoro, un morto. Il processo. I sette anni di carcere, la condanna per omicidio colposo – non parla mai. Rinchiude tutto in quei due semplici avverbi di tempo, le sbarre che ancora si porta appresso. 

Dopo quel caffè, ne sono seguiti altri. Abbiamo iniziato ad aspettarci, fumare insieme sul ballatoio. Ha continuato ad aiutarmi con la spesa e i lavoretti di casa. La sera, o nel week end, quando i turni lo consentono, si ferma a cena. Da qualche tempo, se capita, facciamo l’amore.

Cucino piatti semplici, prima. Nostrani. Pasta al ragù, arrosto di vitello, ravioli in brodo. Mondo l’insalata, affetto i pomodori. A volte, capita calchi la mano di proposito sopra il tagliere. Capita mi soffermi, quando non guarda, sulla lama in ceramica del coltello. Capita faccia il gesto di puntarlo, come una criminale, e strani pensieri.  Lo voleva soltanto spaventare, mi chiedo, sarà stata davvero una tragica fatalità? O quel coltello non era per sbaglio, era puntato contro, e lo voleva davvero ammazzare? 

Poso il coltello, assaggio l’acqua di cottura. 

Lui sul divano, di spalle, sorride verso la televisione.

Dopocena prendiamo un amaro, paste portate da lui. Quando si fa il momento, mi segue verso la stanza. 

Ci spogliamo distanti, ognuno da un bordo diverso del letto. Ci avviciniamo a cose fatte, già pronti. 

Vengono baci cauti, orgasmi senza pretese. Si fa strada in silenzio, aiutandosi con le mani, la cautela che si riserva nelle sale d’attesa o dentro i musei. Vengono i polli, a volte, il viso sconosciuto di quell’altro, quello che è morto e non ho mai visto. Lo immagino biondo, un poco saccente. Forse a sfidarlo, forse innocente o forse, mi piace pensare, un poco se l’è cercata. Viene la vita interrotta, tolta per sbaglio o per mano sua, viene la vita rimasta, appiccicata addosso, la vita sua da vivere, dover ricominciare per forza di cose. Un animalaccio tra i piedi, un intralcio. Una patata bollente che non sai a chi scagliare. 


Non si ferma mai a dormire, dopo. Non ancora. 

Incarto gli avanzi della cena, preparo il thermos con il caffè. Prende il cartoccio in alluminio, saluta prima di uscire. 

«A domani?»

«A domani.»

Mi sveglio all’alba, ogni mattina, per salutarlo dalla finestra. 

Sistema i sacchi dell’immondizia, sbrina il parabrezza, guarda prima di attraversare la strada. Lo seguo allontanarsi, il passo veloce e il bavero alzato, dal petto mi sale la premura che si riserva a un genitore anziano, un figlio ripetente al primo giorno di scuola.

Che faccia il bravo, mi dico. E che questo mondo faccia il bravo con lui.  

Serie: Le Disillusioni (serie di racconti)


Avete messo Mi Piace4 apprezzamentiPubblicato in Narrativa

Discussioni

  1. È un brano molto bello. Prende avvio da un ricordo d’infanzia che, forse non a caso, ha come fulcro un senso di pietà. Ho trovato azzeccatissima la partizione del tempo, quel prima e il dopo di un evento che pregiudica tutto, inevitabilmente. E quel tutto è condito da un “freno” che (sensazione mia) pone un veto a lasciarsi andare davvero, alla sensualità, lasciando dentro a chi legge una tristezza sommessa (uccidiamo il pollo due volte, per pietà). Grazie molte Irene, per questo racconto dove sei riuscita a far scaturire emozioni vivide e contrastanti. Ciao e a presto

  2. Bello. La scrittura è controllata, precisa. Ha immagini potenti, simboli che ritornano (mani, lame, colpa), ritmo misurato, capacità di sottintendere senza spiegare. Proprio bello. Mi piace il tuo stile asciutto, quasi chirurgico.