Alla cortese attenzione del Sig. Algoritmo 

Egregio,

Vengo con questa mia a dirle, che ho commesso un gravissimo errore e me ne rammarico.

Il dispiacere è stato talmente forte, che ho sentito l’inderogabile necessità di doverle delle spiegazioni.

Il senso di colpa è una serpe perfida, che striscia silenziosa tra gli anfratti dell’anima. Si nasconde sotto le aride pietre dell’ego e soltanto quando decidi di sollevarne una, ecco lì, che, stanata e non più protetta dal buio dell’ignoranza, scatta furiosa, e ti colpisce col suo veleno.

Chiedo scusa per il preambolo, eccessivamente ossequioso e anche un po’ maldestro, e vado subito al dunque.

Io, quel giorno, ho deciso di fare di testa mia.

Non so cosa mi abbia preso.

Forse un po’ per gioco, ho provato a navigare il mondo con la mia malconcia zattera. Ho voluto conoscere e saggiare i miei pregi e i miei difetti, capire fin dove avrei potuto spingermi. Perlustrare il mare dell’ignoto con la certezza del solo mio essere ed esserci. Illuminato unicamente dall’esperienza e da quello che ho imparato. Proprio come faceva mio nonno, che chiamava la sconfitta una mezza vittoria.

Oppure sarà stata l’ingenuità a fregarmi, o la curiosità. Ma la curiosità è figlia dell’incoscienza, e poggia su un gradino piccolo e stretto, dove preferiamo non rimanere, molto meglio raggiungere il pianerottolo più rassicurante della ragione e della consapevolezza.

Ho scritto di un mio errore. È stato qualcosa di più. È stato abominio. Addirittura, peccato. Un tempo, ci sentivamo progenie delle stelle, ma, al giorno d’oggi, di quelle stelle siamo divenuti orfani. E siccome, per capire chi siamo, abbiamo bisogno di sapere da dove veniamo, non ci resta che appellarci a lei, Sig. Algoritmo. Grazie a lei abbiamo riempito la scatola vuota della sacralità, mettendoci dentro un nuovo bellissimo feticcio. E poiché lei sa tutto di noi, sceglie e decide tutto per noi, ci conosce meglio di chiunque altro, io mi sono sentito al sicuro.

È questo il motivo per cui ho parlato di peccato: esso origina dalla presunzione, dall’orgoglio, dalla mancanza di umiltà. Il sottoscritto era inciampato nella scivolosissima convinzione di credersi vivo e pensante, anzi vivo perché pensante. E che questo, in qualche modo, potesse bastare.

Quanta arroganza, vero? Quanta supponenza? Immaginarsi una vita costellata di errori e scoprire in essi l’unico senso e significato della vita stessa. La traccia del nostro passaggio e del nostro passato. Come quando da piccolo mettevi la mano sul termosifone acceso e ti scottavi e poi piangevi.

Che stupido! Che sciocco, che sono stato! Molto meglio affidare tutto a lei, prostrarsi al suo insondabile sguardo!

 

Certo, con ogni probabilità, il prezzo da pagare sarà quello di ritrovarsi a vivere un’esistenza un tantino incolore e insapore, direi pure vuota, anzi, insipida come la minestra che mi propinava mia suocera alle cene, ma vuole mettere la comodità di non fare, di non scegliere, di non sbagliare, evitando il pesantissimo giogo della responsabilità?

 

Me ne rendo conto solo adesso.

Certo di un suo generosissimo perdono, l’occasione mi è gradita per porgerle le mie più sincere scuse.

Cordiali Saluti.

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Discussioni

  1. Io invece ho apprezzato il tono prolisso e ridondante, credo sia adatto ai contenuti, e mi è suonato proprio come una sorta di “sermone” al contrario. Con il Signor Algoritmo che invece di predicare feed a destra e a manca per una volta ascolta, si sta zitto e magari lui impara qualcosa. 😉

  2. “Quanta arroganza, vero? Quanta supponenza? Immaginarsi una vita costellata di errori e scoprire in essi l’unico senso e significato della vita stessa.”
    a parte che è un passaggio potentissimo, io qui ho colto una punta di sarcasmo, o forse semplicemente la speranza che il Signor Algoritmo un poco arrossisca e si dica che no, non erano arroganza o supponenza. Era meglio la vita piena di errori.

  3. Il racconto non mi convince: il concetto base – il povero algoritmo – è sepolto da una montagna di parole (ben scritte, nulla da dire) troppo gonfia, pesante, superflue.
    Una mole di parole che rendono il racconto poco incisivo, con lo sprint finale bruciato dal lungo e faticoso percorso che rende la chiusura lenta, barcollante.
    Preferisco i racconti che puntano direttamente al centro della Storia senza non girarci intorno, soprattutto sul web dove la lettura al monitor è meno agevole.

    1. Ciao Mario, grazie per il tuo commento schietto e sincero. In realtà, il mio intento era proprio quello. Un testo ridondante, prolisso, faticoso (come dici bene tu), probabilmente troppo pesante come spesso lo sono certi riti religiosi, dato che sull’altare, oggi come oggi, secondo me, l’algoritmo è il nuovo vitello d’oro. Apprezzo molto comunque i tuoi consigli, che terrò a mente le volte future. A presto!

  4. “ma vuole mettere la comodità di non fare, di non scegliere, di non sbagliare, evitando il pesantissimo giogo della responsabilità”
    Molto forte e davvero attuale. Quante volte questo pensiero ci sfiora. L’importante è, però, ricordarsi di quella minestra e cambiare subito rotta!