Abitudini

Serie: Il solo modo che conosco


NELLA PUNTATA PRECEDENTE: Mi sono rimesso in marcia sapendo che da lì non ci sarebbero più state tappe intermedie, su un asfalto ancora caldo, dal quale salivano sino alle caviglie volute di vapore a formare una bassa nebbiolina. Sembrava vita che rinasce dalla terra.

“C’è un percorso simile di durata maggiore di 7 minuti: vuoi scegliere quello?”

Ho risposto sempre sì alla domanda del navigatore. Sono passato su strade impolverate che tagliavano campi di erba rada, abbelliti qua e là da alberi solitari che davano l’impressione di trovarsi a Frittole e conducevano a sparuti villaggi da una ventina di case al massimo. Incroci ben curati a dividere blocchi da quattro abitazioni, auto signorili parcheggiate nei vialetti. Minuscole particelle urbane sospese in mezzo a un nulla naturale, come gocce d’olio che si mantengono dignitosamente a galla in una vasca ricolma d’acqua.

Ho girato intorno alla municipalità di Tübingen come avevo fatto la sera prima con il centro di Dornbirn, fino a quando anche gli interminabili percorsi alternativi sono terminati, consumandosi uno ad uno come le sigarette in un pacchetto, che quando arrivi all’ultima sembra impossibile che quel vuoto possa un tempo essere stato pieno.

Quando si arriva in prossimità della città dalla B28 c’è un cavalcavia sulla sinistra. Bisogna imboccarlo per aggirare la strada che porta alla stazione ferroviaria, poi si prosegue fino a quando non si incontra un semaforo. A quel punto si gira ancora a sinistra per uscire definitivamente dalla Bundesstraße, si percorre il ponticello che oltrepassa il sottile Steinlach dove affluisce nel fiume Neckar e si arriva infine al lembo esterno di centro in cui è ancora possibile spostarsi con un mezzo a motore, oltre il quale solo autobus, servizi e bicilette sono consentiti.

Quando ero studente non era così. Il centro pedonale restava naturalmente tale, fatto di saliscendi lastricati da fitte pietre levigate; ma era ancora possibile proseguire oltre quel lembo e percorrere in auto il ponte principale che scavalca il Neckar e la punta dell’isola che vi galleggia in mezzo, continuare per la via che scompare dietro una curva leggera e arrivare sino ai complessi dell’Università, tutti allineati lungo la Wilhelmstraße. Qui, imboccare una svolta a sinistra e salire su per un viale alberato che non è già più centro e porta a Geissweg, lo studentato in cui abitavo. È il tragitto che avevo seguito quando ero arrivato in città il primo giorno in cui mi ero trasferito lì, con la mia vecchia Punto carica dei miei bagagli; lo stesso tragitto percorso a ritroso con le medesime cose stipate in macchina il giorno in cui, due anni più tardi, da lì me n’ero andato per tornare in Italia e laurearmi.

Quando sono arrivato al semaforo, quello che fa uscire dalla B28, il giallo si era spento e il rosso si era acceso.

Lì fermo con tutte le macchine ad accodarsi, il motore in folle e il borsone assicurato al serbatoio, mi sono guardato intorno per poi osservarmi da fuori, con l’impressione di avere già visto quella scena.

Probabilmente per via dell’orgoglio che provavo in ragione dei chilometri macinati per arrivare sino a lì e del modo in cui l’avevo fatto, mi sono concesso un pizzico di megalomania sentendomi come in una di quelle biografie che si vedono in tv, dove la rockstar attempata ritorna nei luoghi in cui tutto è cominciato, pervaso non tanto dalla nostalgia dei giorni passati ma dalla tenerezza verso l’ingenuità del ragazzo che è stato.

Non era la prima volta che mi trovavo a quel semaforo di recente. Cerco di venire a Tübingen ogni anno, non sempre ci riesco. Ogni volta in una veste differente, e anche questa non ha fatto eccezione.

Mi ha riportato coi piedi per terra un colpetto di clacson discreto ed educato proveniente dalle retrovie, ad indicarmi che il semaforo era scattato di nuovo. Ho immaginato l’autore dominare la propria impazienza bofonchiando nell’abitacolo vuoto verso di me: «Also, grüner wird’s nicht! – Allora, più verde di così non viene!». Mi ha sempre fatto ridere come suona in tedesco.

Ho innestato la prima e sono partito, scusandomi con un cenno della mano. Da lì sono stati sufficienti appena una manciata di secondi per attraversare il ponticello, arrivare all’ultimo metro carrozzabile prima della zona a traffico limitato e svoltare a destra, subito prima del ponte, così da fermarmi davanti alle porte scorrevoli dell’hotel che avevo prenotato per quella notte e la successiva.

Quando vengo a Tübingen scelgo sempre quello, è un regalo che mi faccio (oltre a quello di essere di nuovo in città). Niente di irraggiungibile naturalmente, ma sicuramente non è la camerata mista dell’ostello. Scelgo sempre la stanza singola, ma quando mi dice bene mi assegnano ugualmente la doppia. A me l’unica cosa che interessa è che abbia la finestra che affaccia sul Neckar, perché ho un debole per l’acqua che scorre, e vederla appena sveglio mi migliora la giornata.

Ci sono un altro paio di alberghi degni di nota. Uno è ai piedi del castello, nella zona pedonale; l’altro è a pochi metri in linea d’aria dal mio, sull’altro lato del ponte, ci sono stato la prima volta in cui sono tornato qua da grande. Ma io preferisco questo perché poggia direttamente sulla sponda del fiume. Fare colazione la mattina presto proprio sulla riva quando l’aria è piacevolmente pungente, con le foglie dei salici che toccano l’acqua e il profilo colorato della città arroccato sulla collina, tutto questo è come essere parte di un dipinto che mi riempie sempre di emozione, visto da una prospettiva che non potevo concedermi da studente. Così come è ugualmente ipnotico mangiare all’interno, nelle mattine di pioggia, e godersi attraverso le pareti a vetro lo spettacolo degli scrosci sospinti dal vento che si riversano sul fiume, l’acqua che alimenta l’acqua in un circuito maestoso senza fine.

Terminata la registrazione alla reception la signorina dietro al banco mi ha consegnato la scheda per la mia stanza e quella per poter entrare nella rimessa coperta. Lì, in mezzo a tutte quelle auto, ho parcheggiato Greta con soddisfacente arroganza in uno degli ampi stalli riservati solitamente alle macchine, così come la signorina mi aveva detto di fare. 

Uno squisito spreco di spazio che mi sono voltato a guardare un paio di volte prima di imboccare la porta d’uscita.

Serie: Il solo modo che conosco


Avete messo Mi Piace1 apprezzamentiPubblicato in Narrativa

Discussioni

  1. Mi immagino mentre faccio colazione.. “la mattina presto proprio sulla riva quando l’aria è piacevolmente pungente, con le foglie dei salici che toccano l’acqua e il profilo colorato della città arroccato sulla collina” questa descrizione è stupenda. Tutto l’episodio è particolarmente evocativo. 👏👏 👏Alla prossima tappa tappa

  2. Sto cercando di memorizzare le preziose informazioni che fornisci, nel caso decidessi di visitare quella città. Complimenti per le descrizioni, mi sembra di vedere quei luoghi (e mi hai fatto venire voglia di andarci).