All’occhiata fugace

Freddo, buio e desolazione non costituiscono di certo una combinazione ottimale per l’uomo in cerca di conforto. Proprio in una tale situazione mi ero ritrovato tuttavia, dopo che il sole era calato già da un pezzo, quando girovagavo per le strade silenziose della Città. Nei paraggi non c’era anima viva all’infuori di me, il che accentuava il mio senso di smarrimento che era tanto più elevato quanto a poco a poco mi accorgevo dell’estensione della comunità in cui mi ero attardato. Se si aggiungeva poi il fatto che questa comunità era a me del tutto sconosciuta, potete ben immaginare le mie sensazioni.

Ma fortunatamente non passò molto tempo prima che mi imbattessi, senza che nemmeno me lo aspettassi, in una stretta via il cui centro mi sembrava colorato di una fioca tinta d’arancio. Dopo essermi avvicinato appurai che era davvero così: poco al di sopra della mia testa vi era un pannello di legno appeso con due vecchie catene, illuminato dal bagliore caldo di una piccola vetrata. L’interno di questa vetrata era celato da uno – o forse erano due? – strato di tendaggio piuttosto spesso, così che se uno, passando di lì, voleva dare una sbirciatina all’interno, sarebbe stato prontamente impossibilitato ad attuare il suo curioso ma innocente intento. No, l’unica anticipazione che si poteva chiedere sul conto di quel locale furtivo era il nome, non un dettaglio di più, e questo nome era riportato proprio sul pannello di legno appeso, cioè «L’occhiata fugace».

Senza tante esitazioni spinsi il pesante portone poco oltre l’insegna e, come avevo immaginato, mi ritrovai all’interno di una locanda. E si trattava anche di una locanda piuttosto accogliente, sebbene sulle prime avvertii un certo senso di disorientamento. Trovai che era strano essere passato dal buio e dalla solitudine a un ambiente illuminato, caldo e abitato da altre persone. Già, perché ad accogliermi fu subito quello che pensai essere il proprietario, il quale tuttavia mi informò che non c’erano alloggi disponibili nella sua locanda. «Non ve ne sono mai stati, a dire il vero, signore. Una cena e una serata in compagnia è quello che offriamo».

Pensai che, se non altro, una cena al caldo era sempre meglio di niente in una nottata fredda come quella: presi un posto e, dopo aver ordinato, qualcuno venne a parlarmi. Era un uomo anziano dalle apparenze serie. «Sei appena entrato, non è vero? Oh, guarda! Arriva qualcun altro» disse con una certa fretta nella voce. In effetti, altre due persone si erano appena chiuse la porta alle spalle, e subito il locandiere si precipitò da loro. «Quelli devono essere gemelli, mi sa». Poi, come se niente fosse, indossò giacca e cappello e uscì dal locale.

Giudicai strano il suo comportamento, ma non me ne curai più di tanto e, quando mi venne portata la cena, smisi di pensare a lui. Non mi riguardava. Nel frattempo, però, non potevo fare a meno di notare quante persone si muovevano per tutta la locanda: alcuni si guardavano attorno come a studiare il luogo in cui si trovavano, altri si godevano semplicemente l’atmosfera e apparivano del tutto immersi, altri ancora manifestavano ora gioia e ora malinconia, ora pace e ora afflizione. C’era una varietà di spirito, nella stanza, a cui era impossibile mostrare indifferenza.

Cominciavo a sentirmi a mio agio, lì dentro, e presto il disorientamento svanì. Ma continuavo a osservare un ininterrotto viavai di gente: da dentro a fuori e poi da fuori a dentro, ancora e ancora. «Ma dove vanno a finire, e da dove sbucano, tutti quanti? Solo un istante prima, la Città era un deserto» pensai. Mi sorpresi, peraltro, a scoprirmi irritato dalla presenza di tutte quelle persone, e d’un tratto la locanda non mi appariva più tanto accogliente. Il padrone continuava a dare il benvenuto a quelli che entravano, e a congedare quelli che uscivano. E non si stancava mai.

Presi a guardarmi intorno in cerca di qualcosa da fare, domandandomi in quale maniera fosse meglio per me trascorrere il tempo. Osservavo gli altri, ma non erano fonte di grande ispirazione. «Ma che fanno qui tutti quanti, oltre a mangiare e parlare? Beh, ma è una locanda, cos’altro dovrebbero fare?»

Mentre me ne stavo lì fermo a pormi questioni inutili, qualcuno dovette notare il mio atteggiamento insolito e, dopo qualche istante, quel qualcuno me lo ritrovai davanti. Era una donna, e non aveva ancora terminato la sua cena. Improvvisamente – troppo improvvisamente, mi parve – la mia irritazione si dissolse nel parlare con lei, e il cibo che avevo nel piatto acquisì un gusto migliore. Sono sicuro che valeva lo stesso per la mia interlocutrice, la quale si era portata la cena dal suo tavolo al mio, con tanto di posate e tutto quanto, e ora avvicinava il cucchiaio alla bocca con maggiore frequenza. «Beh, è una locanda, cosa c’è di meglio di starsene al calduccio a mangiare e parlare con le persone?»

Quando lei finì la sua cena, però, ancora troppo improvvisamente si alzò da tavola e, dopo un breve saluto, la vidi già dirigersi verso l’uscita, seguita da un sonoro grido del locandiere: «Addio!»

Allora, quel locandiere mi divenne subito antipatico. Anzi, tutti gli altri presenti ora mi davano il disgusto. «Ma che diavolo fanno qui tutti quanti, oltre a mangiare e parlare, e a sprecare il loro tempo?»

Ma poi una specie di asettica rassegnazione mi investì, e la neonata irritazione fece spazio all’indifferenza. Il mio piatto era quasi vuoto. «Che strana locanda che è questa, non ci capisco proprio niente».

Senza quasi accorgermene, mandai giù l’ultimo boccone e stetti lì per un po’ a osservare le mie posate. «Beh, non c’è più nulla da fare qui, meglio che vada ora» e mi alzai in direzione della porta. «Addio!» urlò di nuovo il locandiere. «Non si stanca proprio mai» riflettei mentre mi richiudevo la porta alle spalle.

Fuori era proprio come all’inizio: freddo, buio e desolazione. Ma questa volta nessuna fioca tinta d’arancio a illuminare il pannello di legno.

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Discussioni

    1. Ciao Tiziana, grazie del commento! Esatto sì, con questo piccolo testo volevo proprio assumere un tono un po’ simpatico, leggero. Forse un po’ per effetto di contrasto per quello di cui invece tratta davvero.

  1. “l’unica anticipazione che si poteva chiedere sul conto di quel locale furtivo era il nome, non un dettaglio di più, e questo nome era riportato proprio sul pannello di legno appeso, cioè «L’occhiata fugace».”
    Un invito implicito a proseguire con la lettura 👏

  2. Ciao Gabriele. Assolutamente affascinante, già dalle prime righe, in cui hai personificato la Città usando l’iniziale maiuscola. E’ proprio quella città, è una città qualunque, è un luogo senza memoria eppure tutti lo conosciamo. Poi quella sensazione di straniamento e di normalità ad un tempo. Una tappa obbligata verso… Da leggere almeno due volte!