Amici

Serie: Gabbia Metallica


Sam si risveglia da un incubo e si rende conto di trovarsi sotto il tetto della sua abitazione fatiscente nella cupa città di Avern. Incontra i suoi due amici e coinquilini: Afton ed Efe

    STAGIONE 1

  • Episodio 1: Incubi
  • Episodio 2: Amici

Afton spalancò la porta e si chinò su di lui. Lo punzecchiò con un dito sulla spalla. «Hai fatto un altro incubo, Sam?» disse ridacchiando. «Hai urlato come una bambina. Per un attimo la tua voce ha coperto persino il suono della sirena, ma che hai sognato?»

«Già a rompermi, eh Afton? Non dovresti essere a lavorare?» sbuffò Sam, ancora con le palpebre pesanti e la fronte corrucciata.

«Per tua fortuna questo periodo posso permettermi di andare più tardi.»

«Che meraviglia!»

«Contento?» replicò Afton con un sorrisetto. Uscì dalla stanza e tornò subito dopo con indosso la sua lunga giacca e una be-vanda fumante tra le mani. Dal suo viso, l’espressione scherzosa era svanita. «Io vado. Ci vediamo dopo.»

Afton viveva approssimativamente da 300 anni. Diversi decenni più grande di Sam, aveva un fisico slanciato. Aveva lunghi capelli castani e occhi scuri. Era impossibile vederlo senza che avesse indosso il suo inseparabile cappello nero dalla visiera corta e tozza, decorata con motivi dorati disegnati a mano.

Lavorava come manutentore in uno dei venti impianti di collegamento della città: strutture colossali responsabili della distribuzione dell’energia che alimentava l’intero agglomerato urbano. Essa proveniva da immense cavità che, come giganteschi crateri, scavavano nel profondo della città. Dagli abitanti venivano chiamate “Prese”. Esse erano circondate da enormi anelli di contenimento: mura che spiccavano sopra qualsiasi altro edificio di Avern. Dalle Prese fuoriuscivano migliaia di cavi spessi come tronchi d’alberi: s’innalzavano verso l’alto per poi ricadere come colate laviche cedendo sotto il loro stesso peso. Si ramificavano poi in diramazioni più sottili che penetravano nel sottosuolo e riemergevano a pochi chilometri di distanza, avvolgendo le abitazioni in neri guanti tentacolari.

Sam rimase a lungo a fissare il soffitto, ancora scosso da quell’ incubo terribile che già faticava a ricordare. Allungò una mano oltre il bordo del materasso e, con fatica, afferrò il segnatempo. Controllò l’ora, si stiracchiò e si alzò. Facendo attenzione a non urtare i bulbi sporgenti appesi al soffitto, uscì dalla stanza e si diresse verso il bagno. Provò ad aprire la porta, ma era chiusa a chiave.

«Efe.»

«Ho fatto Sam, ora esco» rispose l’amico dall’altra parte.

Poco dopo, Efe uscì dal bagno e, mentre si vestiva nel corridoio, aggiunse: «Hai avuto un incubo? Ti ho sentito urlare.»

«Sam entrò nel bagno lasciando la porta socchiusa e iniziò a lavarsi.

«Già.»

«Ultimamente ti succede spesso, o sbaglio?»

«Non sbagli, purtroppo.»

«Secondo me, a forza di ascoltare le assurdità di quel vecchio, ti stai friggendo il cervello.»

«Ancora con questa storia?»

«Ti vuole solo spillare crediti.»

«Non mi vende nulla.»

«Se lo dici tu…»

Sam si lavò i denti e sputò l’acqua, che scorse a fatica lungo la superficie arrugginita del lavandino metallico e confluì nel bocchettone, emettendo un suono strozzato.

«Tu hai dormito bene?»

«Più o meno. Il dispenser ha ricominciato con quel rumore fastidioso, mi ha svegliato un sacco di volte.»

«Giusto, il dispenser. Oggi gli do un’occhiata.»

«Grazie. Io vado, ci vediamo dopo.»

«A dopo. Stai attento, per favore.»

«Sì.»

«Hai con te il coltello?»

«Sì sì, so badare a me stesso, Sam» rispose Efe prima di uscire frettolosamente.

Efe era il più giovane dei tre. Nessuno ricordava con esattezza la sua età, ma a giudicare dall’aspetto sembrava portarsi addosso almeno 170 anni di vita. Era un omino esile e basso, con capelli biondi e occhi di un castano chiaro; indossava sempre abiti molto larghi. Lavorava come manutentore delle stampanti, macchinari in grado di convertire l’energia proveniente dalle profondità in materiali inorganici di ogni tipo, impiegati per costruire.

Lo sguardo del ragazzo non riusciva a celare la sofferenza di un passato tormentato: d’altra parte lo stesso sguardo era osservabile in tutti gli abitanti di quella città scura e opprimente; forse in Efe si notava particolarmente per il fatto che fosse giovane, ed il suo viso ancora non segnato dall’età era in forte contra-sto con il dolore che lasciava trapelare.

Era arrivato ad Avern circa un secolo prima. Sam e Afton l’avevano trovato in stato di shock sotto un portico nel quartiere di Anax, nel quadrante sud della città. Tremava spasmodicamente, rannicchiato sul pavimento con indosso solo pochi stracci e le mani tra i capelli.

Parlava raramente del suo passato e, quando lo faceva, restava sul vago, cercando subito di cambiare discorso. Da quel poco che aveva detto, Sam ed Afton avevano capito che era fuggito da casa: i suoi genitori, a suo dire, erano diventati dipendenti da una sostanza psicodegenerativa molto diffusa nel settore, nota come “scoria”. Diceva inoltre di aver vissuto in una cittadina chiamata Gear; Sam affermava sempre di averne sentito parlare, asserendo con fierezza di aver letto che si trovasse anch’essa, come Avern, nel settore 81.880 dell’Iperstruttura.

Sam finì di lavarsi e si vestì. Indossò la sua giacca di pelle nera e, affiancato da cavi spessi che correvano lungo entrambe le pareti, percorse il corridoio stretto e largo appena quanto le sue spalle. Si fermò di fronte al dispenser, situato davanti alla stanza di Afton ed Efe, in fondo al corridoio, dal lato opposto rispetto alla porta d’ingresso. Girò la manopola sul fianco della macchina e lasciò che il liquido caldo colasse nella tazza. Ne assaggiò un paio di sorsi, poi fece una smorfia: non riusciva a capire come Afton potesse trovarlo gradevole. Se non altro quell’intruglio gli infondeva un po’ d’energia, altrimenti non sarebbe neanche riuscito ad oltrepassare la porta di casa, tanto poca era la sua voglia di cominciare il ciclo lavorativo. Attraversò nuovamente il corridoio, la sua testa si abbassava automaticamente di tanto in tanto per evitare le lampade allineate sul soffitto; per schivarle, il ragazzo non aveva neanche bisogno di vedere dove fossero situate, affidandosi esclusivamente alla sua memoria muscolare.

Spinse con forza la pesante porta di ferro, facendole oltrepassare a fatica un punto d’attrito causato dal pavimento irregolare. Uscì dalla piccola abitazione e girò la chiave cilindrica nella serratura.

Continua...

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